Joan Wasser, meglio nota come Joan As Police Woman (nome d’arte ispirato a una serie televisiva poliziesca degli anni Settanta), è una cantautrice, polistrumentista e produttrice americana. Nota a molti per aver collaborato con artisti del calibro di Nick Cave, Rufus Wainwright e Antony & The Johnsons, nonché per essere stata la fidanzata di Jeff Buckley per tre anni (fino alla prematura e tragica scomparsa di quest’ultimo nel maggio 1997 per annegamento accidentale nel fiume Mississippi), in realtà Joan ha assolutamente dimostrato negli ultimi dieci anni di meritare una fama in proprio e non solamente di riflesso per collaborazioni o relazioni con altri. Ovvero, una fama giustificata unicamente in base alle sue qualità artistiche. Qualità artistiche che Joan As Police Woman ha avuto modo di evidenziare ed esprimere in primo luogo attraverso una discografia che si compone ormai di diversi album: l’esordio Real Life del 2006, e poi To Survive del 2008, Cover del 2009, The Deep Field del 2011, The Classic del 2014, fino ad arrivare all’ultimo, recentissimo Let It Be You (2016) composto, eseguito e prodotto insieme a Benjamin Lazar Davis.
Come spesso accade, all’uscita del disco è subito seguita l’organizzazione e la realizzazione di un tour promozionale. Tour che ha toccato pure l’Europa e, per quel che ci riguarda da vicino, anche l’Italia. Per i lettori di “Scenari” abbiamo seguito la data bolognese di Joan As Police Woman del 26 novembre presso il Locomotiv Club, assistendo alla performance di Joan (voce, tastiere, chitarra) accompagnata da una band composta dal succitato Benjamin Lazar Davis (basso, voce, tastiere), da Ryan Dugre (chitarra, basso, batteria in un brano) e da Ian Chang (batteria, tastiere in un brano). Com’è prevedibile in queste occasioni, gran parte del repertorio presentato al pubblico bolognese è stato tratto appunto dall’ultimo disco, Let It Be You. Un disco che, per la verità, convince solo in parte, cioè a mio parere non è riuscito appieno ma, per così dire, soltanto a metà. In linea generale, infatti, la qualità delle dieci composizioni di cui si compone il disco è mediamente buona, anche se va detto che a spiccare sono principalmente le prime tracce, a mio giudizio un po’ superiori a quelle successive che, invece, dopo un po’ tendono a farsi ripetitive e quindi rischiano di annoiare leggermente l’ascoltatore (con l’eccezione della bella Station, ultima traccia del disco). Una sensazione di ripetitività e conseguente noia che, peraltro, viene accentuata da una certa incapacità di rinnovare gli arrangiamenti e le sonorità, con un sound un po’ troppo appiattito sempre sullo stesso uso di chitarra, synth e batteria, senza particolari momenti di slancio o variazione, col risultato che il disco, dopo avere effettuato ripetuti ascolti dal primo all’ultimo brano, rischia di suonare complessivamente un po’ monotono.
Tutto ciò ha rischiato di riprodursi anche dal vivo, nel concerto bolognese di Joan As Police Woman che abbiamo avuto modo di seguire al Locomotiv Club. Ha solamente “rischiato”, tuttavia, nel senso che la band, in realtà, ha saputo alternare in modo piuttosto accorto brani tratti dal repertorio recente, ovvero dall’ultimo disco di cui dicevamo qui sopra, a diversi brani tratti da dischi precedenti di Joan As Police Woman, creando in tal modo un positivo senso di alternanza e bilanciamento che ha conferito un maggiore equilibro alla proposta musicale nel suo complesso. Nel corso degli anni, infatti, lo stile di Joan As Police Woman sembra aver subito notevoli modifiche, passando dalle sonorità più classicamente improntate a un cantautorato alternative rock dell’esordio del 2006, Real Life, a una sorta di synth-soul nell’ultimo Let It Be You, pubblicato esattamente dieci anni dopo. La capacità di mescolare in maniera sapiente e ben studiata brani nuovi a brani più vecchi, tenuto conto sia di questi cambiamenti stilistici che della qualità intrinseca delle canzoni selezionate dai primi dischi, ha sicuramente giovato ai fini del risultato complessivo. Fra i brani tratti da Let It Be You che voglio segnalare qui figurano, in particolare, la title-track e le intense Broke Me in Two, Hurts So Bad, Overloaded e Magic Lamp. Intelligente, in questi brani, si è rivelato soprattutto il contributo del chitarrista, con parti ritmiche o arpeggiate sempre molto spezzate, in alcuni casi rumoristiche, in grado di conferire alle canzoni un andamento “nervoso” e per così dire “interrotto” o “frammentato”, non banalmente lineare: cosa che è apparsa decisamente funzionale alla buona riuscita del concerto. Per esempio, in un brano come Let It Be You l’azzeccato incastro fra chitarra e basso su parti frammentarie e intenzionalmente ripetitive, per così dire, ma sostenute da una pulsazione di fondo alla batteria sempre ben percepibile, ha condotto a esiti sonori che, secondo me, ricordavano vagamente certi momenti dei Talking Heads di fine anni Settanta.
