Pianista tra i più celebrati e versatili in ambito classico e contemporaneo, Emanuele Arciuli si è negli anni guadagnato la fama di interprete privilegiato della musica americana per pianoforte, alla quale ha dedicato un importante libro (Musica per pianoforte negli Stati Uniti, Edt) e diversi apprezzati Cd, a partire dal fondamentale Americans! (pubblicato dalla Stradivarius nel 1999). Molti autori statunitensi, da George Crumb a Joel Hoffman, lo considerano l’esecutore ideale delle loro partiture, in virtù di una riconosciuta capacità (tra le tante) di catturare quel senso dello spazio che innerva le pagine di personalità anche distanti tra loro come Barber, Cage, Rzewski, John Adams, e molti altri. Il suo ultimo progetto discografico, un doppio Cd licenziato dalla Innova Recordings e intitolato Walk in Beauty (come il brano di Peter Garland ivi contenuto), si presenta, come da apprezzabile consuetudine del pianista italiano, come un concept album legato a doppio filo alle tematiche della cultura dei nativi americani e dell’evocazione dell’ambiente naturale.
Emanuele Arciuli svolge una intensa attività concertistica che lo vede collaborare stabilmente con alcune fra le maggiori istituzioni e rassegne musicali italiane ‒ come la OSN della Rai, il Maggio Musicale Fiorentino, La Fenice di Venezia, il Festival dei Due Mondi di Spoleto, Settembre Musica di Torino ‒ e con importanti orchestre internazionali (Rotterdam Philharmonic, Brucknerorchester Linz, Filarmonica di San Pietroburgo, Saint Paul Chamber Orchestra, Indianapolis Symphony Orchestra e molte altre). Attivo anche in ambito cameristico, collabora regolarmente con Sonia Bergamasco e Andrea Rebaudengo. Docente di pianoforte al Conservatorio “Piccinni” di Bari, Arciuli insegna pianoforte contemporaneo all’Accademia di Pinerolo. Inoltre, tiene regolarmente workshop per numerose università degli Stati Uniti, dove si reca dal 1998 e ha tenuto oltre quaranta tournée.
Con l’occasione della recente uscita del suo nuovo lavoro discografico, ho rivolto a Emanuele alcune domande per consentire ai lettori di conoscere più da vicino il suo originale percorso artistico e il suo illuminante punto di vista sulla musica e sulla cultura contemporanea.
- Come nasce il tuo interesse per la musica americana? Quali sono le qualità che più ti colpiscono nella scrittura pianistica dei compositori statunitensi?
È un lungo discorso, che magari potremo rimandare a spazi più ampi. Comunque devo molto a Joel Hoffman e al suo festival di Cincinnati che, per dieci anni, mi ha consentito di conoscere tanti compositori americani. Della musica pianistica americana mi colpisce la varietà e il senso di libertà che mi comunica, oltre alla possibilità, che però vale per tutta la musica d’oggi, di interagire con i compositori, e – in un certo senso – fissare i termini di una tradizione esecutiva.
- In questo tuo ultimo progetto discografico, Walk in Beauty, affronti un repertorio dedicato in buona parte alla musica dei nativi americani. Quali sono le caratteristiche salienti del loro linguaggio musicale?
Non ci sono caratteristiche stilistiche comuni, anche perché al momento la musica dei nativi americani è davvero poca cosa. Louis Ballard è stato il primo, la qualità della sua musica è molto discontinua, ma io sto cercando di fare il possibile per la sua conoscenza. Il giovane Raven Chacon è interessante perché la sua musica deriva totalmente da esperienze non classiche, proviene da un altro mondo, quello del rock, della drone music. Ce ne sono altri, anche, come Brent Michael Davids, Jerod Tate, Barbara Croall, che seguo con fiducia. Vedremo.
- La storia della musica americana è costellata di sperimentatori impavidi e visionari. Quali sono, tra i vari American Mavericks che hai incontrato nel tuo percorso di approfondimento della cultura musicale americana, quelli che ti hanno affascinato di più, e perché?
