Abbiamo scritto, nel precedente articolo, che tra i diversi aspetti critici di Fuocoammare, spicca particolarmente la modalità di rappresentazione della condizione del migrante messa in atto dal regista; questi, infatti, nel trattare un tale delicato dramma, dimostra un atteggiamento che risulta distaccato, persino freddo, e, nascondendosi dietro la ripresa oggettiva del reale, non solo propone, nel corso del documentario, una registrazione sempre più ossessiva e cannibalica del travaglio e della sofferenza personale dei vari uomini salvati dalle acque, ma sembra persino “usare” il tema, così attuale e così sensibile della migrazione di popoli, per ottenere una facile presa sul pubblico e, soprattutto, sulla critica, percorrendo strade semplici e già solcate. Qual è, ad esempio, l’utilità di proporre nel corso del documentario, in maniera sempre più pressante, scene di sofferenza di migranti ammassati sui barconi, di soggetti privi di vita nelle stive, di donne, uomini e bambini terrorizzati sulle imbarcazioni di salvataggio, alcuni dei quali agonizzanti, quando queste scene, già ben note grazie ai servizi giornalistici, rimangono a sé stanti, quasi del tutto decontestualizzate dall’impianto drammaturgico proposto dal regista?
Quello che evidenziavamo era che per affrontare tali questioni necessita, da parte dell’autore, un’etica spiccata e profonda e il coraggio di muoversi lungo percorsi che risultino meno consolidati, più ardui, più complessi rispetto quanto realizzato da Rosi, rifugiando dal desiderio dell’ottenimento di un consenso da parte del grande pubblico e della critica meno esigente.
Per mostrare il dramma del fenomeno della migrazione bisogna scegliere modalità che aiutino a scavare a fondo il problema, ma attraverso una prospettiva che dia giusta ed eticamente corretta rappresentazione di ciò che vivono coloro che affrontano un viaggio disperato per fuggire dalla povertà e dalla guerra del loro paese di origine. E proprio questa diversa modalità di rappresentazione e trattazione del dramma dei migranti è proposta da Pippo Delbono nel suo ultimo film, Vangelo, che è stato proiettato per la prima volta al Festival di Venezia e sarà a breve distribuito nelle sale italiane (ci piace ricordare che la seconda volta che il film è stato proiettato in Italia è stata lo scorso dicembre, in occasione del Costaiblea Film Festival diretto da Vito Zagarrio, una proiezione realizzata in collaborazione con l’Università degli Studi di Enna “Kore” e alla quale, in presenza di Delbono, hanno partecipato quattrocento studenti dei licei di Ragusa).
Se in Fuocoammare il regista appare deficitario di un’adeguata sensibilità che lo faccia entrare in stretto rapporto con la realtà che rappresenta, sia quella di Lampedusa sia quella dello “straniero” – infatti, al di là del rapporto istaurato con il bambino Samuele Pucillo, Rosi, come abbiamo visto, non riesce ad entrare in sintonia e a cogliere l’anima delle realtà che riprende –, tale sensibilità Delbono, invece, dimostra di averla e di metterla in pratica nel suo film-documentario – oltre che in generale in tutti i suoi lavori sia teatrali che filmici –, consentendogli di scavare in profondità nello spirito di ciò che indaga. La sensibilità che Delbono manifesta in Vangelo, così come in tutte le sue opere filmiche, si esprime in particolare dal voler uscire fuori dalla condizione di celato e invisibile sguardo sull’altro, condizione consueta del regista di film e documentari (nella quale, ad esempio, rientra Rosi), e questo atto di “esporsi” permette a Delbono di poter “toccare” la realtà, calarsi interamente in essa, porsi sulla stessa lunghezza d’onda, per sollecitarla e far emergere la sua componente più intima e profonda. Ed è questa una caratteristica propria della poetica e della prassi del regista ligure che è testimoniata, a teatro, dalla sua variegata compagnia – “nella mia compagnia ci sono persone molto strane, di quelle che sarebbero piaciute a Cristo”, dichiara Delbono nel film – compagnia nella quale Bobò, celebre componente sordomuto, si offre come perfetto rappresentante, e dal quale Delbono, attraverso la sua guida, è riuscito a far emergere delle capacità di toccante valore poetico; ed è testimoniata, al cinema, dalla convivenza del regista con i soggetti che riprende, con i quali stabilisce un rapporto intimo, fraterno, giungendo, ad esempio in Vangelo, a vivere in compagnia dei profughi, condividere gli stessi loro spazi, usi, costumi, fino ad accogliere nella sua compagnia teatrale, uno di loro, Safi Zakria.
