Pubblichiamo un estratto dell’introduzione al volume Streaming media. Distribuzione, circolazione, accesso, a cura di Valentina Re, di prossima pubblicazione nella collana Cinergie.
Negli ultimi giorni, uno scontro frontale e plateale è arrivato sulle pagine della stampa italiana e internazionale, anche quella generalista. Potrebbe apparire sorprendente che il tema della distribuzione cinematografica possa fare notizia; ma sorprende certamente meno se a confrontarsi su questo tema sono, per così dire, due giganti del settore audiovisivo e – volendo spingere un po’ sulla portata simbolica dello scontro – due emblemi di due diverse culture, o epoche, della visione: il vecchio e il nuovo, la tradizione e l’innovazione, la sala e il web, il Festival di Cannes e Netflix.
La distribuzione, appunto, è al centro del contendere. 10 maggio 2017: un comunicato stampa ufficiale da Cannes interviene a sedare i rumors relativi alla possibile esclusione, dalla selezione ufficiale, dei film di Noah Baumbach e Bong Joon Ho, finanziati da Netflix. Veniamo rassicurati: nessuna esclusione. E tuttavia – come insinua il «Corriere della sera» –bisogna che tutto cambi affinché niente cambi davvero. Cannes annuncia dunque nuove regole per il 2018: nessun film che non abbia una distribuzione in sala o non dimostri l’impegno ad averne una potrà concorrere nella competizione ufficiale, e quelli di Noah Baumbach e Bong Joon Ho resteranno due casi isolati e sfortunati. Leggiamo nel comunicato:
Il Festival di Cannes è cosciente dell’inquietudine suscitata dall’assenza di uscita in sala per questi film in Francia. Il Festival di Cannes ha chiesto invano a Netflix di accettare che questi film potessero incontrare gli spettatori delle sale francesi, e non solo i suoi abbonati. Di fatto, si rammarica che non sia stato possibile raggiungere nessun accordo. Il Festival è lieto di accogliere un nuovo operatore che ha deciso di investire nel cinema, ma ci tiene a ribadire tutto il suo sostegno alla filiera tradizionale del cinema in Francia e nel mondo.
Il tono è, in qualche modo, solenne: si parla di inquietudine, di rammarico, si enfatizza il supporto alla tradizione, si allude a una potenziale discriminazione dello spettatore ideale, classico, quello della sala, a tutto vantaggio della specie nuova e privilegiata degli abbonati. Come a voler escludere che le due categorie possano in qualche modo sovrapporsi, e a insinuare una sorta di “coercizione” all’abbonamento (che peraltro “vale”, mensilmente, poco più di un singolo accesso in sala).
La risposta di Netflix non tarda ad arrivare, è perentoria e mantiene alto il tono dello scontro. Reed Hastings, CEO di Netflix, posta sui social network: “L’establishment sta serrando i ranghi contro di noi. Guardate Okja su Netflix dal 28 giugno. Un film straordinario che gli esercenti volevano impedirci di presentare nella selezione officiale di Cannes”. La volontà di polarizzare lo scontro è certo comune, ma Netflix alza la posta caratterizzando in senso negativo la tradizione (che diventa establishment, quindi conservatorismo e poteri dominanti) e articolandola maggiormente, perché se la prende direttamente, più che con il Festival, con gli esercenti.
Per comprendere meglio l’obiettivo polemico di Netflix dobbiamo dunque approfondire altrove, su quotidiani e riviste che rendono conto della polemica, e che esplicitano il ruolo della FNCF (Fédération Nationale des Cinémas Français) nel fare pressione sul Festival, paventando un futuro in cui l’esclusione del passaggio in sala metterebbe addirittura in discussione la «natura di opere cinematografiche» dei film presentati. Dagli approfondimenti sulla stampa apprendiamo inoltre un’altra cosa fondamentale, vale a dire che i due film usciranno probabilmente lo stesso nei cinema francesi, ma non secondo modalità “tradizionali”. Parrebbe, infatti, che Netflix stia concordando una release “day and date”, vale a dire in simultanea tra sala (ma con una finestra temporale molto breve, si parla di una settimana) e piattaforma online: una soluzione che cercherebbe di aggirare la legislazione francese che, a differenza dell’Italia, prevede una finestra fissa di 36 mesi tra l’uscita in sala di un film e la sua messa a disposizione su una piattaforma on demand come Netflix – che prevede, cioè, l’accesso non lineare a un ampio catalogo di titoli, previa sottoscrizione di un abbonamento.
