Nel 1971 Alfred Julius Ayer dialogò alla tv olandese con Arne Naess su una discreta serie di problemi filosofici di attualità. Il testo del dibattito sarà poi pubblicato dal moderatore Fons Elders in un libro che curò nel 1974 (c’è una traduzione italiana del 1992 in A. J. Ayer, Il significato della vita, Il Saggiatore, pp. 128-168, da cui traggo anche tutte le citazioni successive). Possiamo considerare Ayer a buon diritto non solo come colui che portò per primo in Inghilterra le tesi del neopositivismo logico viennese col suo Language, Thruth and Logic del 1936, frutto della sua partecipazione come ospite alle sedute del Circolo, ma anche uno dei primi filosofi a partecipare frequentemente alla radio e in televisione ai programmi culturali della BBC. Anche il suo interlocutore, il filosofo norvegese Naess, vanta significativi primati, tra i quali il conio del termine ecosofia. In quel dibattito del 1971 dimostrava già le sue avanguardistiche concezioni ecofilosofiche sostenendo tesi olistiche, nei confronti delle quali Ayer manifestava il suo trattenuto e ironico scetticismo. Naess, tra le altre cose, sosteneva che ogni decisione umana dovrebbe discendere dal nucleo centrale (la «visione totale») delle concezioni filosofiche di una persona. A ciò Ayer fece una obiezione con un incipit meno enfatico ma simile ad una successiva famosa interiezione di McEnroe all’arbitro di sedia: «Lei non può sostenere seriamente che ogni mia opinione o ogni mia preferenza emotiva debba essere fatta rientrare nella mia filosofia» (p. 154). L’obiezione era rafforzata con un esempio calcistico. Ayer affermò di essere da sempre tifoso del Tottenham Hotspur e che non trovava nulla del gioco del club londinese che facesse pensare ad una somiglianza di famiglia con i filosofi del suo orientamento positivista pragmatista. Mentre argomentava trovò modo di citare anche il Manchester United e l’Arsenal, del cui gioco ipotizzava una vicinanza con gli idealisti assoluti. Non propose alcuna visione teorica generale da associare al Man.Utd, e questo lascia affranti, ma gli altri due accostamenti meritano di essere seguiti, non fosse altro per la geolocalizzazione della coppia concettuale dicotomica ‘analitici continentali’ nella terra dei primi, e più precisamente nel nord-est di Londra. Dunque gli Spurs sarebbero degli analitici (positivisti pragmatisti) e i Gunners dei continentali (idealisti assoluti). I più interessanti da cercare di individuare sono questi ultimi. Chi potevano essere quelli che Ayer bollava come idealisti assoluti? Non si sbaglia di molto credo se si pensa ai grandi hegeliani inglesi che a Cambridge (J. E. McTaggart) e a Oxford (F. H. Bradley) stanno all’origine di quella vera e propria rivoluzione intellettuale che fu per quelle università l’avvento della filosofia scientifica di Russell, More e Wittgenstein a Cambridge e di Ryle, Austin e Ayer a Oxford. Stanno all’origine non nel senso che ne furono i precursori ma nel senso che furono gli ultimi rappresentanti del pensiero idealistico prima del successo dilagante dell’analisi del linguaggio scientifico e ordinario. Credere che nel 1971 lo spettro di quell’idealismo i cui sostenitori erano scomparsi entrambi a metà degli anni Venti possa essere responsabile dei timori di Ayer può apparire di debole tenuta argomentativa. Non però se si considera che, come si vedrà alla fine, McTaggart rappresentava ancora un esempio da citare, e che, più in generale, per gli analitici la filosofia continentale rappresenta un tutt’uno pur nelle sue varie e contrastanti correnti. Il nome di questa entità unitaria potrebbe allora tranquillamente essere idealismo assoluto o idealismo metafisico. I continentali sono idealisti e non positivisti, sono assolutisti, cioè metafisici, e non pragmatici.
