La letteratura non sta scomparendo, non ancora. Ciò che sta smettendo di funzionare è il sistema socio-culturale che la trasmette: editori, insegnanti, ricercatori, giornalisti faticano sempre di più a farsi mediatori efficaci. Perché? Una delle ragioni è che è venuto loro a mancare un linguaggio convincente che spieghi le caratteristiche e lo scopo della scrittura letteraria – che sono in realtà la stessa cosa dato che ogni rappresentazione è già un progetto, ogni teoria una poetica. I termini che vengono attualmente impiegati, e che sono riconducibili principalmente agli ambienti editoriale e accademico e ai loro rispettivi interessi, paiono ad un tempo piuttosto scorretti e poco persuasivi. Eppure non sembra del tutto impossibile trovare un modo diverso di presentare il letterario: cominciando per esempio col rispondere agli equivoci più seri.
(1) “È una pratica…” non un oggetto
Da più di due secoli si è cercato di applicare alle lettere un atteggiamento parascientifico che le considerasse analogamente al mondo naturale, come una serie di entità esterne. Si tratta di una posizione di ascendenza positivistica che chiamerei “fallacia filologica”, e che trova ancora accoglienza nell’università contemporanea, spesso sotto le mentite spoglie di questa o quella corrente critica apparentemente innovativa. Essa attribuisce primazia all’aspetto oggettuale delle opere letterarie: di qui amore per critica descrittiva, storie letterarie, manuali, edizioni critiche, stilistica, giudizi critici ecc. Siamo talmente abituati a questa prospettiva che fatichiamo a renderci conto di quanto i suoi fondamenti siano disputabili.
(1.1) In realtà i testi non possiedono una vera e propria esistenza in sé: creati col linguaggio – non-materia più vuota dell’aria, meno permanente di un profumo – piuttosto che entità descrivibili pare utile considerarli supporti di meditazione, per chi li legge e per chi li scrive.
(1.2) Né tantomeno i testi sono in grado di resistere al tempo, quasi fossero monumenti a verità eterne – altra classica fallacia spesso presupposta alla precedente e che chiamerei od “oraziana” o “platonica” a seconda che si sottolinei il lato egotistico (l’eterna gloria poetica) o quello epistemologico (l’eternità del sapere). Sono invece occasioni di esperienze mentali mai identiche, come ciascun lettore sincero con se stesso può verificare facilmente.
(1.3) Possono essere cioè vissuti ma non conosciuti, nemmeno dai loro autori, realizzandosi di volta in volta nel presente cangiante di ciascun essere umano. Non tanto diversamente, quando si scala una montagna ciò che accade è semplicemente un’esperienza, l’alpinismo, che non potrà mai essere sostituita da alcuna rappresentazione cartografica dei luoghi – che di per se stessi non esistono mai. I testi letterari avvengono, e per farli avvenire è necessario applicarsi nel tempo – è necessaria una praxis. (1.3.1) Edizioni critiche, introduzioni descrittive, articoli o altri testi analoghi sono relativamente utili soltanto quando si pongono come accessori alla pratica letteraria, senza sostituirsi alla lettura diretta come accade troppo spesso in Europa a tutti i livelli della formazione.
(2) “…che risponde al dolore…” non che conduce al piacere
Ma perché intraprendere la pratica letteraria? Mi pare che essa possa essere considerata, molto schiettamente, una particolare risposta alla natura problematica della vita. Sembrerebbe quasi inutile ripeterselo dopo che tanto tempo abbiamo avuto per leggere il modernismo europeo, e prima di esso le lunghe tradizioni nazionali, e prima ancora il corpus filosofico classico.
(2.1) Tuttavia oggi l’enfasi della promozione editoriale è posta su qualcosa di molto diverso: si dice e si richiede che la letteratura intrattenga, dia piacere. C’è però un’enorme differenza tra intrattenimento e risposta al dolore, se non altro perché la ricerca del piacere è essa stessa una delle principali cause del dolore umano. Inoltre vi è insito un escapismo che è alieno da un’infinità di esempi di pratica letteraria, che hanno cercato di rispondere al dolore attraverso specifiche forme di osservazione/accettazione, nella piena consapevolezza che il dolore non può essere vinto tentando di sfuggirgli. (D’altronde se il piacere fosse l’obiettivo primario del letterario potremmo anche smettere di leggere e scrivere, vista la moltitudine di modi che l’umanità ha oggi per ottenerne di ben più intenso di quello trasmesso da una paginetta stampata).
(2.2) Non che l’intrattenimento non abbia alcun uso. Esso può essere un utile strumento accessorio della pratica letteraria. Ritmo dell’intreccio, suspense, contrasti tra personaggi, fluidità stilistica, ecc., sono tutti esempi del suo impiego per rendere più agevole la lettura e stimolare l’attenzione (si tratta del famoso connubio di delectare e docēre; lo si confronti al ruolo di sukha e pīti o gioia ed estasi nella pratica meditativa hinayana).
