Scuola e storiografia

 

 

Su “La Repubblica” si è discusso di recente  se sarebbe possibile, e se gioverebbe, diminuire di un anno gli studi della Scuola secondaria superiore. Fra i problemi affrontati, quello di riuscire, nel caso, a contenere in soli quattro anni un programma di Italiano che si è fatto sempre più folto e che giunga realmente fino ai nostri giorni.

Alberto Asor Rosa, che ha dato inizio alla discussione, ha giustamente respinto la riduzione del corso a quattro anni e ha sostenuto altrettanto giustamente che, per quanto riguarda la letteratura italiana, è  necessario estendere la trattazione fino ad affrontare la condizione attuale  delle Lettere.

Molto discutibile, invece, e quindi da non accogliere in silenzio, la proposta di Guido Baldi, già docente nei licei  e nell’Università di Torino. Dice in sostanza Baldi, proponendo un esempio: se ,dalla trattazione del Petrarca, eliminassimo tutto tranne alcuni sonetti, la canzone “Chiare, fresche e dolci acque”, e un testo dell’umanista, riusciremmo a trattare non solo alcuni narratori nostri contemporanei, come Tabucchi e Del Giudice, ma perfino il vincitore del Premio Strega 2017.

Il primo difetto da notare nelle due diverse proposte è che sia a Asor Rosa, peraltro più consapevole, sia in particolare a Baldi sembrano stare a cuore esclusivamente la notizia, l’informazione. Entrambi escludono, o non se ne danno cura, o lo considerano secondario, il controllo critico. A entrambi sembra importare poco o nulla la qualità dei testi da proporre. E proprio di fronte a un pubblico di ragazzi, i quali più di altri avrebbero bisogno di usufruire di quel controllo. Che Baldi arrivi a proporre il Premio Strega 2017, purtroppo non è una battuta paradossale, è una proposta seria, e per questo preoccupa, posto che  altri condividano la proposta. Sia chiaro, non si tratta del fatto che un classico, essendo un classico, merita sempre rispetto, si tratta del fatto che un classico è diventato un classico non solo per la qualità dei suoi testi, ma anche perché quella qualità è stata verificata e accertata da numerosi controlli critici, e controlli quasi sempre di qualità. Il che ovviamente   non si può dire non solo del Premio Strega 2017, ma anche di Tabucchi, di Del Giudice e di molti altri scrittori dei nostri giorni. Per quanto mi riguarda, riconosco che probabilmente si renderà opportuno o necessario rendere quantitativamente più leggera la presenza dei classici nei programmi scolastici. Ma, se accadrà, non dovrà certo accadere per fare posto a qualche premiato della stagione recente; e, per le ragioni indicate, e per altre ragioni che cercheremo di indicare, si dovrà procedere con molta assennatezza e delicatezza

Priva di carattere paradossale, l’ipotesi di Baldi può però, paradossalmente, giovare non si dice come modello, ma come discrimine critico. Chi, infatti, ha assegnato il Premio Strega? Non un collegio di critici e di storici della letteratura italiana, non Contini, non Raimondi, non Mengaldo, ma un gruppo di signore e di signori della cui autonomia di giudizio, e della cui competenza, non si sa nulla. Il Premio Strega, infatti, stando alle notizie che forniscono i giornali, nasce da uno scontro fra alcuni editori, i quali, per accaparrarsi il Premio, si azzuffano a volte come se si trattasse di decidere delle sorti della cultura italiana. Il fatto ha però un rilievo sociale e sociologico? Il rilievo è minimo. E io, per quanto mi riguarda, non avrei mai rinunciato anche a un solo sonetto del Petrarca per far sapere ai miei studenti che un certo signore, più o meno sconosciuto, aveva vinto un premio con un libro di cui dopo un paio d’anni nessuno probabilmente si sarebbe occupato” più, tranne Baldi.

Molto più cauta,  più fertile e più persuasiva la proposta di Asor Rosa (che ha ripreso il discorso nel “Venerdì” di “Repubblica”). Occorre però intendersi, posto che sia possibile: cosa precisamente si vuol dire affermando “fino ai giorni nostri”? Comprendiamo, in queste parole, tutto il Novecento, o le riserviamo soltanto ai primi diciassette anni del nuovo secolo? In ogni caso, quella che chiamiamo “Contemporaneità” è il tempo nostro, il tempo in cui viviamo, e che vive in noi, nel quale conosciamo le opere letterarie appena vengono pubblicate per la prima volta. Opere che in certi particolari modi testimoniano, o dovrebbero testimoniare, di noi, della nostra vita. Come tollerare, come consentire che i giovani, coloro che oggi stanno  costruendo la loro vita, ignorino i libri che in certa misura a quella costruzione possono utilmente partecipare? La risposta sembra agevole: adoperiamoci allora per indicare come meglio possiamo a quei giovani quei libri potenzialmente importanti per loro.

