The Aesthetic Marx

Samir Gandesha, Johan Hartle (a cura di), The Aesthetic Marx, Bloomsbury, London 2017, 344 pp.

 9781350024229

Scopo del presente contributo è offrire una breve presentazione di un libro uscito di recente, a cura di Samir Gandesha e Johan Hartle, col titolo incisivo e, per così dire, impegnativo The Aesthetic Marx. Il “Marx estetico” che ci presentano Gandesha e Hartle – rispettivamente direttore dell’Istituto per le Scienze Umane all’Università Simon Fraser di Vancouver e professore di Filosofia dell’arte all’Università di Amsterdam, e già curatori insieme del volume Reification and Spectacle: The Timeliness of Western Marxism (2016) – è un pensatore che, com’è ovvio, si confronta fondamentalmente con i problemi e gli scopi specifici della politica ma inserendoli all’interno di un ampio disegno di filosofia sociale che comprende anche una certa tematizzazione dell’estetica. O meglio, per riprendere un termine impiegato ripetutamente da Gandesha e Hartle, una certa tematizzazione e comprensione dell’estetico (“the aesthetic”), della dimensione estetica che comprende sì la dimensione artistica ma non appare riducibile esclusivamente a quest’ultima. Come spiegano ancora i curatori, il libro intende offrire “uno studio originale e stimolante sia di Marx nell’estetica, sia dell’estetico in Marx”, distinguendosi così da un filone di studi più mainstream, per così dire, che si è focalizzato di più sull’influenza della riflessione di Marx sulla delineazione delle concezioni estetiche di altri autori, ovvero più sugli sviluppi delle teorie estetiche marxiste che sull’estetica marxiana, sulle “opere stesse di Marx intese come contributi per pensare l’estetico”. “L’estetico occupa un posto prominente all’interno della costellazione di pensiero di Marx”, affermano in modo molto netto Gandesha e Hartle, i quali, a proposito della “relazione tra Marx e l’estetico”, parlano di una “relazione alla quale finora si sono spesso fatte allusioni ma che non è mai stata compresa a sufficienza”. Un altro elemento interessante che segnalano i due curatori è il fatto che The Aesthetic Marx – che, come dirò meglio a breve, comprende i contributi di dodici autori diversi, articolati in tre sezioni – tenti di sviluppare un confronto critico con la riflessione estetica presente già in Marx (senza per questo ignorare i suoi effetti e certe sue risonanze sul dibattito novecentesco, chiaramente) “prendendo in considerazione il significato ampio dato da Marx all’estetico, quale è stato identificato da Eagleton e Buck-Morss”: l’estetico, cioè, “come questione relativa alla percezione sensoriale e al corpo”. Ciò, d’altra parte, senza ovviamente trascurare la parte della riflessione estetica (ma al contempo senza scambiare la parte per il tutto, per così dire) specificamente vertente su temi più tradizionali, e di fatto predominanti in estetica dall’epoca dell’idealismo tedesco fino a oggi, come quelli della produzione e ricezione artistica, della poesia (con riferimenti costanti a Dante, Shakespeare e Goethe, come segnalano i curatori), dell’interpretazione della vita politica come una sorta di messinscena teatrale, della natura autonoma e/o eteronoma dell’arte, ecc. E ciò, al contempo, senza trascurare la questione del rapporto tra arte e filosofia osservata anche dall’altro lato rispetto a quello della filosofia, ovvero non solo dal punto di vista dell’applicazione di certi concetti e principi filosofici alla comprensione di determinati fenomeni artistici, ma anche dal punto di vista della presenza della filosofia e dei filosofi (in questo caso: Marx) all’interno della produzione artistica reale, effettiva, concreta, di una certa epoca. A quest’ultimo aspetto è dedicata in particolare la terza e ultima delle sezioni in cui si articola il libro, intitolata Modes of Artistic Productione comprendente i saggi di Boris Groys (Installing Communism), Robin Greeley (Marx’s Aesthetics in Mexico: Conceptual Art After 1968), Sven Lütticken (Filming Capital: On Cinemarxism in the Twenty-first Century) e Johan Hartle (Marx as Art as Politics: Representations of Marx in Contemporary Arts). Le due sezioni precedenti in cui si articola il libro, rispettivamente intitolate Aesthetics / Emancipations e Style and Performativity in Marx, comprendono invece otto saggi che, come si sarà già compreso dalla sintetica presentazione offerta fin qui, esplorano una molteplicità di tematiche particolari ruotanti attorno a un nucleo concettuale generale costituito per l’appunto dal problema dell’estetico sia “in” Marx, sia “a partire da” Marx. I saggi che compongono le prime due sezioni del libro sono quelli di Samir Gandesha (Three Logics of the Aesthetic in Marx), Henry Pickford (Poiesis, Praxis, Aisthesis: Remarks on Aristotle and Marx), Sami Khatib (“Sensuous Supra-Sensuous”: The Aesthetics of Real Abstraction), Johan Hartle (Free Associations: On Marx and Freud), Anna Katharina Gisbertz (On Beauty and its Challenges: Friedrich Theodor Vischer and Karl Marx), Hayden White (Marx: The Philosophical Defence of History in the Metonymical Mode), Terrell Carver (Imagery as Weaponry: ars gratia belli) e Daniel Hartley (Radical Schiller and Young Marx), e come si può vedere già dai titoli dei singoli contributi essi compogono una costellazione tematica assai complessa e variegata. Tutto ciò è preceduto da un’ampia Introduzione al volume in 10 paragrafi (che in sé è già un piccolo trattato di estetica marxiana e marxista), nella quale i curatori forniscono al lettore alcune utili chiavi di lettura per addentrarsi in un’opera così vasta e plurale. Gandesha e Hartle, nell’Introduzione, prendono le mosse dalla questione, oggi di estrema attualità, dell’avvento della “società dello spettacolo” e del cosiddetto “capitalismo estetico”, spiegando come il ritorno a un’ottica marxiana consenta di emanciparsi da un punto di vista puramente descrittivo di certi fenomeni della contemporaneità e di accedere invece a un livello genuinamente critico-normativo (o, se si vuole, prescrittivo). L’incipit chiarisce tutto ciò in un modo enfatico che lascia poco spazio a dubbi o esitazioni: “Il capitalismo è diventato estetico. O almeno così sembra. Il che, ovviamente, non intende suggerire che la vita sotto il capitalismo sia necessariamente giunta alla sua realizzazione, che essa comporti la fioritura dell’essere umano, che il lavoro sia stato finalmente organizzato ‘secondo le leggi della bellezza’. Ben lungi da ciò! Piuttosto, è diventato ‘estetico’ solo nel senso che la produzione del valore dipende adesso fortemente dalle ‘industrie creative’, dal lavoro delle ‘classi creative’, da strategie estetiche di distinzione e dalla modulazione degli affetti”. E ciò, ci viene suggerito, si fonda sul persistere di ineguaglianze e ingiustizie, e favorisce a sua volta il loro prodursi e, anzi, il loro moltiplicarsi e accentuarsi. Il che – così Gandesha e Hartle – rende possibile, se non opportuno e finanche necessario, un “tentativo di presentare Marx come un contemporaneo nella nostra epoca post-nietzschiana” come quello intrapreso da The Aesthetic Marx. Il “Marx estetico” di cui ci parla il libro è un teorico che “politicizza l’estetico in almeno due modi: riconnettendo l’estetico a un ordine sociale fondamentalmente iniquo, da un lato, e inscrivendo la sua forza potentemente destabilizzante nel politico, dall’altro”. Il leitmotiv dell’intero volume viene individuato da Gandesha e Hartle in quella che essi definiscono una “tensione tra due poli (estetica filosofica normativa e interesse storicizzante per l’estetico)” presenti in Marx e nella lista potenzialmente infinita dei “teorici di estetica marxisti o marxisticamente-ispirati”, fra i quali ci si limita a citare, nelle prime pagine dell’Introduzione, G. Lukács, G. della Volpe, B. Brecht, W. Benjamin, Th. W. Adorno, V. Voloshinov, M. Raphael, M. Schapiro e M. Tafuri. Quello che diviene possibile delineare è allora “un approccio meta-estetico”, da intendere “sotto almeno due punti di vista: primo, si spinge al di là del modo in cui l’estetica appare fissata sotto le condizioni di una certa formazione socioeconomica […]; secondo, ripristina l’importanza dei sensi e introduce strategie estetiche (letteratura, retorica, allegoria, metafora, performatività della teoria) come elementi irriducibili della teoria”. Particolarmente interessanti, nell’Introduzione, sono i paragrafi 5, 6 e 8, rispettivamente intitolati External and immanent critiques of aesthetic ideology, The aesthetic turn in political theory e Materialist histories of subjectivity, nei quali, fra le altre cose, ci si confronta in modo ampio e attento con le tesi di H. Marcuse, P. Bürger, F. Jameson, T. Eagleton, J. Derrida e J. Rancière (sempre riconnettendole alla base teorica di partenza marxiana, mai trascurata o messa da parte), e si spiega che “ciò a cui ci si riferisce spesso come ‘la svolta estetica’ nella teoria politica può essere descritta più correttamente come un ‘ritorno’, nella misura in cui la dimensione estetica non arriva dall’esterno della teoria politica ma è sempre stata presente al suo interno, fin dalle sue origini”. Un aspetto, quest’ultimo, che si ricollega fra le altre cose al fatto che opere di Marx come i Manoscritti del 1844 possano esser letti come anche (sebbene non solo, com’è ovvio) focalizzati “sulla costituzione storica della percezione umana, o in altre parole sulla storia dell’estetico”: un’intuizione sugli “effetti che la trasformazione capitalista ha sul sensorio umano” che, ripresa e portata avanti anche da altri autori (vengono citati G. Lukács, W. Benjamin, O. Negt e A. Kluge), conduce, fra le altre cose, all’idea dell’“estetico [come] strumento analitico per comprendere il capitalismo” e all’idea che una siffatta ricostruzione della “storia dei sensi” possa contenere in sé anche “la promessa […] della loro realizzazione”. Questi aspetti, insieme a molti altri di cui non è possibile render conto qui, in questa breve presentazione, contribuiscono in definitiva a render perspicuo lo scopo generale del libro, enunciato in maniera quanto mai chiara sempre nell’Introduzione: “rendere nuovamente Marx un nostro contemporaneo – sempre ammesso che egli, in effetti, abbia mai cessato di esserlo”.

 

Stefano Marino



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