Una volta detto questo a proposito del disco e del concerto, mi siano concesse infine alcune rapide considerazioni su quella che, con un termine un po’ enfatico, vorrei definire la poetica di Joas As Police Woman e che, nel titolo dell’articolo, ho sintetizzato con l’espressione “la forza della propria fragilità”. “Sitting here thinking ’bout you / About the way your hands took me with you / And I will never, I’ll never hesitate / Because ooh you broke me in two / Like a lightning bolt hits the sea / You go deep down into me. […] Did you ever have a moment when you / When you felt the ground move beneath you / You doubled the rhythm on my tired and lonely heart / Because ooh, you broke me in two” – così canta infatti Joan in Broke Me in Two, con una passione e una forza che non contrastano ma, viceversa, si fondono bene con la fragilità espressa dal testo. La medesima dialettica forza/fragilità emerge anche dai brani (tutti bellissimi e tutti eseguiti in modo più che adeguato nel concerto bolognese) tratti da Real Life, come Feed the Light, The Ride, Save Me e, su tutte, una struggente We Don’t Own It che Joan, sul palco del Locomotiv Club, ha suonato in solitudine, chitarra e voce, e ha dedicato alla memoria del mai sufficientemente rimpianto Elliott Smith. “How sweet he was to you / And all the others. […] He made you feel safe enough / To feel at all. […] So hand it over / Cause we don’t own it / It’s in the mystery / Our silent fantasy” (We Don’t Own It). “And it’s true what they say about love / Yes it’s true what they say about life / And I’m taking it for all it’s worth. […] So take the chance / Be reckless with me / ’Cause I’m real life” (Real Life). “Cause we live under the common tree / But I’ll learn to leave us there […] I don’t want to wait any longer / I don’t want to wish and hope and pray / If you’re already good as gone” (Save Me). “You won’t be lost / You won’t be found […] Just feel your right to get it wrong / It’s not the end / It never ends” (Feed the Light). “Don’t you feel for us / That we’re on the round and round? / […] As long as you follow me / This is what I do, like I do / I’ve been on the ride before / It never stops at all” (The Ride).
Una poetica della forza e/è fragilità, quella che traspare da alcuni dei versi di alcune delle canzoni eseguite al Locomotiv Club di Bologna. Una poetica dello spaesamento e dello spodestamento, dello smarrimento delle certezze (“sentire il terreno cedere sotto i tuoi piedi”, “sentirsi spezzati in due”), della presa di coscienza dell’impossibilità di esser completamente padroni di sé e della propria esistenza (“non la possediamo, non ne abbiamo il controllo, è un mistero”) e, in certi momenti, dell’inevitabilità della resa (“non è la fine, non finisce mai, non arriva mai la fine”). Ciò che, però, è al contempo, nel modo stesso in cui Joan As Police Woman intona tali versi, una poetica della non arrendevolezza, di una straordinaria energia: energia che Joan sprigiona sul palco con la sua band e che il pubblico indubbiamente recepisce. Tornano in mente le parole usate da Joan per ricordare, a distanza di anni, lo smarrimento seguito all’improvvisa scomparsa di Jeff Buckley: “It was such a traumatic experience of loss. I needed to grieve but I didn’t know how”. La musica come elaborazione e superamento del lutto, la musica come discesa nell’oscurità e risalita verso la luce, la musica come riappropriazione della propria vita nella sua integrità dopo esser passati attraverso esperienze di frammentazione quali possono essere quella della morte, certamente, ma anche quella dell’amore. Un tema ricorrente nelle canzoni di Joan, quest’ultimo, e in particolare in quella che, a modesto parere di chi scrive, rimane a tutt’oggi la sua composizione più riuscita, pressoché perfetta nel suo equilibrio tra gioia e malinconia, e cioè Start Of My Heart dal disco To Survive: “You changed me / You chained me down and taught me / The damage I’ve done / Can show me the way to my heart? […] And your hand led me home like Orion / You woke my heart with your northern lights / With your song. […] I’ll thank you from the deep of my heart / I’ll thank you for the start of my heart”.