Ives e Cage su tutti, ma anche figure meno universalmente conosciute, come Ruggles, Harrison, Rzewski, Tenney, Garland, e molti altri; Kyle Gann, per esempio, che meriterebbe più attenzione. Sono persone che hanno rischiato, che hanno trovato cose meravigliose, che il mondo della musica apprezzerebbe se non fosse così sclerotizzato nei suoi riti e nelle sue abitudini. Diciamocelo, talvolta abitudini un po’ idiote.
- In un tuo scritto di qualche anno fa lamentavi la scomparsa di “melodie non dico memorabili, ma quanto meno memorizzabili” nel linguaggio di molti compositori contemporanei. Credi che il ritorno alla dimensione melodica e ritmica attuato da diversi autori, variamente etichettati come post-minimalisti, post-moderni o neo-romantici ‒ ai quali dai sempre molto spazio nei tuoi concerti e nelle tue registrazioni discografiche ‒ rappresenti la strada maestra per la musica classica del presente e del futuro?
Non lo so. Certamente il post modernismo è stato un fenomeno (o un insieme di fenomeni) complesso e importante. Oggi siamo in una situazione anche più ingarbugliata, e credo che me ne occuperò in un prossimo libro che sto appena cominciando a scrivere, sempre con Edt. Siamo in un periodo in cui la complessità estrema si coniuga con una sorta di primitivismo, e per molti compositori – vedi John Luther Adams – più che la melodia è importante l’energia, la forza sorgiva di una musica assieme arcana e sofisticatissima.
- In uno dei tuoi progetti più interessanti e acclamati, ‘Round Midnight Variations, hai chiesto a numerosi compositori contemporanei, soprattutto americani (da Uri Caine a Michael Torke, per fare qualche nome), di scrivere dei brani ispirati al tema del famoso brano del jazzista Thelonious Monk, fino a costruire un programma più volte eseguito e poi registrato dalla Stradivarius. Altrove hai affrontato pagine di compositori-jazzisti come Carla Bley e Chick Corea. Come ti approcci al linguaggio del jazz o alle composizioni in qualche modo da esso influenzate?
Amo molto il jazz, e considero Bill Evans e Keith Jarrett, per fare due esempi, maestri assoluti. Nel jazz c’è una componente creativa e una consapevolezza ritmica e armonica da cui i musicisti classici avrebbero molto da imparare. Naturalmente la “pronuncia” di Chopin è diversa, ma credo che per suonare certa musica contemporanea la consuetudine con il jazz serva molto. Ricordo una lezione che Fred Hersch mi fece anni fa sui pezzi di Carla Bley, a casa mia a Bari. Fu illuminante sul piano ritmico. Non avrei potuto suonare certi autori senza una passione e una pratica (privatissima e domestica) del jazz.
- Alla tua attività di musicista e docente, hai affiancato quella di autore di libri e articoli (relativi alla musica ma anche, più in generale, all’arte e alla cultura). Qual è la tua opinione sul ruolo che la musica classica e contemporanea svolge ‒ o potrebbe svolgere ‒ nella vita dell’uomo moderno?