La sensibilità del regista gli fa avvertire l’inutilità del mostrare il dramma dei migranti attraverso immagini già viste, già conosciute, già presenti nella coscienza dello spettatore, e lo spinge ad avvicinarsi e a confrontarsi con questi, avere con loro un contatto fisico e spirituale, per proporre una rappresentazione che vada in profondità e non rimanga sulla superficie delle cose. E tale prassi non può che portare Delbono a porsi, come accennavamo, dinnanzi la macchina da presa, a mostrarsi al pubblico e mettersi a nudo egli stesso, sapendo che, secondo il “principio di reciprocità” espresso da Mauss, per ricevere il dono dell’intimità altrui, e affinché tale dono sia sincero e prezioso, è necessario, ricambiare con la stessa moneta. La confessione di Pippo Delbono, ad apertura del film, con la quale mostra senza veli le proprie ferite private del corpo e dell’anima – “ho voluto scappare” confessa il regista, “ho voluto cercare quelle persone, quei rifugiati e buttarmi in mezzo a loro. Non sapevo bene perché. Forse per questi occhi malati, per questo vuoto lasciato da mia madre, per questo vuoto di amore” –, si offre, tale confessione, come la moneta, nella dinamica dello scambio di doni, mediante la quale poter ricevere e accogliere – e offrire a noi spettatori – la verità profonda dei clandestini tra i quali Delbono cerca rifugio. Pienamente simbolica, riguardo questo aspetto, risulta l’accettazione da parte del profugo Nosa Ugiagbe, di lasciarsi denudare da Delbono, per assumere le vesti di Cristo, dopo che è stato Delbono il primo a “spogliarsi” e mostrarsi “nudo”, del tutto affrancato da qualsiasi forma di protezione del proprio mondo interiore; e il “denudamento” dell’Altro, si renderà definitivo, totale, quando sarà proprio uno dei profughi, Safi Zakria, a prendere coraggio, superare una propria iniziale reticenza, per aprirsi del tutto e raccontare a Delbono, e alla videocamera, il suo viaggio disperato, il suo trascorso di dolore, in una scena toccante che prende luogo sopra un’imbarcazione tra le acque calme di un lago al tramonto. E se questa confessione è stata possibile, così come è stato possibile realizzare tutto il film attraverso la partecipazione attiva dei migranti residenti al centro profughi di Asti, tutto questo lo si deve al fatto che Delbono esponendosi, mostrando le proprie ferite, ha – possiamo dire usando le espressioni di Jullien tratte da Sull’intimità – “fatto cadere ogni frontiera” che ci divide e che “separa ciascuno dal proprio Fuori”, permettendo di “sigillare un’alleanza” con l’Altro e mettersi con quest’ultimo “dalla stessa parte di fronte al Fuori del mondo”. Come dice infatti Delbono “in questo momento così assurdo, chiuso, dove tutti hanno paura degli altri”, lui si è aperto al migrante, al diverso, allo straniero, per entrare con questi in intimità, di fronte al Fuori del Mondo, e questo ha permesso, ad esempio, che Safi Zakria si aprisse a lui e dichiarasse al regista, a conclusione della suo racconto privato: “Voglio dirti una cosa: ho fiducia in te”.