Tutti i tifosi esterofili sanno che la tradizionale rivale del Tottenham è l’Arsenal. Nel 1919, quando Ayer aveva 9 anni, pur arrivando solo quinto, l’Arsenal venne promosso in First Division a spese del Tottenham a causa di un errore del regolamento o forse dell’attività corruttiva del suo presidente. Non è da escludere che la rivalità tra i due club rimonti a quell’episodio secolare, del quale Ayer poteva serbare il ricordo, e non è un caso pertanto che dopo aver associato gli Spurs ai filosofi analitici (positivisti pragmatisti), avvicini ai Gunners quelli che lui considerava i suoi rivali, e cioè gli idealisti assoluti. Nel 1971 gli idealisti assoluti vinsero il campionato e la FA Cup mentre i pragmatisti si aggiudicarono la League Cup. Il che è come dire continentali – analitici 2 a 1. Nonostante sul campo abbia vinto Naess con i suoi cannonieri idealisti assoluti, direi che sul piano teorico avesse ragione Ayer. Non c’è alcun motivo razionale per derivare necessariamente la nostra fede calcistica dalla nostra ‘metafisica’ o nucleo centrale unitario del nostro pensiero, insomma il kernel dell’architettura software del cervello. Mi sembra un argomento sufficientemente affine alla cosiddetta legge di Hume: non si possono ricavare leggi prescrittive di azioni da descrizioni di fatti, non si può ricavare la morale, cioè le scelte emotive, dalla scienza, cioè dalla visione totale. E lo scozzese, a cui dedicò le Gilbert Ryle lectures alla Trent University in Canada nel 1979 e da cui trasse il suo Hume, era nella playlist di pensatori preferiti di Ayer.
C’è un altro ragionamento interessante che precede di poche pagine le assonanze filosofiche da Premier League, anch’esso rafforzato con un esempio, non calcistico ma geografico, anzi geopolitico. Da competitor di un filosofo analitico, Naess gioca d’anticipo la carta coloniale. E cioè sostiene che il particolare modo di guardare al tutto dei filosofi quali Ayer pretende di essere universale ma è invece solo britannico. I fatti, le realtà empiriche, i sense data, l’a priori e il principio di verificazione sono le categorie con cui vede il mondo un britannico. Ayer, punto forse sull’orgoglio nazionale, sottolinea di essere inglese e non scozzese e lo invita a dire inglese e non britannico, non avvedendosi così di dare ancora maggiore corda alla tesi del norvegese indebolendo nel contempo la sua. Non solo non è universale la loro visione del mondo, ma non è nemmeno britannica, è solo inglese. Se avesse continuato con le riduzioni geopolitiche sarebbe forse arrivato a dire oxoniense. Non è inglese, è solo di Oxford. Ma questo non è vero. Non solo ad Oxford, al massimo, potrebbero dire di aver dato il via all’analisi del linguaggio ordinario, ma lo stesso Ayer non fu un analista del linguaggio comune. Tra lui e il suo maestro Ryle e tra lui e il suo coetaneo Austin c’è una notevole differenza sia di metodo sia di argomenti. Ayer resta un teorico della conoscenza di impostazione empiristica classica. Naess non approfittò dell’autogol argomentativo di Ayer, ma alzò la posta. Ribattè, anticipando le tematiche postcoloniali di vent’anni, che: “i bengalesi non lo direbbero mai” (p. 153). I bengalesi cioè non interpretano il mondo con quelle categorie, gli orientali non pensano in termini di fatti e di verità. La risposta di Naess mette in luce come secondo lui i risultati della filosofia analitica, benché si fregino del titolo dì scientificità, risultano invece frutto di elaborazioni metodologiche parziali e pertanto portatori di risultati non universali. Gli analitici sminuzzando il reale finirebbero per perdere di vista l’universale, il tutto, la visione unificante del sapere. La controrisposta di Ayer rientra nei motivi classici d’argomentazione della filosofia analitica. Dell’universale, del tutto, non si dà conoscenza, ma tutt’al più previsione probabilistica. Non sappiamo che cosa sia il tutto, non sappiamo neanche se ci sia un tutto perché non conosciamo neppure tutte le sue parti. Anche qui sembra preferibile la tesi dell’inglese.