Ritengo paradossale che il sistema della musica colta (dalla formazione professionale e artistica delle nuove generazioni nei Conservatori alla programmazione delle stagioni sinfoniche e cameristiche) escluda in modo pressoché totale la musica contemporanea. E molti critici musicali sono, mediamente, impreparati a giudicarla non dando il giusto peso alle qualità musicali e artistiche di chi la interpreta (come se la qualità del suono, il tocco, il fraseggio, la natura musicale e la qualità poetica non fossero più necessarie a partire da Schoenberg in poi). Tanti docenti, purtroppo la maggior parte, non ne sanno nulla; il che non sarebbe così colpevole se non fosse accompagnato, talvolta, da un atteggiamento censorio o peggio derisorio, che mi fa molta tristezza. La musica classica rischia di restare un meraviglioso museo, comunque attualissimo – perché ritengo che Bach, Beethoven, Schubert e Debussy ci parlino con la stessa vividezza della musica attuale ‒ ma insufficiente a dare un senso alla musica come processo storico, come realtà viva. Oggi ci sono tanti meravigliosi brani contemporanei, anche se in Italia (e in Francia e Germania) si programma spesso musica nuova mediocre, che poi è la vera nemica della possibilità – in alcuni paesi già concreta – che la contemporanea si diffonda presso il grande pubblico. C’è un conservatorismo molto forte, qui da noi, e l’idea che per essere “rispettabile” la musica contemporanea debba evitare come la peste ritmi comprensibili – ancorché complessi –, armonie riconducibili anche a tonalità allargate, e una dimensione vagamente melodica. La musica contemporanea ha già tutto per diventare parte della esperienza estetica di un pubblico anche nuovo, che magari frequenta le mostre d’arte e legge la narrativa contemporanea, e va al cinema; se ascoltasse anche Reich, Adams, Glass, Crumb, Daugherty, Andriessen, Ligeti e Adès, per dire di autori non italiani (ma ce ne sono di formidabili anche da noi), sarebbe un arricchimento per tutti.
- So che sei un appassionato e collezionista di opere d’arte visiva. Che relazione c’è ‒ ammesso che vi sia ‒ tra le tue preferenze in ambito musicale e pittorico/visuale? Pensi che siano forme artistiche in qualche modo complementari?
In realtà colleziono solo opere di nativi americani, pur se possiedo pochi lavori di artisti italiani (Bartolini, Baruchello, Clerici, Bertasa etc.) e un John Cage. Per me l’arte visiva è importantissima, quasi quanto la musica e forse di più, e penso che ci siano delle fortissime assonanze fra ciò che accade nella musica e nell’arte visiva. Pensiamo anche solo alla reazione che, in Italia, si ebbe negli anni Ottanta/Novanta con il cosiddetto Neoromanticismo (Tutino, Testoni, Ferrero, Betta, Arcà, D’Amico, Galante, poi Sollima etc.) e il fenomeno della pittura colta promossa da Calvesi (Di Stasio, Gandolfi, Mariani, Bartolini etc.) per non dire della Transavanguardia. E percorsi simili sono avvenuti in Germania (da un lato Baselitz, Penck, Fetting etc. e dall’altro Rihm, Mueller Siemens, Trohjan etc.). Tutto questo resta lettera morta, ma sarebbe bello fare delle cose in tal senso e stimolare il pubblico a una maggiore riflessione. Per quanto mi riguarda ho commissionato a sette autori americani (Gann, Garland, JL Adams, Daugherty, Bresnick, Huang Ruo, Subotnick) opere ispirate all’arte visiva americana.
- Puoi parlarci dei tuoi progetti futuri?
Sono appena tornato da una lunga tournée in USA e Australia, e fra i prossimi concerti, invece, ci sarà molta Italia e molta orchestra. In novembre suono, fra l’altro, Gershwin con Aprea in Puglia, e al Carlo Felice, con Battistoni, Daugherty: faremo Deus ex Machina, un bel concerto che risuonerò in aprile alla Toscanini di Parma, assieme ai Canti della stagione alta di Pizzetti (lì dirige Angius, invece). Sono lieto di fare Ode a Napoleone Bonaparte di Schoenberg con l’orchestra di Padova e del Veneto, direttore Pestalozza; al Petruzzelli di Bari farò invece il Terzo di Bartók con Dennis Russell Davies. Tre volte Bernstein, Age of Anxiety, a Milano con Bignamini e l’Orchestra Verdi, a Ravenna Festival ancora con Russel Davies e la Cherubini e al Maggio Musicale Fiorentino con Axelrod. Al Maggio ho anche un concerto coi Cameristi, che hanno voluto coinvolgermi in un progetto con Kancheli e Shostakovic (concerto per piano tromba e archi). Un anno piuttosto denso, con un’estate americana all’insegna della Concord di Ives.