Giovanni Zoda
Continuum, cm 46×49, olio su tavola, 2015
Vorrei provare, in questo saggio, a ragionare sulla cultura visuale del nuovo millennio, identificando alcune tracce che interagiscono tra loro e segnalano le sperimentazioni estetiche contemporanee, sia sul terreno del film mainstream che su quello del cinema “d’autore”. Categorie, d’altronde, quella dell’Autore e del cinema “commerciale” che sono state ampiamente ridiscusse, come dimostra anche l’ultimo caso dello sdoganamento di un regista come Guillermo Del Toro, vincitore del Leone d’oro a Venezia 2017 con The Shape of Water.
Propongo, con un omaggio a un libro di Umberto Eco pubblicato all’alba dei 2000, “sei passeggiate nei boschi narrativi” (Eco, 2000), sei percorsi alla ricerca di qualche indizio capace di spiegare la grande rivoluzione in atto nelle arti visive, in un cinema sempre più “espanso” dove vecchie categorie e classificazioni hanno sempre meno senso. Passeggiate nei boschi narrativi, come quella – su cui concluderò la riflessione – del protagonista Baltimore, scrittore alcolizzato e visionario protagonista dell’ultimo film di Coppola, che passeggia in un bosco popolato di fantasmi e di scrittori. Vampyra stretta a braccetto con Edgar Allan Poe.
1) Le logiche del videogame e come esse influenzino l’estetica postmediale contemporanea
2) L’estetica di Jason Bourne: il cinema intensificato, e la fine del découpage
3) James Bond e il nuovo auteur-hero
4) L’universo della surveillance
5) Il cinema neo-neo barocco complementare a una nostalgia per l’analogico
6) Il cinema digitale-resistenziale, low budget e antisistema
Queste tendenze, tra le molte strategie del presente, vanno colte nel contesto di una più generale forbice tra high definition e low definition, tra cinema mainstream e cinema di nicchia, entrambi caratterizzati da una implosione del sistema narrativo e da un – conscio o inconscio, portato dal modo di produzione o dagli artisti – desiderio di sperimentazione.
Prima passeggiata. Le logiche del videogame
L’“oltre il corpo del cinema” cui allude il titolo è un riferimento a un lungo lavoro di ricerca fatto a Roma Tre, prima con Enrico Menduni e poi con Christian Uva, in cui la rivista “Imago” ha raccolto una serie di riflessioni sulle nuove estetiche dell’era digitale, e in particolare sull’influenza dell’estetica del videogame sul cinema(Uva, Zagarrio, 2016; Menduni, Zagarrio, 2012). Non si può, infatti, non riflettere su un cinema mainstream fortemente influenzato dal videogame, che sottende un universo teorico che va da Elsaesser a Mittel, da Panek a Jenkins, da Manovich a Buckland (Rodowick, 2001; Panek, 2006: 62-88; Mittel, 2006: 29-40; Manovich, 2001). Proprio Warren Buckland ha scritto uno dei saggi centrali pubblicati su un numero di «Imago» dedicato alla “logica del videogame”.
I video games – scrive Buckland – sono una delle forme più importanti dei nuovi media, “texts that have become computable” (testi che sono diventati calcolabili) secondo la definizione di Lev Manovich, che comincia il suo libro The Language of New Media analizzando la struttura dei new media, identificando cinque principi che costituiscono questa “calcolabilità”: la rappresentazione numerica, la modularità, l’automazione, la variabilità, e la transcodifica culturale. La rappresentazione numerica è la chiave dei testi dei new media, perché trasforma i media in dati informatici che possono essere manipolati in maniera algoritmica. I dati analogici sono digitalizzati, cioè codificati in valori numerici – “Analogue data is digitized, that is, coded into numerical values.”
Anthony Wilden ha esaminato in profondità la comunicazione tra analogico e digitale, e conclude che “un sistema digitale rappresenta un più alto livello di organizzazione e quindi un più basso tipo di logica”. Il sistema digitale offre una più alta “semiotic freedom” perché la sua composizione lo rende “immensamente flessibile”. Una diretta conseguenza della rappresentazione numerica è la modularità. I new media non sono testi singoli, oggetti fissi, ma possono essere manipolati, modificati e duplicati. La loro specifica struttura dei new media e la loro organizzazione dei dati crea uno strato informatico, “the computer’s own cosmogony”, che è diversa dallo strato culturale, il modo umano di processare e capire i dati, attraverso storie, miti, enciclopedie, rappresentazioni visive.
