Nel summit sui Balcani tenutosi recentemente a Trieste, il presidente francese Macron ha affermato:
“Molto spesso nel dibattito pubblico confondiamo i rifugiati politici con i migranti economici, che però sono cosa diversa. È un dovere per noi accogliere chi chiede asilo perché rischia la vita nel proprio paese. Ma non possiamo accogliere chi per motivi economici cerca di venire a vivere nel nostro paese. Questa è una realtà molto diversa, non ricade negli stessi diritti e doveri. Sul piano morale la Francia non cederà allo spirito di confusione imperante”. La dichiarazione del presidente francese ha suscitato molte polemiche perché, in effetti, la categoria di forced migration è piuttosto controversa, ma hanno comunque il merito di portare in primo piano un problema che va affrontato di petto. La mancata distinzione, però, che porta non pochi ad accusare i rifugiati di essere migranti economici travestiti, contribuisce a fornire un alibi alla evoluzione in senso restrittivo delle politiche migratorie e a danneggiare proprio chi avrebbe titolo a ricevere accoglienza, protezione e asilo.
È vero che, in molte circostanze, la difficoltà di accertare quale sia la dimensione prevalente rende la divisione essenzialmente convenzionale. I migranti per motivi di lavoro e i rifugiati si muovono entro condizioni e regimi giuridici diversi, e tuttavia, molto spesso povertà e conflitti vanno a braccetto: sottosviluppo e malgoverno, impoverimento e guerre endemiche sono strettamente collegati. E tuttavia, la distinzione analitica tra migrazione volontaria e migrazione forzata ha il vantaggio di richiamare l’attenzione sul diverso valore che va riconosciuto alle rivendicazioni, e ai diritti, dei migranti economici rispetto a quelli dei rifugiati: questi ultimi, a differenza dei primi, non hanno avuto alcuna scelta riguardo alla decisione di partire, e sono pertanto titolari di uno specifico diritto morale – e, in teoria, anche giuridico. Ed è per questo che il diritto, riconosciuto ai governi a livello internazionale di regolare discrezionalmente l’arrivo degli stranieri, può – e deve – essere limitato dalla sottoscrizione di obblighi contratti volontariamente, come la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, che impone agli Stati firmatari l’impegno a non procedere al rimpatrio forzato dei rifugiati e dei richiedenti asilo nel paese di origine quando ciò possa comportare un chiaro pericolo per la loro vita e la loro libertà.
Il fatto è che il concetto di rifugiato è sia descrittivo sia normativo. Anzi, mai come in questo caso definire equivale a prescrivere, cioè a compiere un atto performativo, nel senso che, più che descrivere una realtà (presuntivamente) oggettiva, si tratta di costruire la realtà che si intende definire e che può mutare a seconda del contesto e del punto di vista adottato. Per esempio, se ci si colloca nella prospettiva dei governi dei paesi di arrivo che tentano di giustificare procedure di espulsione agli ingressi di confine e di non applicare il più importante principio posto a tutela dei rifugiati, ossia quello del non-refoulement, la definizione sarà quanto più restrittiva possibile, sia in senso procedurale sia sostanziale. Non caso, per depoliticizzare le cause del loro spostamento è stato coniato il termine di bogus refugees, dei cosiddetti “finti rifugiati”, migranti irregolari che “saltano la fila” e approfittano dei sistemi nazionali d’asilo per regolarizzare la loro presenza. Siccome la Convenzione di Ginevra obbliga gli Stati firmatari ad attuare il principio di non-refoulement, i settori dell’opinione pubblica e del mondo politico che propendono per una politica generalizzata di chiusura accusano i rifugiati di essere in realtà dei migranti economici che sfruttano la richiesta di asilo allo scopo strumentale di aggirare le politiche migratorie decise dagli Stati. Per questo, e proprio per suggerire una operazione politico-culturale di segno opposto, è quanto mai necessario distinguere e affrontare senza reticenze il problema:assodato che i rifugiati sono tutti migranti, i migranti sono tutti rifugiati?
