Give yourself away. Etica e arte a partire dalla“fine” degli U2

 
 
Stavolta pensavo che non ce l’avrei fatta. A trovare un senso, una bellezza nascosta, a scrivere ancora appassionatamente di loro. Quando cominciarono a girare su internet i primi singoli, le prime anticipazioni di questo nuovo album della band di Dublino, pensai “questa è la volta buona che li mando a quel paese (un brutto paese, dove le strade hanno – tristemente – i loro nomi, e si respira male)”. Sembravano canzonette della peggior risma, soprattutto Get Out of Your Own Way, con quel doppio stucchevole ritornello che ritorna identico più e più volte, col “mega-coro” enfatico e il “riffone” troppo lirico e scontato di Edge e – apparentemente – poco altro. Quando poi fecero circolare American Soul, che riprende pari pari il refrain di Volcano, brano dell’album precedente, amareggiato fui tentato di dare ragione ad uno dei commentatori della pagina facebook, che diceva più o meno: “sono un grande fan da sempre, ma questa canzone sucks, stanno raschiando il fondo del barile”.
Non era così. Io e quel commentatore – tra i tanti delusi – avevamo torto. In effetti stentavo a credere che Bono & C. fossero caduti così in basso da non trovare di meglio che appiccicare pezzi di canzoni vecchie a quelle nuove per mancanza di ispirazione. In realtà, si tratta di una strana e coraggiosa operazione che pervade l’intero album (oltre ad American Soul che riprende Volcano, tra i casi più vistosi c’è la meravigliosa Lights of Home che riprende Iris e 13, il brano finale, che mutua lunghi tratti di Song for Someone). Non parliamo soltanto di citazioni, di rimandi più o meno nascosti tra brani dello stesso disco (come accade abbastanza di frequente nei long playing, e come anche gli U2 avevano fatto, ad esempio, in No Line on the Horizon, dove un frammento testuale e musicale veniva sapientemente trasformato e ricollocato – probabilmente da Eno – in più di un brano); no: qui si tratta di ampi stralci dei pezzi di Songs of Innocence che vengono saldati nelle canzoni di Songs of Experience, mostrando come i due ultimi dischi della band siano inscindibili e parti coese di un unico complesso concept. Il tutto può piacere o non piacere, ovviamente, ma quel che diviene certo dopo i primi ascolti del nuovo cd è che ogni secondo del disco è retto da un’idea di fondo ben precisa. Nessun barile viene raschiato, tant’è vero che sono rimasti fuori brani a mio parere decisamente emozionanti, che erano circolati in questi anni, ma che evidentemente non erano “finiti” (come diceva a volte Bono presentandoli ai concerti), o non erano coerenti con l’idea di fondo, ad esempio North Star.
A dire il vero, Get Out of Your Own Way continua a suonarmi alquanto stucchevole, ma, a chi come me è allergico a un pop scientemente confezionato con fiocchetti ipercommerciali come questo, consiglio di: 1) ascoltarla con il testo a portata di occhi: testo che, come quasi tutto quello che esce dalla penna di Paul Hewson, non delude e per certi versi contraddice la confezione musicale del brano; 2) tenere ben presente che – alla luce delle due strofe (notevole in particolare la seconda) – l’identico refrain con l’ammonimento del cantante a cambiare idea, eforse più precisamente a non mettersi i bastoni tra le ruote, è indirizzato la prima volta a una sua figlia, la seconda all’America (agli statunitensi) e la terza, forse, a tutti quanti indistintamente, lui compreso; 3) aver chiaro che il brano, duramente anti-Trump, è destinato alla più ampia diffusione possibile, verosimilmente per fini politici oltre che – e forse più che – commerciali.
La canzone è impreziosita dal caustico discorso della montagna che la collega alla successiva American Soul: discorso anche-anti-Trump, affidato alla voce e agli effetti sonori del rapper Kendrick Lamar (qualcosa come: “Beati gli arroganti, perché loro è il Regno in cui si faranno compagnia da soli… beati i bulli, perché dovranno vedersela con loro stessi… beati i ricchi sfondati, perché l’unica cosa che puoi davvero possedere è ciò che di te sveli e condividi [what you give away], come il tuo dolore”). Tra queste varie, ironiche, amare beatitudini ve ne sono almeno un paio che si possono probabilmente intendere anche come moniti che Bono rivolge a sé stesso: “Blessed are the superstars…” e forse pure quest’ultimo “Blessed are the filthy rich…”. Ora, non credo che il nostro Hewson possa essere considerato un ricco sfondato alla stregua di un Trump, ma è chiaro che anche lui è molto, molto abbiente. È un uomo che guadagna moltissimo, che investe, e che impiega parte del proprio denaro in attivismo sociale, al punto che ormai va considerato un attivista non meno che un musicista: la One Campaign è già una cosa enorme, e mi pare stia ottenendo risultati importanti.  È uno che paga giustamente molte tasse in giro per il mondo, e che ha deciso da qualche anno di pagarne di meno tramite un’elusione che, per quanto legale, è certo moralmente discutibile, e stride non poco con l’indubbio valore etico del progetto U2: in questo caso non penso che si possa liquidare la questione col solito argomento della separazione tra il giudizio artistico sull’opera e quello morale sull’uomo. Ad ogni modo, cercando un po’ in rete ci si rende presto conto che il gossip sensazionalistico sul Bono evasore è ampiamente da ridimensionare.
