Oggi, diceva Zygmunt Bauman, a causa della globalizzazione, di cui si giovano i mercati e il capitalismo globale, l’intero genere umano si trova in una sorta di mondo hobbesiano, dal quale crede tuttavia che si possa uscire facendo leva sul modello che, nonostante tutto, l’Europa ha saputo fornire nella storia, a partire ad esempio dalla politica integrativa già adottata dall’Impero Romano, ossia dall’arte di convivere con il prossimo, con l’altro, con il vicino, con il “più prossimo”, con quell’egghýteron cui Paolo faceva cenno nella Lettera ai Romani. A tal fine, in L’Europa è un’avventura (Laterza 2004), il sociologo polacco auspica che ci si disponga ad abbandonare il modello della “sovranità westfalica” – vale a dire quello che ancora perdura nell’istituzione dello “Stato-nazione” e che ne La politica perduta (2003) Marco Revelli definisce «paradigma politico della modernità» – per aprirsi a quei «gruppi di popolazioni miste» proposti dalla Arendt sul modello della kantiana allgemeine Vereinigung der Menschheit. Occorrerebbe dunque, propone lo studioso, superare l’impasse nella quale si trova ancora oggi l’Europa come organo internazionale, e risolvere in qualche modo (ma si è tuttora in corso di sperimentazione) l’antinomia dell’Europa Unita, generatasi tra la «logica dell’arroccamento locale» e la «logica della responsabilità e delle aspirazioni globali» (p. 136). A tale scopo egli suggerisce la traduzione, la diffusione e la conoscenza della letteratura di tutti gli Stati membri, perché in essa, afferma, è contenuta «la parte più pregiata dell’esperienza e del pensiero di ogni nazione dell’Unione Europea» (p. 153).
E ciò forse è vero se, in riferimento a tre dei sei Paesi fondatori dell’Europa Unita (Italia, Francia, Repubblica Federale Tedesca, Belgio, Olanda, Lussemburgo), oltre al Baudelaire dei Poemetti e al Mazzini della Giovine Europa o a quello dei Doveri dell’uomo, pensiamo anche ad esempio a Christenheit oder Europa di Novalis. In questo testo del 1799 – profondamente influenzato dai Discorsi sulla religione di Friedrich Schleiermacher (saggio coevo a quello novalisiano) – il poeta sassone definisce il protestantesimo e il gesuitismo come due radicalizzazioni religiose europee che più di ogni altra hanno determinato la disgregazione dell’idea unitaria di un’Europa cristiana. Nur die Religion – scrive infatti Novalis – kann Europa wieder aufwecken, «Solo la religione può risvegliare l’Europa e dar sicurezza ai popoli e insediare la Cristianità (..) nel suo antico ufficio di operatrice di pace (in ihr altes friedenstiftenes Amt)», anzi della kantiana ewiger Frieden, della “pace perpetua” (pp. 123, 129).
E non si può negare che, ben al di là ovviamente dello spirito controriformistico, il recente viaggio di papa Bergoglio nella Svezia luterana abbia avuto come idea base il “superamento” (nel senso proprio della Aufhebung hegeliana) di quella frattura. Specie in un’Europa nella quale, con la presenza di truppe Nato nei Paesi Baltici in funzione anti-russa, “sembra” che ci si stia predisponendo non solo per una riedizione del conflitto Usa-Russia con la sua tipica politica di containment e la sua sordida cortina di ferro tra est e ovest, ma anche per una ulteriore contrapposizione, come in una moderna guerra dei Trent’anni, tra gli Paesi europei a favore e quelli contro l’Europa Unita, tra unionisti ed euroscettici.
Senza contare che proprio questa disunione europea, pur generandosi, a detta di qualcuno, per un’Europa “migliore” (è il caso, ad esempio dell’Austria), sta invece determinando e in certi casi anche approfondendo la spaccatura all’interno di ogni singolo Stato membro. Il caso italiano è solo uno, con il suo referendum e il suo revisionismo costituzionale; ma la krisis si va rapidamente diffondendo per l’Europa come una metastasi cancerogena. A far da miccia il tragico fenomeno migratorio, a far da polvere esplosiva il malessere e la rabbia prodotti in un decennio da una crisi economico-finanziaria che non accenna a mollare. E se il problema migratorio, con tutto il suo intollerabile prezzo di morte pagato dai civili, è il risultato delle politiche sbagliate attuate sconsideratamente soprattutto in Medioriente dall’Occidente, a partire almeno dalle “primavere arabe”, è cioè il risultato delle guerre che esso vi ha scatenato per salvaguardare i propri interessi e tutelare i suoi soliti traffici, allora come, se non ancora una volta, come sempre d’altronde, si potrà uscire da questa crisi se non con un’ennesima guerra? Come quella globale, ad esempio, che è già in atto dall’11 settembre 2001?