In realtà, il problema che abbiamo di fronte non è affatto agevole. C’è, in primo luogo, una contropartita da pagare se vogliamo elaborare un panorama esaustivo o dignitosamente ampio della contemporaneità. Non sarà il solo Petrarca che occorrerà “sfoltire”: anche Ariosto, anche Machiavelli, anche Tasso, anche Leopardi, per ricordare solo alcuni fra i maggiori, saranno coloro  sui quali dovrà intervenire il bisturi. Che, naturalmente, non sarà un bisturi simile a quello “cesareo” con il quale Ezra Pound ha dato vita a The Waste Land di Eliot, anzi, sarà proprio il contrario. C’è però una seconda questione, più importante della prima. I classici italiani, da Dante a Montale, prima di diventare dei classici, o meglio, prima di diventare scrittori meritevoli di essere letti anche, e soprattutto, nelle scuole, hanno subito innumerevoli controlli critici che ne hanno sempre meglio (e quindi non moralisticamente) sancito la “leggibilità” artistica. Che controlli hanno subito certi contemporanei che si vorrebbe dare oggi in mano ai giovani? Il controllo della giuria del Premio Strega?O il controllo esercitato da qualche articolo di quotidiano? Perché il punto è questo:  il controllo di leggibilità letteraria di un testo, e tanto più di un testo da proporre a degli studenti, non può non passare attraverso la verifica che ne compie l’analisi critica.

Controllo, verifica, accertamento: di che cosa? Della dignità stilistica, dell’efficacia rappresentativa, e soprattutto della novità e dell’originalità delle opere di cui si raccomanda la lettura. O qualcuno pensa che il nuovo sia nuovo, e quindi degno non solo di lettura, ma anche di storia, soltanto perché è stato appena dato alle stampe, o perché è stato appena consacrato da un premio letterario? Il nuovo come Vient-de- parâitre? Il nuovo, in letteratura, e soprattutto in poesia, non è preparato negli studi di un editore, il nuovo è preparato dalla ricca complessità e multiformità della natura e della cultura, il nuovo nella sua apparente immobilità irrompe, travolge, trasforma, il nuovo sono Le fleurs du mal, sono le Illuminatios, è Il porto sepolto, è Laborintus.

Ora come ora, temo, dovremo accontentarci di qualcosa che né irrompe, né travolge, né trasforma, di qualcosa, insomma, di molto modesto. Bene. Ma se ci tocca ciò che non risplende, che sia almeno serio e onesto, che abbia almeno la luce della dignità.

Credo che la maggior parte degli insegnanti non possa che essere d’accordo con queste tesi, che sono prevalentemente frutto del buonsenso. Nessuno può voler proporre ai propri studenti ciò che è mediocre e banale solo perché è recente, solo perché è cronologicamente attuale. Storia e attualità difficilmente possono accordarsi, il loro incontro richiede saggezza, prudenza, discernimento.

E’ dunque necessario rassegnarsi, rinunciare a far entrare nella Scuola la letteratura del nostro tempo? Niente affatto. Occorre solo rispettare le condizioni che abbiamo cercato di indicare. Alle quali, per il buon peso, conviene probabilmente non far mancare qualche considerazione.

Non è facile, in ogni settore, e in quello della storiografia letteraria forse in modo particolare, giudicare della contemporaneità. Proprio perché è contemporanea, perché, ci piaccia o non ci piaccia, è parte della nostra vita anche se la rifiutiamo. Non dico che ci appartiene, dico che non può esserci estranea, dico che è nostra anche se non è nostra, perché condivide i nostri giorni, le nostre passioni, le nostre sofferenze. E dico che qualcuno di noi se ne deve occupare, deve, se ne è capace, aiutarci a comprenderla, a renderla più nostra, se lo merita, a respingerla, se non lo merita. Aiutarci come? Proponendo delle ipotesi, dei principi regolativi, elaborando dei nuovi modelli, dei paradigmi, avanzando delle proposte. Questa, per esempio, che non è recentissima ma, se si tratta di letteratura, è sempre valida: non si dà letteratura nuova se non esistono una cultura nuova e un nuovo linguaggio. Per essere veramente nuova una letteratura ha bisogno di nutrirsi di una nuova visione del mondo, di fondarsi su nuove modalità percettive, di giovarsi di nuovi strumenti conoscitivi e di nuovi strumenti comunicativi. Si pensi al giovane Ungaretti che a Parigi ascolta le lezioni di Bergson, si pensi a Marinetti e a Soffici che, sempre a Parigi, vedono i quadri cubisti, si pensi a Svevo che dichiara di nutrirsi delle opere di qualche filosofo, pur modificandole a suo modo.

Priva di nuovi paradigmi culturali la letteratura sopravvive, boccheggia, produce, tranne qualche rara eccezione, solo testi mediocri, banali, al massimo dignitosi, non solo accetta il mercato, ma vi si adegua. Gli scrittori possono essere non privi di mestiere, di abilità, di saggezza mondana, ma le cose che scrivono non nascono da vera necessità, da una profondità e novità di visione, da una coraggiosa innovazione linguistica. Sotto le apparenze del benessere, della pienezza, della maturità e perfino della ricchezza, nulla si muove, nulla cambia, nulla inquieta.

