Le crisi: la disoccupazione, l’analfabetismo di ritorno, il terrorismo, la paura, l’ignoranza. Sono solo alcuni dei drammi che attanagliano la società contemporanea, che necessitano di essere compresi e risolti; perché come sostiene Edgar Morin, filosofo e sociologo francese, l’umanità del XXI secolo non fronteggia una crisi, ma “le” crisi: economica, culturale, demografica, della conoscenza… La sua soluzione c’è: tornare a sviluppare un pensiero olistico, d’insieme, capace di vedere le cose con una prospettiva più ampia e libera. Ed è la soluzione che caldeggiano similmente molti altri intellettuali. Per comprendere questa realtà globale abbiamo bisogno di un nuovo punto di vista, ciò che il sociologo tedesco Ulrich Beck chiama “sguardo cosmopolita”: esso indica che in un mondo di crisi globali e di pericoli generati dalla civiltà, le vecchie distinzioni tra dentro e fuori, nazionale e internazionale, noi e gli altri, perdono il loro carattere vincolante, e per sopravvivere c’è bisogno di un nuovo realismo, un realismo cosmopolita. A differenza dello “sguardo nazionale”, lo sguardo cosmopolita sulla storia, scettico, autocritico e disilluso, ci illustra la via da seguire per organizzare all’interno di una nuova cornice multiculturale la nostra vita condivisa. Gli uomini dovrebbero considerarsi al contempo parte di un mondo a rischio e parte della propria storia e della propria condizione locale, cittadini della loro nazione e cittadini del mondo, secondo il paradigma di questo nuovo cosmopolitismo. “Nuovo” cosmopolitismo perché in realtà questo concetto non è un’invenzione dei pensatori della postmodernità contemporanea. Già Alessandro Magno, che per primo unificò Oriente e Occidente, creando un organismo statale multietnico, nel quale tutte le culture si sarebbero dovute fondere con quella greca, aveva cercato di diffondere l’idea cosmopolita. Tutti gli uomini del suo immenso regno si sarebbero dovuti sentire parte di un impero universale, “cittadini del mondo” e non della loro città. Per raggiungere il suo (titanico) scopo egli diede vita alla più importante lingua universale prima del latino, la koinè dialectos, vero tramite tra i vari popoli uniti nel e dal suo immenso impero. Il dialetto attico semplificato, inizialmente diffuso negli atti ufficiali e commerciali, divenne la lingua degli uomini di cultura. Grazie a questa lingua comune, realtà lontane e fino ad allora isolate poterono entrare in comunicazione e fondersi; divenne un vero e proprio ponte tra le diverse culture e permise all’impero di Alessandro Magno di essere il più grande, eterogeneo e cosmopolita sorto fino a quel momento. La lingua comune permette a persone che altrimenti non si intenderebbero di farsi capire facilmente, ha la potenza di essere compresa in ogni parte del mondo – o quasi- e permette di ridurre gli spazi globali e le incomprensioni e di ampliare allo stesso tempo possibilità di spostamenti e di conoscenze. Questo è il ruolo che riveste ad esempio l’inglese, la lingua franca di oggi, che se da un lato è accusato di cancellare le lingue meno diffuse, dall’altro lato permette a tutti di capire e farsi capire, praticamente ovunque. L’inglese come lingua franca è diventata un vero e proprio ponte che collega società e modi di pensare diversi, necessario più che mai nella società globale e globalizzata in cui viviamo. Per essere cosmopoliti dobbiamo prima di tutto essere in grado di farci capire e di capire gli altri, conoscere chi ci sta di fronte. Perché non possiamo pensare di trovare una soluzione alle sfide globali se al posto di unificarci – non uniformarci! – ci dividiamo e se al posto di costruire ponti costruiamo muri: muri che separano, che dividono e dimenticano chi sta dall’altra parte. Che siano nel cuore di Belino, al Brennero, in Israele o in Messico, i muri vengono costruiti con il solo intento di non far passare chi li vorrebbe oltrepassare, alla ricerca di una vita migliore, di nuove possibilità o semplicemente alla ricerca della propria famiglia: rappresentano un ostacolo per chi li deve varcare e un riparo, una difesa per chi li costruisce. Migliaia di chilometri di cemento e filo spinato che ancora di più oggi, nell’era della globalizzazione e del digitale, tagliano come un rasoio Stati, territori, famiglie e interi popoli e nascono dalla paura, la paura folle di confrontarsi con chi è diverso, di mettere in discussione se stessi e la propria vita, di dare possibilità e speranza a chi non ne ha. I Paesi più avanzati si isolano e si cullano in anacronistiche forme di nazionalismo o patriottismo dei confini, incuranti dei diritti civili e politici che da secoli tentano di esportare ai Paesi più arretrati e che però allo stesso tempo negano a chi chiede gli vengano riconosciuti. Si preferisce sempre mettere se stessi e il proprio popolo (o sarebbe meglio dire, i propri interessi) al primo posto. Il cosmopolitismo invece ci ispira a volere il bene del mondo, perché è la nostra vera nazione e ci insegna a metterci alla pari degli altri, a mettere “the World first”, invece di “America first”.
Lo stimato giornalista ed intellettuale Tiziano Terzani in Lettere contro la guerra riuscì a semplificare il concetto di cosmopolitismo, affermando che questi tempi sono “l’occasione di capire una volta per tutte che il mondo è uno, che ogni parte ha il suo senso, che è possibile rimpiazzare la logica della competitività con l’etica della coesistenza.”