Antonio Gramsci morì nel 1937, poco tempo dopo aver concluso il suo periodo di reclusione carceraria(1926-1935), dovuta, come è noto, alla sua opposizione al regime fascista. In questo 2017 cade, quindi, l’ottuagenario dalla scomparsa di questo studioso, intellettuale, uomo politico, che è stato una delle figure più profonde e rilevanti del panorama culturale, italiano e non solo, del XX secolo. Il pensiero e l’opera di Gramsci, i suoi Quaderni del carcere, costituiscono un lascito culturale e politico di enorme valore e mostrano un canone elevato che molti critici ritengono inattuale rispetto alle trasformazioni etiche e sociali del mondo odierno e, tuttavia, questo canone appare necessario per chi voglia ancora mantenere un certo senso di studio e di civiltà.
Ricordare Gramsci, dunque, può risultare una attività sempre meritevole e, in questa sede, il modo più introduttivo per provare a farlo può forse essere quello di scegliere di riferirsi alle sue lettere del carcere(si veda Gramsci, A. Lettere dal carcere, Einaudi, Torino, 1971), indirizzate ai suoi cari, perché da tali lettere emerge con garbo, compostezza e linearità, lo stile di Gramsci, che non cessa di essere fonte di ispirazioni etico-politiche e sociologiche.
Sono molti, infatti, gli spunti che queste lettere ancora danno. In primo luogo, esse esprimono l’idea di coscienza di sé, responsabilità e attenzione: Gramsci, nello scrivere e nella attività culturale in genere, cerca una via di fuga dal possibile abbrutimento che egli teme nella vita nel carcere. Egli appare costantemente, pur nelle condizioni di disagio, metodico, puntuale, il più possibile paziente e disponibile: a volte si definisce un po’ “pedante” e si preoccupa per questo con i suoi interlocutori. Attento ai dettagli, rassicura, per quanto può, i suoi interlocutori, che invita continuamente a scrivergli, perché ricevere notizie dai suoi cari lo aiuta a riempire la triste vita del carcere. Il senso di coscienza resta vigile e, ad esempio, in merito alla possibilità che la moglie Giulia, per risolvere suoi problemi personali, si rivolga a uno psicoanalista, egli esprime e argomenta sue perplessità; la psicoanalisi, infatti, viene “criticata” da Gramsci, non tanto per una avversione in sé a questi metodi, ma perchè egli ritiene che «una persona di cultura(nel senso tedesco del termine), un elemento attivo nella società come è certamente Giulia[…] debba essere e sia il miglior medico psicoanalitico di se stesso»(cfr. Gramsci, A., Lettere dal carcere, cit., p. 199), ossia che, in definitiva, chi è capace di pensare e riflettere criticamente non sia il tipo di paziente su cui la psicoanalisi può operare più opportunamente: si tratta di osservazioni che ridestano il senso autocritico, soprattutto ripensando alla società odierna, sempre più invasa da pratiche terapeutiche anche in casi forse non necessari (su questi aspetti della società attuale si possono vedere le considerazioni di Furedi, F., Il nuovo conformismo, Feltrinelli, Milano, 2008, Žižek, S., Il soggetto scabroso, Cortina, Milano, 2003 e anche Magatti, M., Libertà immaginaria, Feltrinelli, 2009). Emblematicamente e coraggiosamente, Gramsci scrive alla moglie che «non bisogna lasciarci schiacciare dalla vita vissuta finora, o almeno bisogna conservarne solo ciò che fu costruttivo e anche bello. Bisogna uscire dal fosso e buttare via il rospo dal cuore»(cfr. Gramsci, A., Lettere dal carcere, cit., p. 234)
Sebbene nelle lettere, a causa della censura, egli si senta non libero di esprimersi completamente, i suoi discorsi lasciano intuire suoi sentimenti, suoi affetti, sue attitudini intellettuali e relazionali. Molto indicativo anche il modo cui si rivolge ai due figliolini, appena nati quando Gramsci viene incarcerato, e che, quindi, egli non può vedere crescere: chiede spesso loro foto e, quando essi cominciano ad essere più grandi, scrive con curiosità riguardo ai loro interessi, alla loro vita scolastica, tenendo sempre legate, nelle sue esternazioni, la formazione umana e quella culturale e raccontando episodi della sua vita fanciullesca, in cui magari i bambini possono ritrovarsi: si tratteggia così anche il ricordo del Gramsci bambino nel suo piccolo paese sardo, alle prese con animaletti e passeggiate, curioso della natura e studente preparato, diligente e intelligente.