(2.3) L’attività letteraria non risponde però tanto a casi di patologia psichica quanto alla natura dolorosa dell’esistenza nel suo complesso, dunque nemmeno il termine “terapeutico” – che di tanto in tanto si impiega per contrastare l’enfasi sul piacere – le si addice. È probabilmente più adeguato parlare di “soteriologia letteraria”. (La pratica letteraria andrebbe anzi evitata da chi si trova in particolari situazioni psicopatologiche: penso per esempio a quanto sia letale la combinazione documentata infinite volte tra narcisismo e scrittura).
(2.4) Se si accetta quanto detto sopra la pratica letteraria appare uno strumento e non un fine. Non è un feticcio né l’obiettivo finale dell’esistenza, pur se è così che alcune volte viene pure presentata, ma cerca piuttosto di condurre al momento in cui libri e tastiera non servono più: quando avrà finalmente preparato la mente (caso limite) ad affrontare semplicemente ogni situazione. Una volta conclusa la costruzione dell’ethos e stabilito un certo “modo di vita”, direbbe P. Hadot, gli “exercices” letterari possono cessare. (2.4.1) Lo scrittore maturo e realizzato – figura sia reale che ideale su cui si è riflettuto troppo poco – non ha più bisogno di scrivere, sebbene possa continuare a farlo con spirito puramente altruistico. Egli si limita a vivere nel presente istante per istante. (2.4.2) Non è per questo necessario, tuttavia, supporre una dicotomia tra letteratura (o arte) e vita: la pratica letteraria è già esperienza vissuta, pur se di tipo particolare; tuttavia esiste anche una vita al di là della letteratura.
(2.5) Infine, appare curioso che si continui a ripetere che l’“arte non serve a nulla”; l’arte letteraria serve al contrario ad affrontare il più grande dei problemi umani. Se c’è qualcosa di sovranamente utile, è la letteratura.
(3) “…tramite la contemplazione verbale…” piuttosto che l’azione
Appare realmente bizzarro che così spesso si voglia oggi considerare la pratica letteraria una professione, quando invece essa appare chiaramente una forma di vita non attiva, cioè che non è strutturata attorno alla realizzazione dei desideri dell’io.
(3.1) Essa porta, idealmente, lontano dalla competizione, lontano dal dominio del proprio ambiente, al di fuori dell’arena sociale. Essa rappresenta un’attività ma non un’azione, perché ciò che nella letteratura si fa (che sia lettura o scrittura) non è che un prodotto secondario di una situazione contemplativa, la cui caratteristica principale è invece l’osservazione: della mente nella mente. (3.1.1) La pratica letteraria implica infatti un’ipotesi dualistica (e non un’ontologia dualistica) che riconosca il primato della dimensione mentale degli eventi della vita.
(3.2) La contemplazione letteraria avviene, naturalmente, attraverso l’utilizzo del linguaggio. Lunghe serie di parole e frasi scorrono davanti agli occhi di lettori e autori suscitando nelle loro menti – oppure precorse da – cascate di pensieri, immagini, sensazioni, ricordi, che essi osservano. L’osservazione è dunque quanto meno doppia: implicando da una parte attenzione alle parole e dall’altra agli effetti delle parole. Si tratta di una forma complessa di attenzione dinamica, ad un tempo focalizzata e aperta che richiede addestramento sia nella sua forma di lettura che in quella di scrittura.
(3.3) Ci sono principalmente due modi di pratica letteraria, lettura e scrittura, che pur diversi restano in stretta relazione l’uno all’altro. Le qualità mentali che il primo sviluppa – tra cui concentrazione, consapevolezza, rinuncia, impegno, pazienza – si ritrovano molto potenziate nell’attività di scrittura: c’è dunque un rapporto di continuità tra l’una e l’altra modalità di pratica ed è per questo che è assai comune per un lettore farsi a un certo punto scrittore. (Altro ci sarebbe da dire sulle differenze, ma non è questo il luogo).
(4) “…conducendo alla disidentificazione…” e non alla verità
Se la pratica letteraria è mentale, il suo obiettivo soteriologico viene raggiunto tramite il mutamento della mente del praticante (preferirei questo termine a psiche o spirito, perché mi pare più neutro e meno sovraccarico). Il mutamento ha degli aspetti etici, che riguardano cioè qualità che potremmo chiamare caratteriali (ho ricordato sopra pazienza e rinuncia) e altri che si potrebbero invece meglio definire gnoseologici o conoscitivi. La pratica letteraria, in altre parole, sviluppa anche un certo tipo di sapere.
(4.1) Questo sapere è però assai diverso dalla conoscenza prodotta dalle istituzioni universitarie, ed è invece molto simile alla concezione di sapere abbracciata dalle scuole filosofiche classiche oltreché da certe tradizioni asiatiche (penso al buddhismo). La desuetudine della parola neolatina che meglio lo descrive ci dà un’idea di quanto la modernità si sia allontanata da queste posizioni. Mi pare infatti si possa semplicemente chiamarlo “saggezza”. Non si tratta di sapere teorico o intellettualistico ma di una comprensione profonda che diventa potenzialità permanente della mente.
