Poco più di un anno fa, per la precisione il 20 aprile 2016, assistevo presso un locale di Bologna, il centralissimo Bravo Caffè, al concerto in solitaria (chitarra acustica e voce) di un cantautore alternative-rock americano, Grant-Lee Philipps, mio eroe di gioventù – per così dire – in qualità di leader della band Grant Lee Buffalo tra il 1993 (l’esordio con il leggendario album Fuzzy) e il 1998 (la conclusione del ciclo vitale del gruppo col canto del cigno Jubilee). Poco dopo pubblicai qui su «Scenari» una lunga recensione di quel concerto, spiegando che, rispetto ai Grant Lee Buffalo, “ciò che propone oggi Grant-Lee Phillips da solista […] è qualcosa di più semplice, o più precisamente qualcosa di più linearmente e univocamente orientato a un consapevole inserimento nel solco di una tradizione di rock americano ‘classico’ che Phillips riesce però a rileggere in maniera molto intelligente, con una sicura padronanza del mestiere, per così dire, e non di rado con l’iniezione di felici intuizioni (soprattutto melodiche) che tradiscono l’ormai conseguita maturità da parte di questo artista, insomma l’ormai avvenuta acquisizione di un proprio specifico vocabolario e timbro espressivo”. Alcuni giorni fa, per la precisione il 29 marzo, ho assistito presso il medesimo locale a un altro concerto che, sotto diversi punti di vista, è collegabile a quello di Grant-Lee Phillips. Il concerto in questione era di Howe Gelb, storico leader di un’altra formazione seminale – ancorché non famosissima, o quantomeno non come altre di maggiore impatto commerciale – del rock statunitense della seconda metà degli anni Ottanta, degli anni Novanta e ancora degli anni Duemila: i Giant Sand. Al Bravo Caffè, Gelb – che si è destreggiato egregiamente tra pianoforte e chitarra acustica, seppure solo in un paio di brani (“Too much piano can be… too much piano”, ha chiosato in maniera ermetica) – si è presentato con un trio molto classico, affiancato da contrabbasso e batteria, e ha principalmente presentato i brani del suo ultimo, recentissimo lavoro, Future Standards (2016). Un disco a mio avviso convincente e a tratti affascinante, che si affianca quindi ad alcuni fra i più riusciti lavori solisti di Gelb, fra i quali mi piace ricordare qui Confluence (2001), ’s No Angel Like You (2006) e The Coincidentalist (2013)
Il motivo per cui dicevo che tale concerto si ricollega sotto diversi punti di vista a quello di un anno fa di Phillips, parimenti recensito su «Scenari», è per via di alcune interessanti (e in parte puramente contingenti o “coincidenziali”, come vedremo) comunanze fra loro. Primo, entrambi gli artisti si sono esibiti presso il medesimo locale, il Bravo Caffè, che si è così confermato come una presenza importante sulla scena bolognese quanto all’organizzazione di eventi musicali di un certo livello. Secondo, entrambi gli artisti, al netto anche di certe notevoli e per nulla trascurabili differenze stilistiche fra loro, sono in qualche modo accomunati dall’appartenenza a un genere musicale che si fonda sull’incrocio, in maniere diverse e talvolta un po’ particolari o “devianti”, di tendenze quali indie rock, Americana, alternative country, folk-rock e, più nel caso di Gelb che in quello di Phillips, lo-fi. Terzo, si applicano perfettamente anche a Gelb perlomeno alcune delle parole utilizzate un anno fa (e citate poc’anzi in questo stesso articolo) a proposito di Phillips, come ad esempio “consapevole inserimento nel solco di una tradizione di rock americano ‘classico’” riletta però “in maniera molto intelligente” e “con l’iniezione di felici intuizioni” che indicano in maniera inequivocabile “l’ormai conseguita maturità”, “l’ormai avvenuta acquisizione di un proprio specifico vocabolario e timbro espressivo”. Quarto, infine (ma è qui il caso di rispolverare la celebre formula “last but not least”!), i due musicisti si conoscono bene, si sono anche trovati a collaborare e suonare dal vivo insieme nel corso degli anni, e un anno fa, proprio sul palco del Bravo Caffè, hanno dato vita a quello che nella mia recensione definii un momento “imprevisto, estemporaneo e assolutamente memorabile”, ovvero un duetto improvvisato. Infatti (autocitandomi ancora, per così dire), “all’incirca a metà dello show qualcuno, fra lo stupore e l’ilarità di tutti (in primo luogo proprio di Phillips!) annuncia di essere al telefono con Howe Gelb; quindi il cellulare in questione viene passato a Phillips, il quale riconosce la voce di Gelb, inserisce il vivavoce e, a quel punto, dapprima intrattiene un pubblico incuriosito e divertito con una conversazione in diretta […] e poi, una volta inserito il cellulare in una tasca e collocatogli accanto un microfono, dà vita a un delirante duetto in diretta telefonica con Gelb”.
