Molte sono le correnti che affollano il variegato mondo della musica contemporanea. Tra di esse ce ne sono due che, pur prendendo le mosse da un comune rifiuto dei dogmi imposti dalla scuola di Darmstadt, appaiono come divergenti, a partire dal nome che le identifica. La differenza, ovviamente, non è solo apparente. L’una, il minimalismo, racchiude quegli autori che, facendo proprio il motto di Mies van der Rohe secondo cui «less is more», propongono una semplificazione del linguaggio armonico e una riduzione dei mezzi e dei materiali espressivi. Ciò si è tradotto, in positivo, nell’intelligibilità dei processi strutturali cui l’ascoltatore è chiamato a prender parte e nell’esaltazione della componente ritmica (anche in virtù dell’assimilazione di tecniche provenienti dalla musica indiana e africana). Viceversa, il massimalismo designa la poetica di coloro i quali si oppongono al serialismo e all’atonalità integrali non negandoli, bensì includendoli nei propri linguaggi, in quanto una delle tante componenti (di sicuro, va detto, non la principale) di una tavolozza compositiva che comprende tonalità, cromatismo, diatonismo, poliritmia, contaminazioni con altri generi, e via dicendo. Ingredienti, questi, che vengono dosati e combinati in maniere diverse e variabili a seconda della particolare occasione o esigenza compositiva.
Per meglio illustrare queste due tendenze, mi concentrerò qui su due autori che ben le esemplificano, e ai quali sono particolarmente legato. Si tratta di Michael Torke e Aaron Jay Kernis, entrambi americani e quasi coetanei (nati rispettivamente nel 1961 e nel 1960), la cui fama è dovuta anche all’aver visto la pubblicazione di numerosi CD di loro musiche negli anni Novanta da parte della compianta etichetta Argo (sottodivisione della Decca). Il motto della Argo era quello di «sfidare e stimolare, intrattenere ed educare» l’ascoltatore, concentrandosi su quattro aree: musica corale, organistica, inglese e americana, con una particolare attenzione per l’opera di alcuni tra i più promettenti compositori emergenti. L’idea era dunque quella di promuovere la musica contemporanea più vitale, comunicativa, “fresca”, talvolta anche accattivante, senza rinunciare alla finezza di scrittura propria della tradizione classica. Il fatto che l’etichetta abbia chiuso i battenti dopo pochi anni dovrebbe far riflettere sul decadimento costante dei gusti musicali, o quantomeno sulla chiusura mentale di tanti tra coloro che, pure, contestano la divisone in generi musicali, affermano con convinzione che la musica è una sola, ma poi si guardano bene dall’abbandonare il loro confortevole orticello (sia esso quello del pop, anche di qualità; del jazz; della musica classica insegnata al conservatorio). Ma veniamo ai nostri autori.
Michael Torke, vero e proprio enfant prodige della musica americana, a poco più di vent’anni vede le sue musiche eseguite da prestigiose orchestre (a partire dalla Milwaukee Symphony Orchestra diretta da Lukas Foss) e danzate da compagnie prestigiose come il New York City Ballet per le coreografie di Peter Martins. Si tratta nella fattispecie di un trittico di lavori orchestrali in cui Torke vede singolari associazioni con particolari gamme cromatiche, esplicitate nei titoli (Green, Purple e Ecstatic Orange, che andranno a comporre, insieme a Purple e Bright Blue Music, il primo CD di sue musiche licenziato dalla Argo nel 1991 e intitolato, per l’appunto, Color Music). Ora, le sinestesie non sono nuove in musica: si pensi a certe pagine di Debussy o Scriabin. Rispetto tuttavia agli iridescenti cromatismi di questi ultimi, che richiamano il mondo della pittura impressionista e astratta di inizio Novecento, il riferimento di Torke è ai colori sgargianti e piatti della Pop Art degli anni Ottanta. Musicalmente parlando, l’antecedente di questi pezzi, più che nel minimalismo americano, può forse essere individuato nel Bolero di Ravel, soprattutto per la straordinaria sensibilità e fantasia orchestrale, anche se, anziché sedurre l’ascoltatore con un sensuale e graduale crescendo, Torke lo aggredisce “sparandogli” da subito in faccia incisi melodico-ritmici di grande impatto che stabiliscono da subito l’humus del pezzo. Un carattere, quest’ultimo, che non ha nulla di impenetrabile e che colpisce semmai con l’ironica impudenza di una Marilyn di Andy Wahrol o di un graffito di Keith Haring. Sono pezzi sostanzialmente monotematici, dalle armonie stabili e luminose («se la scelta dell’armonia è arbitraria, perché allora non usare accordi di tonica e dominante, i più semplici, diretti e, per me, i più piacevoli?»), ma tutt’altro che banali. L’aspirazione di Torke è sempre stata, infatti, quella di ottenere l’immediatezza di una canzone di Madonna senza rinunciare alla raffinatezza strutturale della musica da camera di Brahms. E i suoi brani ripagano un ascolto ripetuto, dal momento che il tema, pur non andando incontro a uno sviluppo in senso classico, è sottoposto a continue variazioni nelle combinazioni timbriche, nel fraseggio, nei tempi, creando un senso di piacevole instabilità. D’altronde, dice ancora Torke, posto che (come uno dei suoi professori gli ripeteva) l’elaborazione di una forma musicale corrisponda nella maggioranza dei casi (come nella forma sonata) a qualcosa come creare una stanza, uscire e camminare un po’ al di fuori per poi farvi rientro, «se ci troviamo a un bel party di sabato sera, perché mai dovremmo desiderare di lasciare la stanza?». E all’atmosfera di una festa, in effetti, si avvicinano questi e molti altri pezzi scritti nello stesso periodo (pensiamo a Vanada o Slate), pervasi da una inesausta e contagiosa energia ritmica di matrice stravinskjana e da un’irresistibile freschezza e leggerezza.