(4.2) Sono state scritte e sempre si scriveranno le opere più diverse, dove idee del più vario tipo verranno trasformate in metafore e intrecci, sviluppate e demolite, trasformate e ricombinate. Tuttavia credo che ci sia una dimensione della “saggezza” letteraria comune nei secoli a una moltitudine di autori, e credo abbia a che fare con la capacità della pratica letteraria di liberarci progressivamente dal senso di individualità. Una volta attivata l’osservazione della mente nella mente, si scopre pian piano che nella mente non c’è nessuno – nessuna persona, nessuna entità, nessuna sostanza. La lista di autori che l’hanno compreso impiegando le formulazioni più disparate è realmente infinita. E così come la mente non ha sostanza non ne ha nemmeno il mondo cui essa è collegata. (4.2.1) Gli stratagemmi utilizzati dalla letteratura per arrivare a questa comprensione non intellettualistica (che si potrebbe chiamare, unendo la dimensione morale all’epistemologica, comprensione etica) sono noti e molteplici: dall’allegoria, al dialogo, alla finzione, all’ironia, alla metafinzione, alla defamiliarizzazione, al plurilinguismo, all’ibridizzazione tra generi, al flusso di coscienza ecc. (4.2.2) Ritengo errato sostenere invece che il letterario abbia a che fare con la produzione di significati, cioè con l’attribuzione di “sostanza” a delle posizioni intellettuali: nei testi i significati vengono creati, certamente, ma all’interno di uno spazio contemplativo che permette a lettore e autore di sganciarsi da essi, osservandoli nella loro natura condizionata e provvisoria.
(4.3) La disidentificazione è uno dei più importanti strumenti mentali che l’uomo ha a disposizione per reagire alla natura dolorosa dell’esistenza. (Disidentificarsi non è altro che “prepararsi a ben morire” – Platone, Fedone).
(5) “…ed è ardua e rischiosa”.
Non si sente spesso dire il contrario, che la letteratura è bella e facile e che tutti possono, in fondo, farsi scrittori? Niente di più errato. Non soltanto la scrittura ma nemmeno la lettura letteraria è alla portata di tutti.
(5.1) Si tratta di attività non “intuitive”, di forme non scontate di impiego della mente che attivano le facoltà cosiddette “superiori” cioè, molto banalmente, quelle che hanno automatismi più reconditi rispetto, che ne so, agli appetiti sensuali o al pensiero tecnico-strumentale. Le due modalità di pratica richiedono quindi un tirocinio, abbastanza breve per la lettura ma per la scrittura talmente lungo da poter essere considerato un vero e proprio cammino ascetico.
(5.2) La pratica letteraria mantiene comunque un certo grado di universalità dovuto al fatto che risponde a un problema universalmente umano, quello del dolore, e che lo fa utilizzando uno strumento pure universalmente umano o quasi, cioè la parola. Nonostante ciò essa non è in grado di rivolgersi ad ogni persona – non è dunque impossibile immaginare un futuro contesto socio-economico in cui saranno così pochi gli esseri umani capaci di praticarla che la letteratura si troverà di fatto abbandonata. (Altre pratiche mentali come l’anāpānasati o consapevolezza del respiro, tanto per fare un esempio, possiedono un maggior grado di universalità).
(5.3) Sia leggere che scrivere letterariamente è inoltre pericoloso, e può condurre a un’enorme serie di problemi e vicoli ciechi. Entrambe le modalità di pratica possono ad esempio potenziare eccessivamente la capacità elucubrativa della mente senza che disidentificazione e distacco siano mai raggiunti, consumando lettori e scrittori in un riflettere e raccontare tormentoso e vacuo. Possono addirittura stimolare il contrario della disidentificazione, un desiderio lancinante di significati e certezze, che a sua volta porta con sé un senso di incessante frustrazione e incompiutezza. Oppure possono essere usate per soddisfare tendenze narcisistiche, o anche semplicemente per rafforzare il senso di individualità – risultato che non potrà naturalmente mai essere raggiunto, tanto meno impiegando strumenti concepiti per generare l’effetto opposto. (5.3.1) Chi utilizza inappropriatamente la letteratura in questi e altri modi ne paga immediatamente lo scotto, soffrendo tremendamente e rischiando non di rado gravi tipi di psicosi. La mano che raccoglie una spada non dall’elsa ma dalla lama, vien da dire, non può che sanguinare.
(5.4) È dunque importante che chi si avvicina alla pratica letteraria possa godere di supervisione e guida. I mediatori che si assumono oggi questi compiti non sono tuttavia in grado di adempirvi, e non siamo ancora capaci nemmeno di immaginare nuovi quadri istituzionali che rendano la mediazione letteraria possibile ed efficace all’interno della società digitale del XXI sec. Quel che è sicuro, comunque, è che per arrivarvi è prima di tutto necessario ritrovare un lessico relativamente esatto, convincente e condiviso per comunicare a pubblico e praticanti quali siano le caratteristiche di base della missione letteraria.