Non sappiamo ancora come andrà a finire la storia. Quello che sappiamo, tuttavia, è che in questa storia ritroviamo gran parte delle questioni che caratterizzano i modi di produzione, le politiche di distribuzione e le pratiche di consumo dell’audiovisivo in epoca contemporanea. Lo scontro tra Cannes e Netflix ci parla, innanzi tutto, del confronto tra attori tradizionali del settore e nuovi player, che spesso provengono da ambiti differenti (come nel caso di iTunes o Amazon Prime Video), hanno una presenza globale (con tutte le problematiche di regolamentazione che ne derivano) e operano principalmente sul web, sfruttandone tutti i vantaggi (in particolare la possibilità di raccogliere dati precisi sui comportamenti di consumo e usarli per implementare sia le strategie di produzione di nuovi contenuti che i sistemi di raccomandazione per gli utenti). Ma ci mostra anche tutte le criticità di un ciclo di sfruttamento economico del prodotto audiovisivo che poteva apparire “naturale”, fino a non molto tempo fa, e che ora viene rimesso in discussione nei suoi fondamentali aspetti normativi e di gestione economica (il sistema delle finestre distributive e il principio dell’esclusività, sia in termini territoriali che temporali e di canale).
Questo scontro ci parla degli squilibri e delle tensioni tra giganti globali e attori nazionali, delle differenze tra Europa e Usa e, al contempo, della frammentazione del settore audiovisivo europeo, della scarsa tenuta delle vecchie regole e della difficoltà di elaborarne di nuove, della complessità degli interessi da tutelare, spesso divergenti, della tendenza a qualificare forme di consumo diverse come alternative, piuttosto che complementari, del delicatissimo equilibrio tra tradizione e innovazione e, non da ultimo, della confusione che si genera quando le categorie con cui abbiamo sempre organizzato il mondo (quanto meno quello dello spettacolo) non funzionano più.
Di questo ci fornisce un gustoso esempio «Repubblica.it», che commentando la polemica dichiara: “I prodotti pensati per il piccolo schermo dal prossimo anno non potranno concorrere per la Palma”, aggiungendo poco sotto che è comunque da anni “che a Cannes si vedono su grande schermo anche prodotti pensati esclusivamente per la TV, ma non in selezione ufficiale”.L’abbaglio del quotidiano è tanto evidente quanto eloquente. È chiaro che nella polemica tra Cannes e Netflix i concetti di release “straight-to-video” o “direct-to-TV”, con cui si era soliti definire i film prodotti per essere distribuiti direttamente sui canali dell’home entertainment, c’entrano poco, forse niente. O meglio: la polemica tra Cannes e Netflix mette proprio in discussione la classica opposizione tra piccolo e grande schermo, tra TV e sala, mostrando che gli schermi si sono moltiplicati, che sono divenuti tanti quanti i device che quotidianamente utilizziamo, e che forse non è più la release “theatrical” (la sala) a rappresentare la norma e il canale primario rispetto al quale tutti gli altri si definiscono per differenza, con tutte le conseguenze che ne derivano.
Insomma: il fatto che in occasione della settantasettesima edizione del Festival di Cannes si possano vedere in sala i primi due episodi della nuova stagione di Twin Peaks, va tenuto chiaramente distinto dalla scelta del Festival di ammettere in concorso solo i film con distribuzione nelle sale. È infatti solo passando attraverso una preliminare distinzione dei due fenomeni (uno apparentemente innovativo, l’altro apparentemente regressivo) che possiamo, successivamente e consapevolmente, riconnetterli. La presenza a Cannes di una produzione del network Showtime, firmata da David Lynch, mostra che cinema e televisione possono convergere, da un punto di vista prevalentemente estetico, senza che nessuno dei due settori debba necessariamente fare i conti con una riorganizzazione industriale. La presenza a Cannes di Netflix, invece, ha un effetto inevitabilmente destabilizzante. A seconda del punto di vista da cui lo si guarda, Netflix può essere riconducibile sia al cinema (produce e distribuisce film) che alla televisione (produce e distribuisce prodotti seriali). Di fatto, Netflix ibrida i due settori nei linguaggi e, soprattutto, nei modelli di business, agendo sia in continuità che in discontinuità con entrambi: da cinema e televisione, per esempio, Netflix importa il sistema dei generi, ma lo trasforma secondo una logica di sempre maggiore personalizzazione; dalla televisione importa l’idea di flusso, ma anche questa si rielabora radicalmente in funzione della customizzazione; più ampiamente, della televisione e del cinema Netflix compromette radicalmente i meccanismi di distribuzione, stravolgendone alcuni principi essenziali senza esitare, però, a rivendicarne altri a proprio uso e consumo – come nel caso della dimensione sociale della visione, che Netflix coltiva quasi con la stessa sistematica determinazione con cui alimenta il culto della personalizzazione individuale. Come ci ammoniva (il 13 febbraio…) la bella campagna sul “Netflix cheating” (e come anche Sky ci ha ricordato, senza grande fantasia, di recente): “Amare è non dover mai ammettere di essere andato avanti con gli episodi”.