Ayer è un gentleman, non sferra colpi bassi durante il dibattito, non si esalta, non si irrita e non si scalda quasi mai. Era così anche nella vita ordinaria: a chi può essere ritenuto corresponsabile del divorzio dalla sua prima moglie Renée, Alfred Ayer aveva offerto un posto di assistente quando divenne Grote Professor of Philosophy of Mind and Logic a Londra. Il che è precisamente quello che si potrebbe chiamare un chiaro esempio di fair-play. Sono passati i tempi di quando invece perdeva la pazienza. Richiamo solo un episodio che lo riguarda per sottolineare come sia stata la bizzarria di comportamento di certi suoi colleghi filosofi a fargli montare una collera prontamente frenata dall’ironia. Nel 1948 Cyril Joad, anche lui filosofo televisivo per la BBC, aveva pubblicato un articolo in cui insinuava che il libro di Ayer del 1936 avesse contribuito allo sviluppo del fascismo. Non saprei come difendere le argomentazioni di Joad se non ricorrendo al feticismo dell’araldica calcistica. Se poniamo attenzione alle origini dei due club indagando la composizione socio-economica dei ‘padri fondatori’, ne ricaviamo una discendenza aristocratica per gli Spurs, lo sperone del gallo dello stemma è quello che il nobile Harry Hotspur faceva fissare nel medioevo alle zampe dei suoi galli da combattimento. Mentre una origine proletaria è deducibile dal cannone che ha sempre accompagnato lo stemma dei Gunners, e che simboleggia il lavoro degli operai dell’arsenale dell’esercito britannico. Gli Spurs quindi sarebbero aristocratici e pertanto fascisti. Ayer, che fu per molto tempo vicino al Labour Party, reagì con sferzante ironica energia all’articolo di Joad, ma rimanendo sempre nei limiti del dibattito civile. Nella vita ordinaria Joad aveva il vezzo di vantarsi di non pagare mai il biglietto del treno: «I cheat the railway company whenever I can». In un giorno di quello stesso 1948 fu sorpreso senza biglietto sulla tratta Exeter-Waterloo da un controllore che gli elevò una sanzione di 2 sterline, comprensive del costo del viaggio. Per gli amanti delle curiosità, oggi il solo viaggio ne vale 53,10. La notizia arrivò alla stampa. Joad, che era molto noto al pubblico per le sue apparizioni televisive nel programma culturale di punta “The Brain’s Trust”, fu costretto a dimettersi dalla BBC, si chiuse in casa, si ammalò, diventò credente e in breve tempo morì. Il penultimo evento divenne noto con la pubblicazione del suo ultimo libro intitolato The Recovery of Belief. Uno dei temi più frequentemente dibattuti da Ayer è quello dell’ateismo, da lui apertamente professato. La sua migliore performance in questo campo è di nuovo una trasmissione della BBC, quella del famoso dibattito con F. C. Copleston del giugno 1949 (pp. 33-72). È però un altro brano del suo Il significato della vita (p. 240) che conviene richiamare; quello in cui Ayer riporta certe credenze di dubbia tenuta razionale dei suoi colleghi filosofi. Con evidente intento irrisorio questa volta, Ayer fa fare una brutta figura sia ad un idealista, sia ad un analitico, benché tutti e due filosofi di Cambridge: Ellis McTaggart e Charles Broad. Erano entrambi atei, ma il primo, l’idealista, era certo della propria sopravvivenza post mortem perché tutto era anima immortale, mentre il secondo, l’analitico, che era più prudente, ne era certo solo al 50% ma era pronto a sostenere che la percentuale era stata ottenuta con rigore scientifico. Ne ricavò due volumi: Human Personality and the Possibility of Its Survivaldel 1955 e Personal Identity and Survivaldel 1958. Se avesse ragione Naess sulla derivazione diretta dei comportamenti dal nucleo compatto delle proprie idee filosofiche, la prima curiosità che credo Ayer si vorrebbe togliere è: per quale squadra tifavano il railways’ squatter e i due atei immortali, o semi-immortali, di Cambridge?