Interrogando la storia, è possibile trovare qualche motivazione di tutto questo? Fra gli anni ’50 e gli anni ’70, la cultura italiana ha conosciuto un fase di fervida e fertile attività, sorretta da una vitale assimilazione di testi e di teorie straniere. Basti pensare a questi nomi e a questi titoli: Pasolini e “Officina”, Anceschi e “il verri”, il Gruppo 63, i Novissimi, Scrittori e popolo di Asor Rosa, la Scuola filosofica di Banfi, l’editoria di Giulio Einaudi e di Giangiacomo Feltrinelli; Saussure, Jakobson, Lévi-Strauss, Sklovskij,  Husserl, Sarte, Merleau-Ponty, Lacan. Furono anni ricchi di eventi, di autori, di opere che facevano pensare a una definitiva sprovincializzazione della nostra cultura.

A partire dalla fine degli anni ’70 del secolo ventesimo, e con un progressivo peggioramento nei diciassette anni seguenti del ventunesimo (in quasi un cinquantennio, quindi), la cultura italiana ha invece prodotto assai poco di originale, se non  la suprema, stupenda permanenza di alcuni eccezionali personaggi – assai diversi l’uno dall’altro non solo professionalmente – che  negli anni precedenti avevano raggiunto il culmine del loro lavoro: Contini, Raimondi, Anceschi, Garin, Macchia, Argan, De Mauro, Fellini, Berio, Baj, Ronconi, Rodotà, Dario Fo, per fare solo alcuni nomi. Venuto meno quel rigoglio, la filosofia – e probabilmente c’è da rallegrarsene – si è ridotta ad essere storia della filosofia (come auspicava Garin), o a fondare la propria riflessione sulla storia. Le altre discipline (psicoanalisi, sociologia, antropologia culturale, con l’eccezione  della linguistica e della semiotica, in rapido ma breve sviluppo) hanno proseguito senza scosse e balzi in avanti un tranquillo itinerario di normalità. Priva di stimoli, di supporti, di nuovi modelli, se non di quelli provenienti dall’estero, anch’essi peraltro non particolarmente stimolanti e fertili, la letteratura del cinquantennio in Italia esibisce  i caratteri di una pacata ma esausta normalità, quando non di una stanca ripetitività e regressione, o, peggio, di una banalità asservita al mercato. E’ questo che si vuole offrire agli studenti? E’ per questo che si vuole “tagliare” Petrarca e gli altri classici? Riducendo la critica e la storiografia a una cronaca inutile e fastidiosa?

Né mancano altri aspetti che è opportuno tenere presenti, se si aspira a un resoconto didattico responsabile e consapevole. Quanto meno i testi letterari sono sottoposti a controllo, tanto più il giudizio storiografico diventa arduo, rischioso. E’ vero, la letteratura stessa ci ha educati al rischio, al pari. E potrebbe essere perfino benefico abituare i giovani all’idea dell’incertezza epistemologica, della pluralità dei modelli e delle scelte, della convivenza delle opzioni. Il rischio dell’incertezza, del dubbio che blocca o impaccia però permane. Facciamo alcuni esempi. Nessun dubbio sull’Ungaretti del Porto sepolto  e dell’Allegria. Ma si potrà rendere conto poi, senza dubbi e incertezze, di un cammino di questo poeta sempre proficuo e soprattutto coerente? Il Montale più persuasivo e ammaliante è quello della Bufera o quello di Satura? E’ proprio vero che Gadda è un grande narratore? Non aveva torto e al tempo stesso ragione Contini quando parlava di “lirica”? Del Partigiano Johnny di Fenoglio proporremo agli studenti la lettura della stesura curata da Maria Corti o la lettura della lezione approntata da Dante Isella? Veniamo a esempi più vicini. Non abbiamo ancora smesso di discutere di Calvino, Pasolini, Sanguineti. Le nostre discussioni sono probabilmente utili e proficue, come sempre in campo storiografico, ma sono ancora lontane, pare a me, da conclusioni almeno in parte univoche e persuasive. Che facciamo, consegniamo ai giovani non l’idea fertile della complessità e della pluralità della cultura, ma l’impressione ferale della nostra litigiosità?

Cosa decidiamo, allora, desistiamo? Rinunciamo a far entrare nella Scuola il presente  in tutta la sua ampiezza e pluralità? Rinunciamo alla critica, rinunciamo alla storia? Rinunciamo proprio nella Scuola, che è e non può non essere il luogo  dove, forse con un poco d’enfasi, si insegna il rifiuto della rinuncia? Assolutamente no. Noi abbiamo il dovere della storia, così come abbiamo il dovere della critica. Abbiamo però anche il dovere di una strumentazione culturale degna sia degli oggetti che sottoponiamo alla nostra critica e alla nostra storiografia, sia di coloro cui ci rivolgiamo.



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