Gli influssi dei protagonisti storici del Minimalismo come Philip Glass e Steve Reich, con i loro processi additivi e sfasamenti ritmici, iniziano a farsi più evidenti in alcuni pezzi di poco successivi, dove pure, insieme alla consueta verve ritmica, emerge anche il lirismo delle linee melodiche, in cui la mescolanza di dolcezza e nostalgia fa pensare a Francis Poulenc. Qui Torke inizia a sperimentare una delle sue tecniche preferite, basata sul graduale slittamento di tonalità all’interno di un tema ripetuto più volte, “trascinato” dalla consueta e vibrante pulsazione ritmica. Una tecnica che egli vede risuonare con molteplici esperienze della vita quotidiana, puntualmente esplicitate nei titoli per renderle ancor più riconoscibili e condivisibili: dallo scorrere con lo sguardo i nomi presenti in un elenco telefonico (Telephone Book, 1995) alla consegna, più o meno puntuale, della posta (Overnight Mail, 1997). Ma la musica di Torke è capace anche di elevarci dall’ordinario per trasportarci in una dimensione di rapimento estatico, sempre per il tramite del Ritmo, che quando è insistente e organizzato (come nel concerto per percussione e orchestra Rapture, del 2001) può avere un effetto ritualistico, “immersivo” e trascendente. Anche nei pezzi apparentemente più astratti, come il recente Concerto per Orchestra (2014), Torke si è mantenuto sostanzialmente fedele al suo credo minimalista, a cui dà anche una connotazione culturale: «Poiché viviamo in un mondo così diverso e multi-culturale, sembra che tutta la musica debba essere celebrata; porzioni di un repertorio che attraversa i secoli e che copre ogni stile e pratica sono tutti, parimenti, apprezzati ai nostri giorni. L’unico modo che un compositore ha per ritagliarsi un proprio lembo di terra è quello di sviluppare uno stile fortemente personale. Credo che ciò sia possibile solo serrando le viti della coesione architettonica e delimitando quanto più possibile il proprio vocabolario espressivo».
Niente di più distante, all’apparenza, dal motto a cui Aaron Jay Kernis ha improntato il suo stile compositivo, sin dai primi passi della sua fortunatissima carriera: «Avevo questa idea, che mi interessa ancora […] che la musica dovesse contenere tutto allo stesso tempo. Tonalità, atonalità, influenze pop andavano a braccetto con una complessa pianificazione strutturale della forma, così in un solo lavoro trovavi patterns minimalisti che si trasformavano improvvisamente in un calypso, melodie romantiche che si congelavano in fasce sonore statiche, passaggi molto dissonanti orchestrati in modo pirotecnico, quasi hollywoodiano». Il riferimento, qui, è a brani come Symphony in Waves (1989) o al suo Quartetto d’archi N. 1, Musica celestis (1990), contenuti nel suo primo CD Argo. L’eclettismo è rimasta una delle cifre distintive di Kernis, per cui il suo stile è stato alternativamente descritto dai critici come “inclusivista”, “massimalista”, “post-moderno” o “neo-romantico”. Non si tratta, ovviamente, di un mero pastiche. Innanzitutto, imprescindibile per lui è la creazione di una forma musicale coerente, la complessità essendo una parte della struttura globale e non un fine da essere perseguito in se stesso. Le sue composizioni, sebbene ci “costringano” ad attraversare diversi paesaggi e a percorrere strade di ogni tipo, alcune diritte altre impervie, comunque seguono sempre una direzione ben precisa, e ci conducono verso una destinazione che si chiarifica col procedere degli eventi musicali: «cerco di fare in modo che ogni cosa, dal principio alla fine, sia interconnesso […] emotivamente, che faccia parte di una più ampia esperienza».