Ma quanto più ci interessa è come finisce la strana beatitudine sui filthy rich: “you can only truly own what you give away, like your pain”. Si possiede davvero solo ciò che si dà. E già questo, che da un paio di millenni e mezzo in qua non è più un paradosso, resta difficile da credere e da fare, tanto quanto è facile da dire. Ma “to give away”, nell’accezione tipica degli U2, non è semplicemente dare, regalare: è un rivelarsi che ha il valore di un dono, e che implica il rischio dello scacco, della sovraesposizione. La presenza più nota di questo concetto nel percorso dei quattro Dubliners è il refrain di With or Without You, dove lo you di “and you give yourself away” evidentemente non è lo stesso you di “without you”: è anche un io, ed è anche metanarrativo. Il cantante si rivolge a sé stesso e a chi lo ascolta.  È quasi un impersonale, qualcosa come: “e ci si svela, ci si svela…”
Give oneself away è aprire il proprio cuore all’altro, mettersi in gioco, rischiare: rischiare di essere feriti, di non essere compresi, di dare senza ricevere, di dare verità e ricevere bugie, o mezze verità, di dare amore e ricevere indifferenza. Il rischio è grande, ed è tanto più grande quanto più si è sensibili. Ma l’alternativa – l’eccesso di auto-protezione – è la sterilità, l’inaridimento della propria vita, la solitudine. Give oneself away è anche avere il coraggio di mostrarsi per ciò che si è, di essere pienamente sé stessi. E vivere il presente senza risparmiarsi, come risulta chiaro anche da Last Night on Earth (da Pop), dove si racconta di una lei che vive come se fosse il suo ultimo giorno, e il coro commenta, appunto, “You gotta give it away!”. L’ammonimento contro l’eccesso di controllo e di razionalizzazione come difesa dalla vita, del resto, è un tema ricorrente negli U2: ad esempio, in Original of the Species, Bono canta “Come on now, show your soul / You’ve been keeping your love under control!”; e anche nel penultimo brano dell’album appena uscito, si dice nello stesso senso, anzi si canta: “As you’re walking, start singing and stop talking”.
In With or Without You Bono, appena diventato (o sul punto di diventare) una star di livello mondiale, cantava del suo darsi, aprirsi, mettersi in gioco nei confronti della moglie, e viceversa; e lo faceva dandosiconsapevolmente (in pasto) al pubblico, rivelando quella sofferenza così privata, così delicata al mondo intero per il tramite dell’industria culturale. “And you give yourself away” – ripetuto più e più volte nel brano – sta a significare, credo, entrambe le aperture al contempo.
Per quale motivo sia beneaprire il proprio cuore alle persone care è stato detto sopra. Ma il secondo passaggio? Perché dare in pasto la propria intimità a milioni di persone, vendendola nei negozi e ai concerti, e facendoci guadagnare sopra tutta una serie di intermediari industriali? Be’, forse perché l’arte richiede questo. I testi – anche le lyrics della popular music – nascono spesso dall’intimo più sacro, e lo esprimono. La bellezza che ne risulta è già una mediazione rispetto al frammento infinitamente prezioso di vita intima da cui è nata, ma lo rispecchia fedelmente, sinceramente. L’artista, poi, deve condividere quella bellezza: da che mondo è mondo, deve venderla, o quantomeno mostrarla a un pubblico. Ci si deve però chiedere che cosa possa o debba restare, a questo punto, del sacro e della fedeltà ad esso, cioè in che misura questo secondo passaggio possa o debba davvero essere un’apertura del cuore, un giving oneself away. Già nel momento in cui un brano della propria arte – poetico, o musicale, ad esempio – viene collocato accanto ad altri in un libro, in un album, per non parlare di quando viene rappresentato in pubblico, c’è un ulteriore momento di mediazione nel quale la sincerità può continuare a darsi solo nella misura in cui è consapevole dell’artificio (e l’artificio viene elevato all’ennesima potenza quando l’oggetto artistico in questione è inserito nel circuito promozionale dell’industria discografica pop). In quel momento possono entrare in gioco, contrastandosi più o meno nascostamente a vicenda, diversi impulsi, desideri e coazioni: il desiderio dell’apprezzamento altrui (del riconoscimento, della fama), il bisogno/desiderio di arricchirsi affidandosi alla promozione industriale, la quale a sua volta pretende di imporre le sue logiche commerciali (con le conseguenti, eventuali, concessioni ad una maggiore fruibilità di alcuni brani), la volontà di trasmettere emozioni e pensieri che aiutino qualcuno in qualche modo, l’esigenza di restare coerenti con i propri criteri estetici… Solo tramite la consapevolezza di questi aspetti contraddittori e di tutte le mediazioni che sono in gioco si può continuare ad essere soffertamente sinceri nel giving oneself away anche dal palco di uno stadio o dai solchi un cd. E io credo lo si debba fare, se si vuole che la bellezza non si perda. Bono comincia ad atteggiarsi a rockstar proprio nel video di With or Without You, ed è abbastanza chiaro fin dall’inizio che quella sofferenza teatralizzata include sia il dolore originario da cui proviene la canzone, sia la preoccupazione frammista a gioia e ambizione per l’inevitabile, utile ma pericolosa mediatizzazione, mondializzazione dell’intimità.