Malgrado l’auspicio di Novalis e di papa Francesco all’unità cristiana e alla kantiana pace perpetua, lo stesso Pontefice è stato fra i primi nel 2014 a dichiarare apertamente la realtà di una Terza Guerra Mondiale e quindi ad annunciare con ciò stesso il fallimento di quella pace tanto invocata.
[Del tutto inutili, pertanto, da questo punto di vista […] i tre articoli che Kant propone e analizza da una prospettiva a priori nel suo scritto Per la pace perpetua. Vano il monito del filosofo ad uscire dallo stato naturale e ad istituire uno stato legale o civile, uno stato di diritto. Inefficace la modifica che egli apporta all’antica massima Si vis pacem, para bellum con quella più moderna e “illuminista” Si vis pacem, para pacem. Difatti, anziché diminuire, per tutto il Settecento le guerre non faranno che aumentare, in una escalation che pare essere senza fine.
Inutile e vano il richiamo del primo articolo alla costituzione repubblicana, nel quale il capo dello Stato si impegna a rappresentare la volontà generale, ossia quella del popolo, se non altro perché – scrive Kant – ogni uomo è «Augapfel Gottes», la pupilla di Dio (I. Kant, Zum ewigen Frieden. Ein philosophischer Entwurf , «Per la pace perpetua», in Scritti di filosofia politica, a cura di Dario Faucci, La Nuova Italia, Firenze 1993, p. 101). A tal proposito, rievocando la resistenza e lo sterminio degli Armeni, nel 1915, da parte dei Turchi, ne I quaranta giorni del Mussa Dagh (1933) Franz Werfel scrive: «Non l’esterminio di tutto un popolo era il peggiore degli orrori, ma l’esterminio della coscienza, in tutto un popolo, della sua discendenza da Dio. La spada di Enver colpendo gli armeni aveva colpito Allàh stesso. Poiché in loro come in tutti gli uomini viveva Allàh, anche se erano infedeli. E chi in una creatura distrugge la dignità, distrugge in essa il Creatore. Questo è l’assassinio di Dio, il peccato, che non sarà perdonato sino alla fine del tempo» (F. Werfel, Die vierzig Tage des Mussa Dagh, trad. it. di C. Baseggio, I quaranta giorni del Mussa Dagh, Corbaccio, Milano 2007, p. 755).
Vano il richiamo del secondo articolo al diritto internazionale fondato sulla federazione di Stati liberi, e l’invito a stipulare non già dei semplici patti di pace (che sono solo armistizi, brevi interruzioni dell’azione belligerante in uno stato continuo di guerra, ove si dà sempre qualcosa come pretesto per ritornare alla guerra), ma a creare e a istituire delle leghe per la pace (Per la pace perpetua, p. 108), tese a creare le condizioni per evitare e per porre termine ad ogni eventuale guerra. Ma la Santa Alleanza, la Società delle Nazioni, l’Organizzazione delle Nazioni Unite non sono forse delle leghe per la pace, e non sono forse state istituite con questo preciso scopo?
Del tutto vano e per certi versi paradossale (soprattutto alla luce di quanto l’umanità apprenderà nel XIX e nel XX secolo e che continua ancora ad imparare nel secolo in corso) la condizione che Kant pone nel terzo articolo per il raggiungimento della pace perpetua, ossia il diritto cosmopolita inteso come universale ospitalità («allegemein Hospitalität»). Kant pensa a un diritto internazionale in un mondo nel quale già si prefigurava la globalizzazione. Ma si è visto cosa hanno prodotto nella storia la colonizzazione, la politica dell’assimilazione e dell’esportazione della democrazia? Infatti, «se per diritto internazionale si intende il diritto alla guerra», allora, dice Kant, gli «uomini che pensano in tal modo hanno la sorte che si meritano», nel senso che si distruggeranno a vicenda andando a cercare così «la pace eterna nella vasta fossa che copre coi loro autori tutti gli orrori della violenza» (Per la pace perpetua, p. 110).
Ad ogni modo, solo a queste condizioni, argomentava Kant, l’umanità potrebbe sperare (il termine che saggiamente usa qui il filosofo non è però hoffen, ‘sperare’, appunto, ma schmeicheln, che si significa ‘lusingare’ e quindi in qualche modo anche ‘ingannare’) di approssimarsi sempre più all’attuazione della pace perpetua («und so zum ewigen Frieden, zu dem man sich in der kontinuierlichen Annhärung zu befinden nur unter dieser Bedingung schmeicheln darf») (Per la pace perpetua, p. 115)]. (Questa parte in parentesi quadre è ripresa dal nostro saggio Et in terra pax (hominibus bonae voluntatis) osservazioni sul Gloria (RV 589) di Antonio Vivaldi, in «Nuova Rivista Musicale Italiana», gennaio-marzo 2012, n. 1.). Nell’attesa, però, vista la distanza che separa asintoticamente l’umanità da quella ideale pace perpetua, Kant sostiene che anziché di un semplice giorno della memoria, occorrerebbe piuttosto celebrare uno yom kippùr, un giorno dell’espiazione, della kaparàh.