Questa caratteristica del lavoro di Delbono dimostra come oltre alla sua sensibilità e al suo metodo maieutico, capace di estrarre il lato più intimo e poetico dal soggetto che porta con sé di fronte al Fuori del mondo, il regista si contraddistingua anche sia per la sua capacità di comprensione dell’altro, sia per il modo in cui fa comprendere le ragioni altrui allo spettatore. Tale duplice processo di comprensione, nel modo in cui è reso da Delbono, si lega a quel processo complesso descritto da Morin nel sesto volume de Il metodo, intitolato Etica. Il pensatore francese, più precisamente, scrive che esistono tre processi di comprensione che devono essere fra loro congiunti per dar vita a una forma completa di cognizione, tolleranza e umanità: se la prima, quella “oggettiva”, “comporta l’esplicazione”, ovvero l’acquisizione di dati oggettivi riguardanti quella realtà alla quale ci si vuole avvicinare e che si vuole comprendere, la seconda, quella “soggettiva”, riguarda il processo di identificazione e proiezione tramite mimesi, che ci fa vivere “nell’altro”, per capire ciò che questi vive, quali sono “i suoi sentimenti, le sue motivazioni interiori, le sue sofferenze, le sue sfortune”; ma è con la terza, quella “complessa”, che coniuga e fa dialogare quella oggettiva con quella soggettiva, che si raggiunge uno stadio corretto ed esaustivo della comprensione.
Prendendo in esame le due opere, Fuocoammare e Vangelo, possiamo dire che quella di Rosi si ferma ad una comprensione, e ad un invito di comprensione da parte dello spettatore, “oggettiva”, arrestandosi alle riprese del dolore del migrante nelle varie tappe del suo travaglio di terrore e speranza – riprendendo le parole di Pasolini, possiamo dire che nel film di Rosi prevale l’archetipo della “realtà vista dagli occhi”, che risulta “brutalmente oggettiv[a]” e “informativa” –; mentre con l’opera di Delbono la comprensione, e il modo di far comprendere al proprio spettatore, ciò che riguarda il dramma del migrante, contempla la fusione dell’acquisizione dei dati dell’altro con l’immersione nell’intimità di quest’ultimo, per una emersione, riprendendo il termine usato da Morin, di “amore” nei confronti di ciò su cui si rivolge lo sguardo, amore che viene però fuso con una prospettiva “intellettuale”, mediante la quale la ratio riflette sulle informazioni acquisite e le emozioni provate.
Delbono dimostra dunque di sapere bene che, come scrive Morin, la sola “spiegazione”, propria della comprensione oggettiva, “disumanizza”, e nello stesso tempo sa che la sola comprensione soggettiva, che vira verso l’“amore”– sentimento questo che, come scriverà Morin assieme ad Hessel, si dimostra la “principale forma di riconoscimento dell’altro” – deve fondersi con la comprensione intellettuale, per far dialogare il sentimento con la ragione, per un’espressione complessa e pienamente completa ed esaustiva di avvicinamento all’Altro.
L’“amore” di cui tratta Delbono nel suo film, possiamo allora dire che, essendo in stretto rapporto con la comprensione e la conoscenza, può essere inteso come espressione dell’eros platonico nel suo senso più ampio; quell’eros cioè che, come descritto nel Simposio, contempla, in una scala di valori, l’amore dei corpi, in un secondo stadio, delle anime e delle attività umane, per giungere, nel terzo stadio, all’attrazione verso la conoscenza, fino ad approdare al quarto, che riguarda la contemplazione del “bello in sé”.
Ma oltre l’eros platonico, quello di Delbono è anche, e soprattutto, come lui stesso dichiara nel film, in stretto rapporto con l’amore rivoluzionario professato e diffuso da Cristo, l’agàpe. Delbono infatti, come dichiara nel film, accoglie l’invito di sua madre che sul letto di morte gli diceva: “fai qualcosa che parli dell’amore. È importante parlare dell’amore, Pippo. Potresti fare il Vangelo”; e sebbene Delbono confessi che per lui non esista alcun Dio, alcun “Dio dei miracoli”, “della menzogna”, “della famiglia”, “delle paure”, che non creda ad alcun “Dio che cammini sull’acqua”, comprende però che quell’amore fraterno proclamato da Cristo sia il modo più corretto per avvicinarsi ai migranti, ovvero a quei “cristi” che, come dice Delbono, “cadono in mezzo al mare”, che “sprofondano nell’acqua” – “io non so camminare sull’acqua” è la battuta che il regista fa pronunciare a Nosa Ugiagbe, completamente immerso nel mare, “io non ho mai visto un uomo camminare sull’acqua” –.