(Si potrebbe ulteriormente riflettere sul fatto che anche nelle confessioni intime, private, entrano in gioco emozioni contrastanti, e che anche a quel livello-base la sincerità implica mediazione, consapevolezza delle proprie complessità, e non si può confondere con la spontaneità… ma questo forse ci porterebbe troppo lontano).
Mi arrischio a chiamare in causa, a questo proposito, la nozione marxista di “falsa coscienza”, riformulandola – con l’aggiunta di un grammo di psicologia del profondo – in modo da affermare che ciò di cui bisogna essere consapevoli per non cadere nella falsità “ideologica” non sono solo gli onnipervasivi meccanismi capitalistici, volti al profitto a tutti i costi, ma anche e soprattutto quegli aspetti spirituali che (su questo Marx ovviamente non concorderebbe) ne stanno alla base e li tengono in vita. “Falsa coscienza”, così riformulata, è certamente quella dell’artista che parla di rispetto, amore, riforma sociale, ma lo fa senza problematizzare il proprio rientrare in un sistema economico e politico che va spesso nella direzione opposta, o quella di chi non sembra riflettere sul fatto che vende la propria disperazione esistenziale quasi come un marchio di fabbrica (speculandoci e facendoci speculare sopra, disco dopo disco, e quindi rendendola sempre meno credibile); ma “falsa coscienza” può essere pure quella dell’artista che non si rende conto di quanto il suo parlare di diritti o il suo disperarsi in pubblico siano in realtà anche tentativi di essere adorato per motivi di compensazione narcisistica, o perfino quella del performer politicamente colto che però, dietro la propria durezza e purezza di antagonista, nasconde – in qualche misura anche a sé stesso – un’enorme egotica volontà di affermazione sociale. Restando nell’ambito della popular music degli ultimi due decenni del secolo scorso – il periodo che conosco un po’ meglio – possiamo provare a riconoscere, tra gli artisti più celebri, alcune delle posizioni che è possibile assumere nel rapportarsi all’industria discografica e allo star system (con le inevitabili approssimazioni e ingiustizie di una sintesi così estrema).
C’è la soluzione ascetica: ad esempio quella dei Radiohead, più o meno coerentemente anti-divi, schivi, a tratti musicalmente difficili, spesso sublimi… e che, volenti o nolenti, finiscono – per ciò stesso – per diventare oggetto di culto entro una cerchia più o meno ristretta di fan: a una sorta di idolatria pare non si possa (ammesso che davvero lo si voglia) sfuggire nell’ambito della popular music. Ma va ricordato anche il tentativo – forse velleitario, ma ammirevole – da parte della band di Thom Yorke di eludere la macchina discografica con l’iniziale download digitale, a offerta libera, di In Rainbows. C’è la soluzione dei Dire Straits di Money for Nothing, che trovo altezzosa nella misura in cui l’io cantante coincide con Knopfler (in tal caso guardano dall’alto in basso chi guadagna facile ed è pieno di donne pur avendo una tecnica chitarristica inferiore alla loro), e trovo comunque alquanto triste se – come la band ha affermato – il punto di vista espresso è quello di  impiegati di un negozio di elettrodomestici che giudicano i musicisti pop in generale (in tal caso la canzone mi pare espressione della depoliticizzazione dei peggiori anni Ottanta, del tipo: “chemme frega del popolino, è rozzo e volgare e non capisce noi artisti!”). C’è poi il caso The Cure: se Seventeen Seconds –un gioiellino nel suo genere – faceva penetrare nell’oscurità adolescenziale da cui proveniva, i successivi e celebrati Faith e Pornography mi sembrano un’ostentazione di oscurità per adolescenti; trovo semmai più sincerità (meno falsa coscienza) in un album schizofrenico come Kiss Me Kiss Me Kiss Me, nel quale le ballate apocalittiche si alternano a brani follemente scanzonati e dolci mostrando bene i due volti – entrambi irriflessivamente pop – di Robert Smith. Il cocktail preparato dai Nirvana con la musica nuova di Seattle, i testi deliranti di Cobain pieni di rimandi allegorici a un mondo privato (testi in cui il particolare non ci provava nemmeno un po’, a diventare universale), e la voce che traduceva direttamente la disperazione più atroce in canto: quel cocktail generò una bellezza che sfidava ogni omologazione, ma la cui mancanza di profondità fece poi a volte cadere la band nei luoghi comuni più beceri e più irriflessivamente funzionali al carrozzone del rock mediatico (dal distruggere gli strumenti – ancora?? – alla fine di Territorial Pissings, al pensare di essere “la fine del rock”, ecc.). Nick Cave si può citare invece come esempio di un atteggiamento, per così dire, sciamanico: anche se la capacità autoironica non gli manca del tutto, lo vedo completamente (ed efficacemente) concentrato sulla performance come evento magico in grado di rompere il diaframma della quotidianità facendo leva sull’eccezionalità del proprio io, del corpo, della voce, di una vicenda biografica trasfigurata e mitizzata; mentre tutto ciò che sta intorno – società, politica, industria culturale – tende a scomparire dall’orizzonte come irrilevante. Una propensione molto diversa si può rinvenire negli Smiths, perché l’autoconsapevolezza e la tematizzazione – da parte di Morrissey & C. – del proprio ruolo e delle sue contraddizioni mi pare notevole, basti pensare a brani che riflettono (rabbiosamente, come sempre in loro) sul proprio appartenere all’industria discografica come Frankly, Mr. Shankly o Paint a Vulgar Picture, ma anche al gesto metadiscografico di non voler stare confinati nei solchi del vinile, dicendo all’ascoltatore – nell’ultimo album della band – “Stop me, stop me if you think that you’ve heard this one before”, come ad anticipare le sue eventuali critiche: gesto tipicamente melanconico e ipernarcisistico, ma che, rompendo in parte l’illusione narrativa e la facile immedesimazione, muove in direzione opposta a quella della falsa coscienza.