Il computer ha profondamente trasformato la comunicazione, molto più che la stampa nel quindicesimo secolo o la fotografia del diciannovesimo. Il risultato è un “blend of human and computer meanings”, un misto dei modi tradizionali con cui la cultura umana ha modellato il mondo e il modo proprio del computer di rappresentarlo. “The cultural layer has been transcoded into the computer layer”. Ora, secondo Buckland, la “logica del video game” nello storytelling hollywoodiano è la manifestazione di questo processo di transcodifica. Un fenomeno evidente nel modo in cui lo storytelling è stato computerizzato, modulando la maniera di raccontare in un sistema semiotico più flessibile.
Così, Buckland propone nel suo saggio di concettualizzare la relazione tra narrazione filmica e logiche dei videogame usando come case study Source Code di Duncan Jones con Jake Gyllenhaal. È un film del 2011 (soggetto e regia di Duncan Jones), storia di Colter Stevens (Jake Gillenhall), un pilota di elicotteri dell’aeronautica morto in battaglia, il cui corpo martoriato è tenuto in una capsula e il cui cervello viene collegato a una macchina. Da qui la missione dell’uomo senza corpo, che passa i varie dimensioni virtuali e parallele al servizio di una unità militare segreta che tenta di evitare un attentato terroristico. È la metafora forte di un cinema declinato con le “regole del gioco”, anzi del video-gioco, un gioco che riproduce all’infinito i suoi plot. Ma anche del corpo stesso del cinema nell’epoca del numerico e della virtualità. Un corpo dimezzato, liminale, che però resiste nelle sue infinite possibilità di mutazione. Un corpo forse morto (la morte del cinema di cui si parlava già negli anni settanta) ma che resiste trovando, come Gyllenhall, la sua vita in altre dimensioni parallele, in altri media.
E allora ecco l’irruzione del videogioco nel cinema mainstream: Assassin’s Creed e l’ultima puntata di Resident Evil ne sono un esempio. Un cinema di fuochi d’artificio, come scriveva Laurent Jullier
(Jullier 1997),un cinema basato sulla motion capture, sulla computer grafic, sul lavoro corporeo degli stunt accoppiato a una pura reinvenzione della realtà, mescolando, in un consapevole patchwork post-postmoderno, passato e futuro, il Medioevo di Assassin’s Creed e il postatomico di Resident Evil.
E poi il malriuscito tentativo tutto in soggettiva di Hardcore, film russo-americano, diretto coprodotto e interpretato da Ilya Naishuller. Un film pensato a tavolino come un enorme videogioco, tutto in soggettiva, girato con una serie di telecamere go-pro, capaci di costruire attorno al pubblico un mondo immersivo e coinvolgente. È il trionfo del first person shot di cui parla Ruggero Eugeni (Eugeni, 2015), esploso nell’immaginario contemporaneo, dallo sport al porno. I corpi degli avversari si spappolano in un delirio splatter. E lo stesso corpo del protagonista cyborg viene riassemblato in un misto tra robocop e terminator, proponendo la ormai gettonata fusione tra la carne e il metallo (Berardi, Caronia, Zucchella, 2005).
Scriveva Gianni Canova alla fine del secolo scorso che il cinema contemporaneo “è un cinema che sta lì, ti invita sì all’immersione, ma non ti chiede di dargli un senso, di interpretarlo, di scegliere se aderire o no al sistema di valori che ti prospetta: ti chiede soltanto di valutare se ti conviene o meno stare al suo gioco, di valutare a che velocità è più conveniente affrontare il tragitto, il percorso di immersione che ti prospetta. Ti chiede soltanto di attrezzarti e affrontare il game nel modo più opportuno affinché tu ne ricavi economicamente piacere emotivo, emozionale, per certi versi psichico. E parlo di gioco, di game perché evidentemente la dimensione del film come ars combinatoria o come ludus che esaurisce in sé il proprio valore d’uso, mi sembrano essere comunque tratti connotativi del cinema contemporaneo”(Canova, 1999). I film sono un “esercizio acrobatico di combinazioni narrative”. È passata molta acqua sotto i ponti, molti titoli più intriganti sono venuti, ma quel game cinema, quell’“esercizio acrobatico di combinazioni narrative” sono rimasti. E vivono con le nuove generazioni di digital natives.Lo dimostranoalcuni film recenti che triangolano, attraverso il tema bambini, ragazzi o adolescenti, tra cinema, videogame e web. Game Therapy, Ender’s Game, e alle spalle il grande background iconico di Hungers Games. Tutti “giochi” simbolici che permettono di riflettere sull’universo digitale e sui modelli di riferimento dell’Immaginario del terzo millennio.