Bene, alcuni giorni fa Howe Gelb è passato dal manifestarsi sotto forma di voce che parla e canta da un telefonino al materializzarsi sul palco in carne, ossa, elegantissimo completo maschile con tanto di cravatta, e immancabile cappello da cowboy. E una tale “materializzazione” è stata decisamente apprezzata dal pubblico intervenuto al Bravo Caffè, che ha applaudito con entusiasmo ogni brano e, sollecitato un paio di volte dallo stesso Gelb (il quale, in questo senso, ha evidenziato doti non indifferenti da entertainer, seppure in una maniera molto sui generis, ossia in un modo per nulla “travolgente” ma anzi molto dimesso, con parole spesso biascicate e un atteggiamento notevolmente ironico e insieme sicuro di sé), ha instaurato dei brevi dialoghi con lui. In particolare, si è distinto un ascoltatore anonimo, seduto in mezzo al pubblico e ribattezzato dallo stesso Gelb “The voice in the dark” (!), il quale ha risposto affermativamente alla domanda del musicista di Tucson se qualcuno conoscesse un vecchio brano dei Giant Sand che egli si accingeva a eseguire alla chitarra e gli ha poi richiesto come bis la particolarissima, sghemba, “decostruita”, un po’ stonata e assolutamente commovente versione di Gelb del classico “Can’t Help Falling in Love” (richiesta purtroppo non esaudita da parte dell’artista…). Quanto al concerto in sé, come si diceva, Howe Gelb ha principalmente – seppure non esclusivamente – offerto un repertorio incentrato sui brani del suo ultimo cd come solista, Future Standards, composto di dodici brani piuttosto brevi, molto soffusi (piano, contrabbasso, batteria suonata con le spazzole), capaci di mescolare in modo sapiente un senso di disincanto e una grande passionalità, e caratterizzati da una struttura semplice ma mai banale (anche in termini di passaggi e progressioni accordali). Oltre a ciò, verso la fine del concerto, dopo aver eseguito i suoi Future Standards (“Standards that can’t be standards”, ha detto autoironicamente a un certo punto), Gelb si è anche avventurato in una strana e, per quanto mi riguarda, sensazionale interpretazione del classico di Bob Dylan “All Along the Watchtower”. Resa celebre dalle versioni, oltre che dello stesso Dylan, di Jimi Hendrix, degli U2, di Neil Young e qualche anno fa anche di Eddie Vedder, tutte molto energiche, elettriche e graffianti, nelle mani di Gelb la canzone si è trasformata in un “ancient standard” (come lo ha definito lo stesso Gelb) da small club fumoso degli anni Trenta, con il testo quasi recitato più che veramente cantato e, però, proprio per questo – come accade talvolta quando sussurrare qualcosa risulta più fragoroso che urlare – estremamente coinvolgente e incisiva per le orecchie e il cuore del pubblico.