In questo quadro, gli U2 mi paiono acrobaticamente (per citare un noto brano di Achtung Baby) e, più di tanti altri, consapevolmente in bilico sulle contraddizioni dello show business, anche se a volte, inevitabilmente, perdono il loro equilibrio acrobatico. A quanto ho già detto al riguardo nel volumetto La filosofia degli U2. Il conflitto tra eros e agape va aggiunta una breve riflessione sul brano The Showman, strategicamente collocato circa a metà di queste Songs of Experience: canzone fresca e dinamica, divertente, grazie soprattutto alla voce di Bono e ad alcuni interventi preziosi della batteria di Larry Mullen. Verso l’inizio si ascolta: “Baby’s crying cause it’s born to sing / Singers cry about everything  / Still in the playground falling off a swing  [Sono ancora nel parco giochi che cadono dall’altalena]”.  Questa è la critica che il Bono attivista/uomo di fede rivolge da sempre – almeno dai tempi di Achtung Baby – al Bono artista: e non è questione che si possa liquidare facilmente in poche frasi, perché chiamerebbe in causa l’enorme problema della dicotomia arte/vita, così come le critiche che, da Platone in poi, i moralisti rivolgono agli artisti: l’artista ripiegato su sé stesso, che tende all’isolamento più che alla condivisione, al lamento più che all’assunzione di responsabilità e alla risoluzione dei problemi di cui parla, a riflettere (sul)la vita piuttosto che a vivere…  “It is what it is but it’s not what it seems / This screwed up stuff is the stuff of dreams / I got just enough low self esteem to / Get me where I want to go”: questi sono i versi centrali, e il secondo è difficile da rendere bene in italiano, ma proviamo così : “Questa fottuta roba [la pop music, lo star system] è la materia dei sogni [riferimento al celebre passo della Tempesta shakespeariana]”. Gli altri due sono i versi che Bono stesso ha definito “i migliori dell’album”:  “Ho un’autostima abbastanza bassa / da riuscire ad andare dove voglio”. È in effetti un distico molto eloquente e azzeccato: bassa autostima implica, per compensazione narcisistica, un ego ipertrofico, quindi anche una certa capacità di imporsi e di ottenere risultati nella vita. Naturalmente il contesto della canzone prevede che la frase sia al tempo stesso autocritica e autoassolutoria, del tipo: “io sono così, nel bene e nel male, c’è anche questo aspetto di me, ormai lo ho accettato”. Bono commenta il passo sia nelle note all’album (“The Showman è […] rivolta a chi si fa abbindolare dalle spacconate di un performer che ha troppa/troppo poca fiducia in sé stesso – avete presente quel fenomeno, troppa/troppo poca fiducia in sé?”), sia nell’intervista rilasciata a Rolling Stone (“Vorrei poter dire che [quei versi] sono miei, ma fu Jimmy Iovine a dirlo. Un mio amico lo stava criticando, e io gli dissi: ‘Sei un po’ insicuro, Jimmy?’ E Jimmy si voltò e disse: ‘I got just enough low self-esteem to get me where I wanna go’ […] I performer sono persone molto insicure […] Un performer ha bisogno di sapere cosa sta succedendo nella stanza e deve sentire la stanza. E non senti la stanza se sei normale, se sei integro. Se uno avesse un io molto forte, non sarebbe così vulnerabile alle opinioni degli altri, né all’amore, agli applausi e all’approvazione degli altri”). E qui c’è la consapevolezza, da parte dell’artista, che non potrebbe essere tale se non fosse ‘moralmente difettoso’. La canzone continua così: “The showman gives you front row to his heart [ti lascia guardare il suo cuore in prima fila] / The showman prays his heartache will chart [prega che la sua disperazione entri in hit parade] / Making a spectacle of falling apart [fare del proprio crollo nervoso uno spettacolo] / Is just the start of the show […] I lie for a living, I love to let on [mento per vivere, amo far trapelare (la verità)] / But you make it true when you sing along [ma la verità emerge  quando canti insieme agli altri (cioè – credo – quando scendi dal palco e ti confronti con gli altri nella quotidianità)]”.