Seconda passeggiata. L’estetica di Jason Bourne
Veniamo a un’altra linea estetica complementare alla “logica del videogame”, incarnata da un altro corpo martoriato, come quello del marine di Source Code: quello di Jason Bourne. Tutta la serie dei Bourne ma specialmente il film del 2016 diretto da Paul Greengrass, Jason Bourne appunto, costituisce un apparato di testi che permettono di riflettere su molte cose da molte angolazioni diverse. Ricordo i titoli della saga, fatta di film che hanno avuto tutti grandi incassi: The Bourne Identity (2002, Doug Liman), The Bourne Supremacy (2004, Paul Greengrass), The Bourne Ultimatum (2007, Paul Greengrass), The Bourne Legacy (2012, Tony Gilroy), Jason Bourne (2016, Paul Greengrass).
Vediamo alcuni dei punti di vista attraverso cui si può indagare la saga, e in particolare l’ultimo Jason Bourne:
a) l’universo della surveillance, che può essere analizzato da un punto di vista socio-antropologico ma anche in senso foucaultiano.
b) lo stile della ripresa e del montaggio (in particolare la macchina a mano e quella che definirei con un neologismo (e parodiando un mio vecchio saggio), l’estetica della “un-steady cam” (possiamo dire “un-aesthetics cam”, o “in/an-estedicam”?);
c) la strategia di un cinema “intensificato” di cui parlava Bordwell, che Bourne porta a compimento; e che permette di indagare sul nuovo montaggio del cinema mainstream nei 2000: le sequenze di inseguimento simili alle battaglie di Transformers, che rendono impossibili il computo delle “inquadrature” (si potrà mai fare una sceneggiatura desunta di questi testi?). Siamo di fronte all’impossibilità di una analisi filmica tradizionale, shot by shot.
d) l’irruzione della Storia nel cinema hollywoodiano contemporaneo (la bella lunga sequenza ad Atene, nel pieno della manifestazione popolare, ma anche il senso di un’America resa ambigua dal post 9/11 – vedi il saggio di Zizek sull’11 settembre);
e) la rappresentazione della Rete e l’incubo di un controllo totale del web, che consente di collegare Jason Bourne al Jack Bauer di 24 ma anche all’ultimo James Bond di Spectre.
f) il corpo stesso di Bourne (le sequenze della lotta, che permettono confronti con film come Full Contact, di cui parlerò fra un attimo) come metonimia di un corpo spettatoriale soggetto ad emozioni violente. Emozioni che vanno analizzate tentando di coniugare indagini delle neuroscienze ed indagini estetiche e autoriali (lo stile di Greengrass ad esempio).
g) la “videogame logic”, anche qui, che permea i nuovi bisogni dell’immaginario collettivo e della percezione spettatoriale. In questo senso la serie di Bourne si collega ai citati Source Code e Hardcore.
h) Una lettura psicanalitica: Jason Bourne, il protagonista, è anche il suo “doppio”. C’è da un lato il personaggio di oggi, disperato e vendicativo, e dall’altra l’uomo di un tempo, figlio di famiglia forse coinvolto suo malgrado dal padre dentro un’operazione tragica. Senza contare i molti volti e le molte identità di Jason.
Tutto questo per dire che un film americano di oggi, di quelli che noi chiamiamo “commerciali”, può essere letto in maniera molto più profonda. Non è così per tutti i film e tutti i registi, ovviamente, ma questo ultimo Jason Bourne di Greengrass merita attenzione. E può/deve essere anche goduto anche senza masturbazioni intellettuali, fruendo del “piacere” del flusso di immagini belle e forti fornite dal film. Un film di forte tensione ed emozione, che forse paga ogni tanto alle debolezze del pubblico: ad esempio le immancabili scene di inseguimento, che per gli americani sono – ne parlava il compianto Franco La Polla – come i numeri di ballo nei musical classici. Irrinunciabili.
Ma, come dicevo, è sempre più difficile applicare a questi tipi di scene una analisi della grammatica filmica tradizionale, basata sull’indagine inquadratura per inquadratura. Quante sono le inquadrature, o i frammenti di inquadratura di un inseguimento di Bourne? Quanti sono i micro-shot di Transformers, che tanto “trasformano” il montaggio da “frastornare” (il gioco di parole è voluto) lo spettatore.
Lo stesso piano sequenza, tradizionale biglietto da visita dell’abilità registica, è ormai impossibile da verificare. Come fare a capire se si tratta di one shot sequences genuine o si tratta di manipolazioni digitali? Penso a piani sequenza celebri del recente passato come Omicidio in diretta (De Palma, 1998), che presentavano già dei tagli realizzati grazie alla postproduzione digitale: soprattutto le panoramiche a schiaffo dentro il palazzetto dello sport consentivano dei tagli “invisibili” realizzabili in montaggio.