Le lettere danno anche la possibilità di cogliere la lodevole capacità di studio di Gramsci, che cerca di organizzarsi, malgrado le ovvie limitazioni imposte dalla detenzione, nel reperimento costante di libri e riviste, e più banalmente anche di materiale di cancelleria più adatto a sue esigenze e preferenze, nell’impostazione mentale di piani di lavoro concettuale: è evidentemente una intelligenza vivida e purtroppo ingabbiata e condizionata dai progressivi problemi di salute; e il lettore delle sue lettere non può non osservare malinconicamente quanti spunti e quanta attività avrebbe meritato di poter svolgere in condizioni normali, studiando senza assilli e tormenti fisici e emotivi.
Emergono chiaramente le tante competenze culturali di Gramsci, da quelle linguistiche, filologiche e grammaticali, frutto dei suoi studi universitari alla facoltà di Lettere di Torino, a quelle politiche, ma pure le sue attitudini e i suoi interessi ai fenomeni naturali e la sua capacità osservativa in grado di individuare sottili aspetti psicologici e sociologici; ma, soprattutto, in generale, si desume il suo desiderio di approfondimento dei processi storici e la crucialità che egli coglie a questo riguardo. È notevole questa tendenza a guardare nel lungo periodo, a comprendere l’importanza delle dinamiche che attraversano i tempi, toccando snodi vividi e influenti, tramite cui il presente può essere compreso più nitidamente; Gramsci scrive assai espressivamente, in una lettera al figlioletto Delio, che gli piace la storia «perché riguarda tutti gli uomini viventi e tutto ciò che riguarda gli uomini, quanti più uomini è possibile, tutti gli uomini del mondo in quanto si uniscono tra loro in società e lavorano e lottano e migliorano se stessi non può piacerti più di ogni altra cosa» (Gramsci, Lettere del carcere, cit., p. 294).
Il mondo del XXI secolo, come è stato osservato ripetutamente da sociologi, filosofi e intellettuali in generale, si è allontanato da posizioni teoriche di ampio respiro(capaci di integrare aspetti culturali e politici, etici e teoretici), parcellizzando e sminuzzando l’idea di conoscenza, specializzandola e professionalizzandola il più possibile, perdendo spesso appunto la prospettiva storica; e la stessa sfera politica e quella educativa e della personalità hanno assunto una conformazione distante dagli ideali gramsciani. Le lettere che Gramsci ha lasciato, oltre a invitare, quasi inesorabilmente, studiosi, storici, letterati, sociologi, filosofi, politologi, educatori, giornalisti, scrittori ad approfondire la sua opera, costituiscono, quindi, anche una opportunità di riflessione di rara profondità per ogni persona, sono un esempio di come darsi una dirittura, un governo di sé, una indipendenza di pensiero e una forma di libertà, anche in condizioni di grande difficoltà e sconforto: per usare un lessico sociologico, le lettere ispirano ad essere autodiretti anziché eterodiretti, come spesso, purtroppo, accade in tante situazioni determinate dalle società complesse, tanto più ai giorni nostri. In tal senso, del resto, possono assai istruttivamente esprimersi i numerosi critici e interpreti dell’opera gramsciana (che tante attenzioni hanno giustamente dedicato all’intellettuale sardo), cui è il caso di rimandare chi voglia opportunamente approfondire questi aspetti.
In questa sede, invece, necessariamente sintetica, si è potuto solo umilmente omaggiare il ricordo di Gramsci: in fondo, al termine della lettura delle sue lettere, la prima cosa che resta è una silenziosa ammirazione e al tempo stesso una amara tristezza nel pensare che una mente tanto ragguardevole quanto meritevole non abbia avuto né i modi più giusti, né il tempo di una lunga vita( Gramsci muore a 46 anni) per dispiegare ulteriormente, oltre i già notevoli Quaderni, la sua profondità. Per questo, lungi da preferenze ideologiche o appartenenze disciplinari, lungi da discorsi politici e strumentalizzazioni di pensiero, il ricordo di Gramsci, semplicemente, conforta tutti gli spiriti sofferenti, feriti, offesi dalla vita, dall’ingiustizia, dall’ignoranza, illustrandolo inequivocabilmente come un Maestro, della conoscenza quanto della coscienza.