Non certo a caso, The Showman precede e in certo modo introduce un brano in cui, appunto, Bono mette in scena un proprio momento di disperazione: The Little Things That Give You Away.  È un brano nudo, in cui Paul Hewson si espone come forse mai prima (per questo credo sarebbe stato meglio includere nell’album una versione musicalmente meno raffinata: una delle versioni live che circolano da tempo, e che sono molto più elementari, dirette e sofferte). La prima parte è forse rivolta alla secondogenita del cantante: la bellissima attrice Eve Hewson. “You walked out in the world like you belonged there”, le dice Bono: dove la parola world (ricorrente nell’album) ha certamente anche l’accezione evangelica (“Se il mondo vi odia, pensate che prima di voi ha odiato me. Se voi apparteneste al mondo, il mondo vi amerebbe come suoi”: Gv. 15, 18-19). E Eve – basta guardare qualche sua intervista su youtube – sembra proprio essere a suo agio nel mondo, che oggi è in primo luogo il mondo dello spettacolo. (Pure il babbo, ovviamente, sta nel “mondo”, ma ci sta con quel continuo rovello interiore che gli consente di provare ad esserne al contempo fuori… mi viene in mente ora il video di un’apparizione  degli U2 nella Rock’n’roll Hall of Fame: c’è Bono sul palco e c’è anche Springsteen… e Bono tra un brano e l’altro si mette a dire, tutto serio, qualcosa come “è pericolosa questa faccenda della fama…”, mentre “The Boss” – che evidentemente ha trovato un  proprio diverso modo di stare in equilibrio all’interno dello star system – gli dà una pacca sulla spalla interrompendo il sermone: “dai, divertiamoci!”).
“As easy as a breeze / Each heart was yours to please / Is it only me who sees there’s something wrong there?” Ma quello di Bono non è certo un bieco moralismo. Il problema dell’eccessiva familiarità con il mondo sta nel fatto che l’eccesso di spontaneità esclude la sincerità, l’eccesso di arbitrio impedisce la libertà. Il cantante lo dice con due bei versi, non facili da tradurre in italiano, sempre nel contesto del suo rivolgersi – forse – alla figlia: “I saw you on the stairs / You didn’t notice I was there / That’s ‘cause you were talking at me and not to me [forse: stavi parlando a me e non con me]. / You were high above the storm / A hurricane being born  /  But this freedom it might cost you your liberty [questa disinvoltura potrebbe costarti la libertà]” . Il darsi irriflessivo al mondo – e al mondo dello show business, poi! – non è certo, di per sé, il sano giving oneself away: rischia anzi di essere il suo contrario. E allora, se non sei tu a svelarti, ci pensano le “piccole cose” a farlo per te, a farlo tuo malgrado, a tradirti. Ed è un bene, naturalmente. “It’s the little things that give you away / The words you cannot say…”. (È giusto ricordare a questo proposito l’affermazione del frontman, nelle note all’album, secondo cui “Non ero sicuro riguardo a chi stessi scrivendo The Little Things, fino a quando compresi che la stavo scrivendo su di me, e che questo era un dialogo tra la mia innocenza e la mia esperienza. L’innocenza che arringa l’esperienza, finché l’esperienza subisce un collasso”. Ciò che non esclude la mia ipotesi interpretativa, anche perché spesso in passato il cantante ha affermato di aver iniziato a scrivere brani riguardo a qualcun altro, per poi capire che stava rivolgendosi a sé stesso).
A questo punto del brano, comunque, il tu scompare, e l’io comincia a darsi via, a rivelare il proprio dolore, in un crescendo verbale e musicale in cui Edge ritrova il suo nervoso, “serrato tappeto ritmico” pieno di eco (mutuo questa definizione dal sito “ondarock”), quello che ha segnato il suono degli U2 fin dall’inizio, e gli altri membri della band si uniscono – sul palco lo fanno anche fisicamente – all’intimità del climax.  “Sometimes I can’t believe my existence / See myself from a distance / I can’t get back inside / Sometimes the air is so anxious / All my thoughts are so reckless / And all of my innocence has died / Sometimes I wake at four in the morning / Where all the darkness is swarming [dove tutta l’oscurità sta sciamando (brulicando)] / And it covers me in fear / Sometimes… / Sometimes I’m full of anger and grieving / So far away from believing / That any sun will reappear / Sometimes / The end is not coming / It’s not coming / The end is here”.