Da ultimo, quanto ai “future standards” dell’omonimo disco, merita una menzione il modo in cui Gelb riesce in essi a far propria e a declinare in modo convincente e personale un’unica tematica: la più adatta a un repertorio di “standard” (siano essi nuovi o vecchi, “future” o “ancient”), la più usata e abusata in tutta la storia della musica popular (e più in generale, forse, nell’intera storia della cultura umana) ma anche la più universale e, per così dire, difficilmente evitabile da parte di ciascun individuo, e cioè l’amore. Amore che, per l’appunto, nella forma di una continua e meditabonda riflessione in prima persona sulla semplicità e insieme estrema complicatezza delle relazioni sentimentali, risulta essere l’argomento di tutti questi brani. “Love is pretentious / We pretend to understand / Goes where it sends us / Hovering just above the promised land. […] Discovering new love / In an unanticipated place”, canta ad esempio Gelb nel primo brano del disco, “Terribly So”. E, ancora, in altri brani: “You found a love / That your heart / Could ill afford. […] Now out of the storm / Safe and warm / From such a love explored. / Like the time in France / With the wine / And the diamond dance / When you swore it was more / Than coincidence”; oppure “Relevant / When love’s so / Prevalent / Whatever love was before / Feels so irrelevant”; oppure “Confusing / Just doing all that you do / Being so / Beautifully you”. Nel repertorio dei suoi “future standards”, sia nella versione su disco che in quella ascoltata dal vivo al Bravo Caffè, spiccano a mio giudizio due brani, “Irresponsible Lovers” e “May You Never Fall in Love”, davvero irresistibili per la magnifica fusione di testo e musica che riesce qui a Gelb. Il testo del primo brano merita di essere riportato quasi per intero, data la sua capacità di riassumere in poche, essenziali parole un intero universo di sensazioni ed emozioni, e posso garantire che ascoltarlo dal vivo, intonato dalla voce roca e sofferta di Gelb, è stato decisamente emozionante: “It’s a tender thing / Yet we tend to bring / Complications / To one another. / It’s a simple thing / Yet we tend to bring / Ludicrous behavior / Like irresponsible lovers. / If you’re lucky to achieve / A love that’ll never leave / Your heart hurtin’ / When nothing is for certain. / But if your toes are curled / By another’s kiss / There’s so little in this world / That can compare with this”. Del testo del secondo brano voglio riportare qui i seguenti versi, che per diverse ragioni (sia puramente personali, sia per associazioni mentali spontanee ad altre canzoni) mi hanno colpito: “May you never fall in love / Let alone be left down / May you never even enter / The 2nd time around. […] May you never even ever begin. […] The poets / Would have you believe / It’s better to love / And have love leave / Cause they get more work when / It’s time for you to grieve”. Si tratta di parole che lasciano poco spazio all’interpretazione, oserei dire che non lasciano scampo: Gelb fotografa con efficacia la semplicità e l’immediata tenerezza dell’amore e insieme la nostra immancabile tendenza a complicare le cose a noi stessi e all’altro/a per i più futili motivi, e di qui invita l’ascoltatore o ascoltatrice, se possibile, a non innamorarsi mai, a non cadere mai nella trappola del più insidioso e antinomico dei sentimenti umani. Eppure, per così dire, l’esigenza dell’interpretazione e del ribaltamento del senso di quei versi s’impone da sé, giacché Gelb nel farlo, cioè nel modo stesso in cui intona con voce sofferta quelle parole, ne smentisce il contenuto, facendo sì che, per così dire, ci si innamori immediatamente della canzone e, di qui, si desideri irresistibilmente sperimentare per un’altra persona quella stessa sensazione, quel trasporto che è causa delle più dolorose crisi individuali e insieme dei più vividi momenti di autoascesi personale. In definitiva, per concludere, un disco (e, nella fattispecie, un concerto) molto intimo, molto poetico e insieme decisamente poco tendente a indulgere in seriosi autocompiacimenti e cose del genere: un esempio di entertainment molto serio e maturo, verrebbe da dire.