Inoltre, l’approccio “universalista” non impedisce a Kernis di forgiare un proprio, originale vocabolario espressivo, che la musicologa Leta E. Miller, nella sua recente biografia dedicata al compositore americano, riconduce a caratteristiche come l’oscillazione tra consonanza e dissonanza (quest’ultima intervenendo tanto all’interno delle singole frasi quanto, soprattutto, nelle sezioni centrali dei singoli movimenti), l’elaborazione di lunghi ed espansivi archi melodici, la predilezione per lussureggianti progressioni modulanti, una spiccata sensibilità timbrica (particolarmente esplorata in alcune composizioni più recenti, come Trio in Red), l’integrazione di fonti musicali extra-colte (soprattutto jazz e funk), l’influenza della cultura ebraica, l’attrazione per ostinati ritmici che evolvono attraverso processi additivi, l’inserimento di passaggi che sembrano provenire da un’improvvisazione in stile free-jazz sebbene siano interamente scritti, l’interesse per le forme di danza (dalla giga alla disco music). A seconda di come queste diverse componenti vengono dosate, il polistilismo Kernisiano può esprimere, per via metaforica, realtà ed esperienze quanto mai differenti: dalla conflittualità brutale della guerra (Second Symphony, 1991) alla speranza per una società multietnica inclusiva e tollerante (New Era Dance, 1992), dai contrastanti sentimenti che caratterizzano una relazione amorosa (Valentines, 2000) al puro divertimento nel celebrare la diversità dei generi musicali, travolgendo gli ascoltatori con una pirotecnica miscela di musica popular di ogni tipo (100 Greatest Dance Hits, quintetto per chitarra e archi, 1993).
Nulla in comune, dunque, tra i due? Niente affatto. Intanto, anche Kernis è stato baciato da precoce successo. A 23 anni assurse agli onori delle cronache per aver tenuto brillantemente testa all’autoritario direttore Zubin Metha durante le prove per l’esecuzione di una sua composizione orchestrale. Ma, soprattutto, egli è il più giovane compositore ad aver vinto (nel 1998) il Pulitzer Prize con il suo secondo quartetto (Musica Instrumentalis). Al di là di questo, vi sono punti di contatto più sostanziali tra le rispettive poetiche. Tra le correnti musicali assorbite da Kernis, il minimalismo occupa un posto speciale, soprattutto per ciò che concerne la prima fase della sua carriera, dove ha sperimentato varie forme di processi musicali. D’altro canto, le contaminazioni care a Kernis sono spesso esplorate anche da Torke in molti brani, tra cui citerei senz’altro Rust (1989) per pianoforte, fiati e basso elettrico, costruito su un irresistibile groove funkeggiante. E se è innegabile la maggiore consuetudine di Kernis con tematiche sociali o personali, anche Torke – la cui musica è incline alla positività e alla leggerezza – non è estraneo a opere profonde e introspettive (vedi, ad es., Songs of Isaiah, 2002). Del comune interesse e talento per l’orchestrazione si è già detto. In ciò, possiamo considerarli come eredi della grande tradizione sinfonica americana (cui, pure, i due non si ispirano direttamente). Torke fa pensare a un novello Gershwin, laddove Kernis è più vicino al lirismo neo-romantico – alternato a incursioni nel modernismo – di un autore come Samuel Barber. Entrambi, poi, sono post-“qualcosa”. Il massimalismo di Kernis è, come si è detto, molto vicino al post-moderno, del quale può apparire come una variante che ne accentua l’atteggiamento di libertà rispetto alle molteplici fonti di volta in volta utilizzate: prova ne è l’utilizzo elastico e inventivo di forme tradizionali come la sonata, la fuga, le variazioni su un tema, le cui potenzialità espressive sono, a suo giudizio – e in barba ai dettami degli avanguardisti più ortodossi – tutt’altro che esaurite. Lo stile di Torke è stato sovente descritto come post-minimalista, dal momento che, rispetto a quelli introdotti negli Sessanta e Settanta da Glass e Reich, i processi ripetitivi su cui egli ha costruito la sua poetica sono meno intransigenti, più flessibili e, soprattutto, più porosi rispetto ai mondi musicali con cui viene a contatto.
Ma più di ogni altra cosa, i due compositori americani si incontrano sul terreno del senso ultimo della loro professione. Alle parole di Torke − «quando scrivo, se non sono connesso con un pubblico nella stessa maniera in cui lo sono quando sto suonando, mi sento come se perdessi qualcosa di importante» − fanno eco quelle di Kernis: «vedo me stesso come una persona che comunica attraverso il linguaggio musicale»8. L’esigenza comunicativa che informa la loro attività di musicisti può assumere risvolti introspettivi, sociali, quotidiani, di pura evasione, persino di sballo. Da questo punto di vista, allora, Torke e Kernis possono essere considerati come due facce di una stessa, magnifica medaglia. Una delle più preziose che potete trovare nello scrigno della musica contemporanea.