La “fine” fa riferimento a un’esperienza drammatica vissuta dal cantante circa un anno fa, un’esperienza di faccia a faccia con la morte. Bono ha deciso di non entrare nei dettagli per sottrarsi, per quanto possibile, alla soap opera mediatica, ma non ha potuto/voluto tacere del tutto un evento che ha condizionato drasticamente il senso e la costruzione dell’album: varie canzoni le ha scritte pensando che forse non sarebbe sopravvissuto, e si sente. In Little Things, comunque, è come se confluisse e si concentrasse tutta la negatività e la pesantezza che il frontman porta in sé, così che il resto dell’album risulta leggero nel senso migliore del termine, e luminoso, anche dove – come nel funky pop sui generis di The Blackout – si confronta con il “buio” individuale e sociale, al ritmo di “And you throw yourself about in the darkness where you learn to see [e ti spendi a piene mani nell’oscurità in cui impari a vedere]”. Anche a  proposito di quest’ultimo brano, che inizia con un dinosauro che si chiede come mai si trovi ancora sulla Terra, Bono ha fatto capire in più occasioni che il blackout, l’annuncio della “fine” da cui l’album si è sviluppato, non è solo individuale, ma anche collettivo: il dinosauro è lui, è la band, ma è al contempo nientemeno che la democrazia liberale. Non solo, evidentemente, l’elezione di Trump, ma tutto il clima americano che l’accompagna – con gruppi come il Ku Klux Klan che rialzano la testa ­– e soprattutto il riemergere di fascismo e xenofobia in Europa sull’onda della crisi economica, segnalano che, a un secolo di distanza, rischiamo di aver dimenticato tutto e di ricadere nel buio più totale: anche con questo si confrontano le “canzoni dell’esperienza”.
Ma i due gioielli dell’album  sono forse i brani che toccano, e fanno toccare, il dolore dei migranti: Summer of Love e Red Flag Day. È strano che sia così, perché la poesia civile è la più ardua: è difficile essere sinceri nel realizzarla, è difficile sentire davvero un dolore che non sia il proprio o quello dei propri cari. Di refugees gli U2 avevano già cantato in War, e forse è proprio dagli anni Ottanta che la band non proponeva un insieme di brani così direttamente e dolorosamente civili. Ma la chiave per evitare la retorica da melodramma, la rabbia fredda o i toni didattici – i quattro irlandesi lo sanno bene, fin dai tempi, appunto, di New Year’s Day e dintorni – è partire dal proprio dolore, e da lì avvicinarsi a quello altrui. Summer of Love, dalla bellissima melodia mediorientaleggiante, si ricollega a California dell’album precedente. Però la “West Coast”, questa volta, è quella della Siria. “Oh, and when all is lost, when all is lost we find out what remains” : la sincerità di questo grido non può che derivare dall’esperienza personale di incontro con la morte, che consente l’immedesimazione con quelle persone tra le macerie di Aleppo, o sui barconi. “Oh, the same oceans crossed, for some it’s pleasure, for some it’s pain”… Nell’attestare onestamente, ed empaticamente, la propria distanza da quell’esperienza estrema di migrazione – Bono, come noi, quei mari li attraversa comodamente in aereo –  si riesce ad attingere una goccia di verità. E perfino quell’ “Oh” a inizio verso, per una volta, non è affatto ridicolmente retorico, ascoltare per credere: è un grido di pancia, che rimane con chi lo ascolta nei giorni successivi, e porta a non chiudere le orecchie interne quando l’annunciatore di un qualche telegiornale riporta la notizia dell’ennesimo naufragio.
In Red Flag Day è soprattutto il basso di Adam in primo piano a creare un dinamismo punk che… non voglio dire ‘ringiovanisce la band’ (suona triste)… mostra come la band sappia essere ‘fuori dal tempo’, nei momenti più alti. La bandiera rossa non è quella del comunismo, è quella che segnala il mare mosso della vita. Bono si rivolge probabilmente alla moglie Ali: “Baby it’s a red flag day / But baby let’s get in the water / Taken out by a wave / Where we’ve never been before”. Ancora una volta l’auto-incoraggiamento a non sottrarsi, a non difendersi troppo, a mettersi in gioco proprio quando il rischio – di scontri, di incomprensioni, di dolore – è più alto, perché è lì che può nascere il nuovo, che può rigenerarsi l’amore. “Oggi non possiamo permetterci di aver paura di ciò che temiamo”, dice ancora l’io cantante. Ma qui – ancora una volta funambolicamente – avviene un salto di prospettiva che incredibilmente riesce, ed emoziona in profondità: improvvisamente il mare non è più metaforico, la bandiera rossa segnala tempesta vera, meteorologica. “Not even news today / So many lost in the sea last night” – si ascolta, e non si può non pensare all’ “I can’t believe the news today” di Sunday Bloody Sunday: solo che ora le notizie quasi non le danno neanche più, tanto passano ormai inosservate le quotidiane morti in mare. La voce di Bono mentre canta questo è molto difficile da descrivere: potrei dire che è la voce che vorremmo sentire nei telegiornali quando se ne parla. C’è angoscia, senso di inadeguatezza, rispetto, amore. “The one word that the sea can’t say / Is no, no, no, no…” : un’antropomorfizzazione del mare che suonerebbe naif se non fosse per quel primo “No”, un urlo che arriva inaspettato come uno schiaffo benefico, e per tutti i “no” successivi, mentre la chitarra di Edge cresce e cresce come onde in burrasca. Si ritorna poi alla metafora, carichi di tutta quella realtà, la bandiera continua a sventolare, e Bono conclude: “Baby let’s get in the water”.