Ed è proprio questa componente di amore cristiano fuso con l’eros platonico, che orienta l’opera di Delbono a non essere per nulla caratterizzata da una cifra buonista; anzi, proprio perché presente questa doppia componente, possiamo cogliere nel film una netta opposizione ad un orientamento di benevolenza affettata e ostentata, dimostrando come sensibilità, comprensione e amore possano viaggiare assieme ad una prassi che rinuncia all’ipocrisia e sia scevra di pietismo, e che risulti invece diretta fino a virare anche, in molti casi, ad una incisiva durezza e criticità verso ciò a cui ci si avvicina.
In Vangelo, infatti, in una prima fase, Delbono si pone dinnanzi ai migranti con atteggiamento più incline allo scontro, intento ad un avvicinamento che si oppone al fare gentile e commiserevole. Si prenda il primo effettivo incontro del regista con i migranti, che si svolge nella folta fauna che attornia il centro profughi astigiano: la piccola macchina da presa che tiene in mano il regista viene avvicinata fino al limite dinnanzi al volto dello straniero, ed è una ripresa che indaga ed esaspera, provoca e mette soggezione, e valica il limite dell’intimità dell’altro, quasi con l’intento di cannibalizzare l’immagine e l’essere altrui. Questa scena sembrerebbe così ricordare quello che realizza Rosi con le riprese dei migranti sulla nave militare, appena salvati dalla morte in mare, in cui il regista ostenta sui particolari di volti sofferenti e giunti quasi al limite della vita e del dolore – si pensi, ad esempio al lungo soffermarsi sul volto di un migrante che presenta un grave problema agli occhi, dove lacrime e sangue si miscelano e solcano un volto sconvolto e spaesato –. Ma tale idea di somiglianza tra la scena di Delbono e quella di Rosi è solo apparente, ed è in realtà un’idea non corretta, in quanto fra le due scene vi sono differenze profonde e radicali. Infatti in primo luogo possiamo vedere che, quella che possiamo definire come una ripresa cannibalica, accentuata in Delbono dalla registrazione del suo respiro ansimante nettamente percepibile in sottofondo, si realizza, nelle due opere, in un contesto del tutto differente: ovvero in Vangelo la ripresa non è realizzata durante l’operazione di salvataggio, escludendo così una esibizione quasi pornografica del dolore registrato nel momento in cui si svolge il dramma, cosa che invece accade in Fuocoammare, e che invece Delbono rifiuta di realizzare lasciando che solo le parole evocative del ricordo di Safi Zakria rimandino a ciò che avviene sui barconi. In secondo luogo, i migranti di Delbono, seppur sottoposti alla pressione delle riprese video e delle richieste del regista di recitare passi del Vangelo, e seppure ancora confusi dal loro essere clandestini in attesa di permesso e di un futuro migliore, sono fuori da quella dimensione di urgenza, di pericolo, in cui appiano i migranti di Rosi, e questo permette loro di poter avere un confronto con il regista e di rispondere alle sue azioni, domande e anche provocazioni. In terzo luogo Delbono, a differenza di Rosi, come è stato scritto, si offre mediante le ripresa di un’altra videocamera all’interno dell’inquadratura, evidenziando in questo modo come quello che vuole mettere in atto è un discorso tra pari – un aspetto, questo, sottolineato da Delbono attraverso l’aver mostrato, con cristallina sincerità, le sue ferite più intime –.