La stessa cosa avviene oggi, a ben guardare, in elaborati piani sequenza come il folgorante inizio di La La Land (Damien Chazelle, 2016), dove due panoramiche veloci consentono il taglio. Oppure nel bellissimo incipit di Spectre (Sam Mendes, 2015), dove il piano sequenza ha la possibilità di essere tagliato grazie a una breve sosta o un leggero spostamento della mdp. E ovviamente durante tutto Birdman di Iñarritu, un lunghissimo piano sequenza tagliato col computer. Il digitale permette oggi quello che Hitchcock si doveva inventare in maniera artigianale ai tempi di The Rope.
Terza passeggiata. James Bond e il nuovo auteur-hero
Ecco, Spectre. Si tratta di un altro caso recente che coniuga Autore e mainstream, e che permette di mettere insieme due corpi, quello di Bourne e quello di Bond, tanto da poter inventare un nuovo “cyborg-personaggio”: Ja(m)son Bo(ur)nd, un misto di (super) eroi contemporanei. Si può parlare di un nuovo eroe d’autore, un “Author-hero” (o authero).
È interessante il fatto che alcuni film blockbuster hollywoodiani del nuovo millennio, basati su un eroe forte – o su un supereroe – siano stati offerti, piuttosto che a uno Studio director, a un Autore. È il caso di Batman, affidato alla regia di Nolan, è il caso di 007, affidato alla firma di Sam Mendes. Nolan impregna il super eroe dei fumetti di atmosfere noir, impasta il suo personaggio con inquietudini e malesseri impensabili rispetto al codice Marvel. Mendes rilegge Bond arricchendolo di sfumature psicoanalitiche, come nel lungo segmento scozzese di Skyfall, o avventurandosi dentro una foresta di citazioni come nel caso di Spectre. Nei due 007 affidati a Mendes Bond perde le stereotipe leggere dei precedenti eroi, sessuomani ed ironici, per assumere le vesti di un personaggio più conflittuale, venato di elementi melodrammatici se non tragici.
L’impianto d’Autore è dichiarato sin dalla prima scena di Spectre: un lungo piano sequenza (ma come ho detto un occhio attento scopre che in realtà ci sono almeno due tagli evidenti) che parte dentro la festa dei morti in Messico. Già in questa scelta si possono leggere due statements importanti: il piano sequenza come biglietto da visita autoriale, da Welles a Iarritu; e la citazione cinefila, con la festa messicana che non può non rimandare con la memoria a Que viva Mexico! di Ejzenštejn. Non a caso anche Iarritu e Cuaron, icone del piano sequenza, sono messicani.
È come se Mendes volesse subito mettere le mani avanti, facendo una sua dichiarazione teorica: attenzione, che non si tratta del solito 007 popolare, ma di un suo clone colto, ombroso, cinefilo, riflessivo e auto riflessivo.
[Estratto del saggio: V. Zagarrio, “Oltre i corpi del cinema. Sei passeggiate nei boschi narrativi del film”, in A. Rabbito (a cura di), La cultura visuale del XXI secolo. Cinema, teatro e new media, Meltemi, Milano, di prossima pubblicazione]
Bibliografia:
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Canova G., Il tramonto del corpo. Crisi dell’antropocentrismo e protagonismo degli oggetti nel cinema contemporaneo, in G. Petronio, M. Spanu (a cura di), Postmoderno? Gamberetti, Roma 1999.
Eco U., Sei passeggiate nei boschi narrativi, Milano, Bompiani, 2000.
Eugeni R., La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni, La Scuola, Brescia 2015.
Jullier L., L’écran post-moderne: un cinéma de l’allusion et du feu d’artifice, L’Harmattan, Paris 1997, trad. it., Il cinema postmoderno, Kaplan, Torino 2006.
Manovich L., The Language of New Media, Massachusetts Institutes of Technology, 2001, trad. it., Il linguaggio dei nuovi media, Olivares, Milano 2002.
Menduni E., Zagarrio V. (a cura di), Rivoluzioni digitali e nuove forme estetiche, in “Imago”, vol. 3, 2012.
Mittel J., Narrative complexity in contemporary American television, in «The Velvet Light Trap», n. 58, 2006.
Panek E., The poet and the detective: Defining the psychological puzzle film, in «Film Criticism», n. 31, 2006.
Rodowick D., The Virtual Life of Film, Harvard College, 2001, trad. it., Il cinema nell’era del virtuale, Olivares, Milano, 2007.
Uva C., V. Zagarrio (a cura di), Oltre il corpo del cinema, in “Imago. Studi di cinema e media”, vol. 12, 2016.