Per quanto moralmente difettoso, l’artista ha almeno due modi peculiari per riavvicinarsi all’integrità, all’innocenza. Il primo consiste semplicemente nello svolgere in modo eccellente il proprio mestiere: un’opera bella è infatti una via indiretta al bene; l’altro è quello di usare il proprio lavoro, la propria fama per sensibilizzare e promuovere azioni moralmente e politicamente rilevanti. È chiaro che U2 li hanno ben presenti entrambi.

Riguardo al primo punto, che chiama in causa il rapporto tra forma e contenuto, mi concedo una digressione non particolarmente originale, ma che mi sta a cuore. Dire che “la forma è il contenuto” è esagerato, anche se nel suo estremismo è un’affermazione stimolante. In realtà, a volte, i più grandi insegnamenti morali si presentano in forme dimesse, o addirittura brutte. Kierkegaard descriveva il proprio modello spirituale come un uomo apparentemente banale, che “ha l’aria di un esattore delle imposte” e soprattutto “non è un poeta”. Analogamente, Simone Weil – raffinatissima amante dell’arte – raccontava di aver trovato la “verità” quando costretta a inginocchiarsi in una chiesa “nuova e brutta”. E in discorsi buddisti a volte un po’ avvilenti da un punto di vista estetico, io stesso ho trovato quella severa profondità e quella forza morale aperta che avevo cercato invano altrove, e sulle quali da decenni baso la mia vita. Quando però si parla di arte – e non di vita, o di discorsi edificanti – allora la questione cambia, e vale la vecchia massima di Oscar Wilde, per la quale non esistono opere morali o immorali, ma soltanto opere belle o brutte. Un film o un romanzo bello è una via indiretta al bene, a prescindere dai suoi contenuti: la forma veramente bella, che è tale anche perché non si preoccupa della moralità della materia, porta l’etica con sé quasi senza volere. (Se poi – grazie a un duro e costante allenamento del Giudizio estetico da un lato, e della capacità di pietas dall’altro – un autore riesce a lasciare spazio alla grazia, si può assistere allo spettacolo raro e meraviglioso di una bellezza che cresce selvatica dalla terra della bontà: mi vengono ora in mente come esempio alcune pagine di Guerra e pace). Ma non è raro che contenuti moralmente apprezzabili, o preziosi, vengano ridicolizzati e traditi da una forma artistica inadeguata. Ciò accade nel modo più lampante quando l’intento di chi fabbrica il prodotto ‘artistico’ è palesemente quello di far soldi sfruttando una qualche moda: ci sono ad esempio film ‘new age’ il cui messaggio di fondo è imparentato con un contenuto spirituale di grande importanza, ma la cui forma ridicola distrugge il messaggio, rischiando di generare disgusto per tutto ciò che ha a che fare con quel tema. Comunque, il fatto che in ambito artistico la forma “sia” il contenuto non mi porta a condividere le tesi estetiche di certe eterodossie marxiste per le quali l’unica arte degna di lode sarebbe quella sperimentale, d’avanguardia, la quale, grazie alla sua forma inusitata, spiazzante, fastidiosa, avrebbe in sé valenza politica per il suo contrapporsi alla facilità omologante della cultura di massa, imposta dalla classe al potere. Il punto non è la sperimentazione come tale, e meno che mai la difficoltà formale (che a volte possono nascondere incapacità artistiche e/o istrionismi lontanissimi da una volontà di riforma sociale). Il punto è la bellezza. Poi, certo, la bellezza artistica perfetta è anche politicamente avvertita, non ingenua, come si diceva. Ma non passa necessariamente dall’arduo sperimentalismo… altrimenti non saremmo qui a parlare di popular music.
You’re the best Thing about me – l’altro singolo in circolazione – è carina, non si può dire molto di più. Testo brillante (Bono, come tanti artisti verbali, ripropone costantemente le proprie  parole, in combinazioni sempre nuove e sincere), arrangiamento intelligente, non banale, con Edge che dà probabilmente voce al grande io – o al daimon – di Bono: quella voce divina che sa come stanno le cose molto meglio dell’ego al quale si rivolge: “I can see it all so clearly / I can see what you can’t see / I can see you love her loudly / When she needs you quietly”. (Qualcosa di simile accadeva anche in Unknown Caller, brano del sottovalutato album No Line on the Horizon).
Quanto al tema che, nel mio libro di qualche anno fa, avevo indicato come filo (wire!) conduttore di gran parte della produzione della band – il problema del rapporto tra eros e agape –, si conferma qui che il problema è felicemente risolto nel senso di una sostanziale fusione e indistinguibilità dei due aspetti dell’amore. Nell’insolitamente elegante, sobria e sorridente Landlady, “le bugie […] sono quasi vere”, cioè l’impulso erotico è quasi (ma il quasi non fa problema) una cosa sola con la compassione. Qui la moglie Ali è descritta come la “padrona di casa” – landlady, appunto, con tutte le annesse possibilità di giocare con la parola land: “the landlady takes me up in the air…” – ed è uno humour che Bono, significativamente, non si era quasi mai concesso parlando di lei. Viene in mente quanto diceva Luigi Pareyson commentando Kierkegaard: “L’amore romantico ha la sua espressione artistica nella poesia; il matrimonio […] nell’umorismo. L’umorismo è infatti l’espressione artistica della sicurezza tranquilla e contenta della vita coniugale. Come è un innamorato mediocre quello che non diventa poeta, così è un marito mediocre quello che non diventa umorista”.
