Alterità. L’identità come relazione (Mucchi, Modena 2016, 189 pp.) è l’ultimo lavoro di Roberto Marchesini, filosofo, etologo, zooantropologo e saggista italiano, autore di numerosi volumi e saggi critici, nonché fondatore nel 1997 della “Scuola di Interazione Uomo-Animale” e direttore del “Centro Studi Filosofia Postumanista”. Con la presente opera l’autore si colloca all’interno di uno spazio di ricerca consolidato da una multiforme esperienza di studio, di vita e di dedizione, nella quale continua a muoversi attraverso piani disciplinari multipli e interrelazionati. Senza mai limitarsi ad un campo di indagine chiuso su se stesso, Marchesini sceglie per il proprio libro un linguaggio denso di punti di vista diversi, “diacronico-relazionale”, al pari dell’argomento di cui tratta, il quale spazia dall’antropologia filosofica fino alla biologia, passando per la filosofia della scienza e l’estetica. L’attenzione di Marchesini per il linguaggio colpisce sicuramente il lettore di formazione filosofica (ma non solo), evincendo già dalle prime caleidoscopiche righe la profondità insita nello scarto comunicativo, negli interstizi del linguaggio, nelle soglie (di coniugazione) relazionali, ma soprattutto nell’apertura di un dialogo che è simbolo e mezzo dell’incontro con l’altro, punto di partenza della sua ricerca e “motore esistenziale” dell’umano, capace di sconvolgere e di rivedere la vita di quest’ultimo sul pianeta.
Quest’opera si pone fa seguito a una serie di altri lavori sull’alterità, quali Epifania animale. L’oltreuomo come rivelazione del 2014 ed Etologia filosofica. Alla ricerca della soggettività animale del 2016 (entrambi editi da Mimesis). Essi delineano, assieme con i temi di ricerca riguardanti il post-human del 2002, “una nuova antropologia filosofica, in grado di riproporre la questione dell’umanità dell’uomo in termini originali senza ricadere su piani di reificazione e de-soggettivazione”. Se l’umano e l’uni-verso umanista hanno dimenticato la propria origine dialogica e relazionale con ciò che umano non è, l’autore tenta di comprendere la strada percorsa dalla pretesa autarchica e autopoietica di un “pensiero proiettivo del sé narcisistico” che ha portato l’essere umano a diventare “una patologia per l’intero pianeta” e per sé stesso. Scoprendoci, così, persi nell’alienazione di un eccesso riflessivo egocentrico e di un nichilismo ormai serrato, causato da un’invalicabile chiusura su noi stessi, ecco che la chiave per la riscoperta della nostra natura e per un riequilibrio della vita sulla terra viene individuata dall’autore in una coraggiosa riapertura verso il mondo. È nelle coniugazioni con le alterità, negli incontri epifanici, che attraverso il loro disvelamento sospendono la gabbia ontologica dell’individualismo lasciandoci sospesi in un “essere-con” capace di mettere in gioco i nostri assunti e ibridandoci, che rientriamo in possesso del nostro carattere di animalità, riscoprendo l’idea di un esistenza fluida e referenziale. Solo negli ideali umili di “vulnerabilità dell’esistere”, di piani diversi di realtà e di concomitanza di questi ultimi è possibile liberare l’individuo dalla solitudine e dal nichilismo, attraverso quella che Marchesini chiama un’ontologia relazionale.