Ma c’è una ulteriore ragione che alimenta discussioni e polemiche. I rifugiati sono persone che si sono viste costrette ad attraversare un confine internazionale e che non possono fuggire dal paese d’origine se non ricevono accoglienza in un altro paese. Il risultato è che il riconoscimento dello status di rifugiato dipende dai luoghi e dalle circostanze e risulta spesso assoggettato a dinamiche regolative fortemente discrezionali, che rendono talvolta arbitrario il processo di produzione normativa. Sono gli Stati a decidere se riconoscere a uno specifico fenomeno migratorio un carattere volontario oppure politico e forzato. È perciò evidente che il senso della definizione categoriale eccede ogni criterio descrittivo di appartenenza. In altre parole, andrebbe superata la prospettiva secondo la quale il “rifugiato” esisterebbe come una categoria sociologica direttamente prodotta dai trattamenti, istituzioni e pratiche della persecuzione o dell’oppressione che costringono gli esseri umani alla fuga. La definizione giuridica di “rifugiato” presenta margini di interpretazione che si ampliano o si restringono a seconda delle condizioni politiche e delle pratiche di riconoscimento sociale.
Infine, ogni tentativo di proporre il concetto in una chiave onnicomprensiva risulta problematico fin dall’inizio a causa del messaggio implicito che le rappresentazioni a esso associato tendono a evocare. I sociologi e gli antropologi, non meno degli attori non governativi che operano sul campo, hanno spesso rivelato una malcelata insofferenza per le definizioni di tipo giuridico, dal momento che richiamano alla mente masse informi di esseri umani spogliati della loro umanità e suggeriscono immagini di dipendenza, impotenza e miseria. L’idea di rifugiato che ha monopolizzato l’immaginario collettivo evoca uno scenario di devastazione e perdita, che condanna le vittime a uno stato di inazione e passività. Naturalmente, le storie inenarrabili di dolore e devastazione non sono una finzione e riguardano milioni di persone, ma la tendenza a trasformare gli individui in semplici corpi sofferenti privi di soggettività presenta un rischio non da poco: quello di considerare come un ‘vero’ rifugiato soltanto chi corrisponde allo stereotipo della “nuda vita”, vulnerabile e indifesa. E quindi di dissolvere l’aura di compassione ed empatia che circonda le ‘vittime’ non appena agiscono da non-vittime, e ciò quando non manifestano il comportamento passivo considerato ‘normale’ per le vittime.
Tuttavia, prendere atto dei mutevoli confini semantici della categoria, del suo carattere costitutivo e non semplicemente dichiarativo, non fa venir meno l’esigenza pratica, politica e morale di individuare uno strumento giuridico in grado di proteggere esseri umani in fuga da ciò che può loro accadere nello spazio del male. Ciò che va comunque costantemente ribadito è che, nel caso del rifugiato, il problema della definizione rappresenta molto di più che una semplice questione di semantica e il problema di chi vada o non vada incluso nella categoria può segnare la differenza, in certi casi, tra la vita e la morte. In ogni caso, una definizione di tipo essenzialistico non è praticabile perché tende a essere avulsa dai bisogni reali, correlata a un idealtipo immaginato e decontestualizzato che si presta alla standardizzazione e alla burocratizzazione. Ma non è neppure auspicabile, perché la diversità delle definizioni può servire tanto a soddisfare le differente esigenze dei vari attori in campo, quanto la sua natura strutturalmente mutevole e adattabile. Per questo, anche se la figura del rifugiato è destinata a rimanere contestata e controversa, la dichiarazione di Macron potrebbe servire a fare in modo che il mantenimento delle prerogative di sovranità difese tenacemente dagli Stati non finisca per prevalere su ogni altra considerazione e per rendere solo formale l’adempimento da parte degli Stati delle convenzioni internazionali che hanno solennemente sottoscritto.