E lo splendido brano introduttivo, Love Is All We Have Left – dove Bono si ispira ad un “Frank Sinatra fantascientifico” – porta alle estreme conseguenze il rovesciamento del senso del conflitto tra il lui e la lei che discutono da sempre, nei testi della band, intorno al significato dell’amore: “I wanted the world, but you knew better / And that all we have is immortality”. Quel “mondo” che lui voleva, e che un tempo era inteso come un mondo da abbracciare compassionevolmente, con un amore agapico che sembrava confliggere con l’amore romantico ed esclusivo da lei richiesto (cfr. Trying to Throw Your Arms Around the World e tanti altri brani di quel periodo), ora diventa semplicemente “il mondo”, la dimensione mondana, nella quale le propensioni umanitarie si mescolano all’ambizione artistica. Lei aveva capito meglio – dice ora lui –, aveva intuìto che la via per l’“immortalità”, la via d’accesso all’amore cosmico, passava dalle strettoie del rapporto di coppia più di quanto passasse per la benevolenza universale. Ma questo rovesciamento, in realtà, è potuto avvenire anche perché lei, a sua volta, ha imparato nel tempo ad accettare la legittimità della “passione fredda”, di un “amore ordinario”, più compassionevole e meno romantico, come il cantante fa capire anche in quest’ultima intervista a Rolling Stone, commentando i due outtakes dell’album: Book of Your Heart e, appunto, Ordinary Love. E così abbiamo la bellissima immagine del vedere infine le luci di casa – e chi ha seguito gli U2 sa che incredibile ricchezza di vita e di significato ci sia dietro il loro impiego della parola home – negli occhi di lei (Lights of Home).
Nel mio articolo sul precedente album (http://www.mimesis-scenari.it/2015/11/03/innocenza-ed-esperienza-un-ascolto-filosofico-di-songs-of-innocence-degli-u2/), avevo insistito sulla presenza nel disco del tema dell’accettazione del limite, e della valorizzazione del “buio” tramite una sofferta e problematica forma di teodicea. Il tema in questione si esprimeva nel modo forse più paradigmatico nel refrain di Song for Someone: “If there is a light you can’t always see / And there is a world we can’t always be / If there is a dark that we shouldn’t doubt / And there is a light, don’t let it go out”.  Tutto ciò è ben presente anche nell’ultimo lavoro. Credo che si possa intendere in un’ottica simile, ad esempio, il “sometimes” costantemente ripetuto in The Little Things That Give You Away , come se il concetto fondamentale della canzone fosse proprio quel “qualche volta”, come a dire: la vita ogni tanto passa dalla disperazione, e questo succede a vent’anni come a sessanta, è il respiro dell’esistenza che lo prevede, bisogna accettarlo e cercare di trarne profitto. Tra l’altro, come già accennato, il refrain di Song for Someone viene impiantato all’interno del brano finale di Songs of Experience, 13, che prende il nome dalla sua collocazione nell’album, ma che ha come sottotitolo “There is a Light”. Se però il brano di Innocence era evidentemente rivolto da Bono alla compagna, questa 13 – e quindi l’intero disco – si chiude con le parole “And this is a song for someone / Someone like me”. Da un lato, “qualcuno come me” è verosimilmente uno dei suoi figli. Ma credo che questa insolita chiusa si possa anche leggere come un’altra espressione della suddetta accettazione del limite. Bono – come si ricordava – in passato ha più volte detto di essere consapevole che nelle sue canzoni, anche nelle più altruiste, in fin dei conti si rivolge a sé stesso… Eppure nel nome stesso della band è espressa la volontà di arrivare a tutti, di coinvolgere più persone possibili con il messaggio paradossale della resa attiva, della lotta nonviolenta. Ecco, è come se in quest’ultima frase dell’album il cantante riconoscesse che il suo messaggio, in fin dei conti,  è destinato a fare veramente breccia solo in quelli come lui.
Mi chiedevo cosa ancora suonasse così strano in quest’ultimo semplice brano, 13. Poi ho letto del consiglio dato a Bono dal poeta Brendan Kennelly: “Se vuoi veramente arrivare dove la scrittura vive… scrivi come se fossi morto”. Un consiglio dato prima che la band si tuffasse nella composizione dell’album.  Poi è arrivata l’esperienza di contatto diretto con la fine, che ha reso quel consiglio ancora più attuale e urgente.  E nella canzone finale – che ha un testo drammatico e riassume molto della storia appassionata degli U2 –  la passione nella voce del cantante è  diluita da una goccia di distacco, come se davvero, rivolto ai figli, ma anche a tutti quelli come lui, pronunciasse queste parole accorate ma serene dal regno dei morti:
“Are you tough enough to be kind? / Do you know your heart has its own mind? / Darkness gathers around the light / Hold on. Hold on”
 

 

 

 



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