Queste tre differenze fanno emergere altrettanti tre caratterizzanti intenti insiti nell’opera di Delbono: il primo riguarda il fatto che se il regista si dimostra attento a provocare, criticare, esasperare i migranti, questo lo fa con il fine di dar vita ad uno scontro e, nello stesso tempo, un incontro dialettico con l’altro, per riuscire così a rompere quella barriera di difesa dietro la quale ci si chiude; l’atteggiamento iniziale di Delbono serve dunque, possiamo dire riprendendo Jullien, a far cadere ogni frontiera, a porre le basi per il sigillare un’alleanza con l’Altro, e a condurre quest’ultimo verso un’intesa intima e fraterna. Il secondo elemento caratterizzante l’operato di Delbono si offre in stretto rapporto con il primo descritto, ed è quasi a questo complementare: risulta infatti che la ripresa cannibalica di Delbono non solo serve a condurre l’Altro verso la possibilità di un confronto, ma serve anche a carpire di quest’ultimo la sua parte intima, procedendo attraverso un gesto di violazione violenta, secondo una prassi del tutto simile a quella descritta da Kundera quando analizza l’opera di Francis Bacon; questi infatti, scrive l’autore ceco, con la sua “mano violentatrice […] si posa con un «gesto brutale» sul volto dei suoi modelli per trovare, in una remota profondità, il loro «io» sepolto”, o, ancora meglio, il loro “tesoro”, la loro “pepita d’oro, il diamante nascosto”. Per raggiungere e tirare fuori il diamante del migrante, Delbono compie dunque una violazione mediante una ripresa ossessiva e cannibalica; ma è un’operazione, questa, iniziale, di rottura del muro di protezione e di separazione, a cui segue un dialogo e una complicità densi in quanto raggiunto uno stadio di fiducia profonda e di reciproco rispetto. E possiamo giungere così al terzo intento che si può desumere da quella che abbiamo definito come ripresa cannibalica del migrante: in questa modalità di ripresa cogliamo anche l’intento da parte di Delbono di proporre una riflessione metalinguistica che orienti lo spettatore a porre l’attenzione e valutare quella prassi consueta, nei documentari o nei servizi giornalistici, di filmare con ossessione e freddezza il dolore altrui, invadendo l’intimità dell’altro senza rispetto e cura del suo essere – una prassi, questa, che abbiamo visto caratterizzare particolarmente Fuocoammare –. Delbono portando agli eccessi questa modalità irrispettosa di ripresa dell’Altro – attraverso un posizionare la videocamera a pochi centimetri di distanza dal volto del migrante, mediante il sottoporre a quest’ultimo ripetute domande, chiedendogli di ripetere battute e azioni indicate – porta ad una momentanea forma di esasperazione il migrante e mette a disagio lo spettatore; ed è questo un disagio che Delbono ricerca e provoca al fine di porre, e far porre allo spettatore, in termini critici quelle forme di rappresentazione dell’Altro che non intendono cogliere, come scrive Kundera, il diamante, l’intimità altrui, ma si fermano alla sola e mera registrazione sensazionalistica del dolore e del dramma. Una prassi verso la quale Delbono si oppone, proponendo nel corso del film un modello del tutto diverso di rappresentazione dell’Altro dove il dialogo, il confronto e la reciproca e rispettosa intesa divengono i caratteri portanti.
Quello che emerge dunque è che la riflessione e il modello di rappresentazione riguardanti la condizione dei migranti presenti in Vangelo, che si pone in netta opposizione a quelli proposti da Rosi con Fuocoammare, risultano di grande profondità etica e particolarmente innovativi sul piano della forma, tanto da fargli valere sia il Premio speciale per la regiaai Nastri d’Argento per i migliori documentari 2017 sia una calorosa accoglienza a livello internazionale; e per ciò che riesce a far emergere dall’Altro e per il valore della riflessione sull’Altro, oltre al tipo di sperimentazione filmico-documentaria realizzata, l’opera di Delbono si offre come un’opera di grande importanza che necessiterà la giusta attenzione e un’adeguata diffusione per la sensibilizzazione e conoscenza del dramma dello straniero.