Tenuto conto di questo panorama, risulta comprensibile la scelta dell’autore di chiarire nel primo capitolo di Alterità quale sia il potenziale di questo incontro di relazione o di apertura delle soglie d’incontro (esercizio di epochè), come gesto di metamorfosi, convivio e amore, muovendo da un’ontologia riflessiva di tipo individuativo (di stampo umanista) e ponendosi alla ricerca di un’ontologia relazionale. Molte sono le tematiche affrontate, tra le quali spiccano i problemi dell’individuazione e della soggettività, intesa come unicità irripetibile dell’esistere, di parzialità e di pluralità esistenziale, che viene analizzata guardando al processo di formazione del soggetto. È con l’affermazione autofondativa dell’essere umano iuxta propria principia che si apre la critica all’antropocentrismo umanista, la quale sostiene buona parte del libro. L’autore sviluppa conseguentemente la critica all’entità-costrutto individuo, “impermeabile e identico a sé stesso”, di cui solo la soggettività come “titolarità sul proprio qui ed ora, resta l’unica àncora che consente di affrontare la singolarità del reale e di vivere da protagonista un’esistenza”. Marchesini dimostra, attraverso la messa in luce soprattutto della soggettività animale, quanto la “singolarità emergente” di ogni essere vivente sia il risultato complesso di un’infinità di relazioni nell’orizzonte sistemico. Essere soggettivi vuol dire perciò apprendere, mantenere un dialogo aperto con altre alterità nella fragilità dell’esistenza, in quanto “l’apprendimento non è un momento particolare della soggettività, ma il fondamento stesso del soggetto: la soggettività è possedere un mondo interiore in continua trasformazione”. Ricordando quanto biologicamente la nostra mente sia un prodotto relazionale, legato all’essere un corpo, l’autore riporta il lettore alla dimensione animale dell’uomo e ci invita a considerarci entità metaboliche: entità, per l’appunto, mai definite e mai esecutive. Ciò che ci rende unici (la soggettività) “è l’insieme dei risultati che esitano da questa coniugazione corpo-mondo”; l’animale non può essere una macchina, è tanto quanto noi “un-corpo” che desidera, sogna, fa progetti e “realizza stati posizionali con l’ambiente”, ed è perciò protagonista della propria vita. Ecco che la soggettività si dimostra essere “una condizione di posizionalità che sorge dal carattere coniugativo dell’essere-animale”.
Nel quarto capitolo di Alterità vengono analizzati gli apparati epistemici, l’interrogazione e i diversi piani di realtà su cui si basano l’apprendimento e la conoscenza. Ancora una volta l’autore fa presente al lettore la loro natura evolutiva, pluridimensionale e metamorfica: “le alterità continuamente li forzano”. È vero, “il qui ed ora del soggetto conoscente è il risultato dimensionale dei processi di conoscenza filogenetica e ontogenetica”, dove il retaggio gioca un ruolo importante; all’interno di questo retaggio, tuttavia, sono contenuti frattali di dialoghi con le alterità. È grazie alle domande che poniamo se si crea un piano di rispecchiamento tra noi e il mondo, ed è grazie a quel piano se riusciamo a poggiare il nostro sguardo senza perderci nel caos prospettico, ma è anche grazie a tutti gli incontri dialogici con ciò che è altro da noi se continuamente ci modifichiamo e, in definitiva, siamo ciò che siamo: “conoscere è perciò congiungersi ossia ibridare il proprio apparato epistemico”.
L’autore punta infine a delineare una filosofia post-umanista, non tanto in opposizione all’umanesimo, quanto all’interno di una soglia di passaggio, nel senso che “il post indica un nesso che è soglia, vale a dire passaggio con ridefinizione dei termini di riferimento”. La lettura post-umanistica coglie la dimensione dialogica dell’umano e quella “antropoietica della techne”. Se le alterità rimanevano orbitali ed esterne dall’universalismo dell’umanesimo, qui al contrario vengono sintetizzate nella figura dell’ibrido. Dalla ricerca del centro dell’umanesimo, si passa all’ideale del decentramento, dal Vitruviano come entità modello, di essenza e purezza, si giunge al corpo liminale, contaminato, che sta nelle “strutture-che-connettono”, pronto a farsi luogo d’accoglienza; esso è “frutto dell’incontro con le alterità, impossibile da capire attraverso una ricognizione interna”. È nella presa di coscienza di una “ecologia ontologica” e nell’accettazione del pluriverso che viene proposta al lettore la visione post-umanista, per riuscire infine ad accogliere lo sguardo dell’altro e per “realizzare nuove dimensioni esistenziali”: “un’inclusione fondata sull’epifania nell’incontro e sulla interpretazione ove le alterità hanno un ruolo cofattoriale nell’ontopoiesi e non sono relegate al ruolo di muti spettatori”. L’ibrido prende così coscienza del suo bisogno di alterità e ne fa professione di umiltà. Umiltà, dunque, ma non solo; anche desiderio di allargarsi nel mondo, di un contatto, del volto della madre, desiderio di imparare, di dialogo e di vita, e soprattutto desiderio d’amore.
Recensione di Anna Preti.