Come già riferito circa un anno fa in occasione di un mio articolo per “Scenari” sul medesimo evento che prenderò in considerazione anche qui (cioè il Bologna Jazz Festival 2015, nel caso del precedente articolo, e l’edizione 2016 nel caso del presente contributo), com’è consuetudine ormai da diverse stagioni anche quest’anno Bologna si è trasformata per alcune settimane in una vera e propria “città jazz”. Ciò, nel senso che – come spiegavo già l’anno scorso, per l’appunto – nel periodo di svolgimento del Bologna Jazz Festival la città viene per così dire attraversata da un flusso di eventi legati in maniera molteplice e varia al jazz, i quali contribuiscono in maniera decisamente efficace a vivacizzarne la già vivace atmosfera musicale e, più in generale, culturale. Come sempre, a contraddistinguere le modalità di organizzazione e realizzazione del Bologna Jazz Festival è un notevole spirito di apertura, sia dal punto di vista della varietà degli approcci al jazz che vengono proposti al pubblico, sia dal punto di vista della diversificazione delle location in cui si svolgono i singoli eventi. A giudizio di chi scrive, ciò costituisce senza dubbio un punto di forza nella struttura del Festival, dal momento che fenomeni diversi (in questo caso, fenomeni musicali) richiedono chiaramente, in base alla loro stessa “natura” o “essenza” o “qualità specifica”, contesti diversi in grado di contenere pubblici diversi, al fine di poter esplicare al meglio il loro potenziale tecnico, comunicativo ed espressivo. Tale opportuna e ben congegnata diversificazione delle location del Festival, nel caso dell’edizione appena conclusasi, prevedeva l’alternarsi dei concerti in sedi molto diverse fra loro come gli Auditorium Manzoni e Unipol, i teatri Antoniano e Duse, il Conservatorio “Giovanbattista Martini” e, last but not least, i music club Bravo Caffè e Cantina Bentivoglio. Quanto al programma complessivo del Festival, poi, credo si possa dire che esso, quest’anno, è stato persino più ricco o, quanto meno, più variegato e plurale rispetto a quello degli anni scorsi, come si può facilmente constatare già da una rapida occhiata all’insieme degli eventi svoltisi nel periodo compreso tra il 27 ottobre e il 20 novembre: C’MON TIGRE RACCONTA TOCCAFONDO (Gianluigi Toccafondo – cortometraggi d’animazione; C’mon Tigre, voce, chitarra, organo e synths; Beppe Scardino, sax baritono e clarinetto basso; Mirko Cisilino, tromba e trombone; Pasquale Mirra, vibrafono; Marco Frattini, batteria); HORACIO HERNANDEZ & ITALUBA (Amik Guerra, tromba; Ivan Bridon, pianoforte; Daniel Martinez, basso elettrico; Horacio “El Negro” Hernandez, batteria); BARRY HARRIS TRIO (Barry Harris, pianoforte; Luca Pisani, contrabbasso; Fabio Grandi, batteria); MYRA MELFORD “SNOWY EGRET” (Myra Melford, pianoforte; Ron Miles, cornetta; Liberty Ellman, chitarra; Stomu Takeishi, basso acustico; Gerald Cleaver, batteria); SAMUEL BLASER TRIO (Samuel Blaser, trombone; Marc Ducret, chitarra; Peter Bruun, batteria); THE COOKERS (Billy Harper, sax tenore; Craig Handy, sax alto; David Weiss, tromba; Antonio Faraò, pianoforte; Cecil McBee, contrabbasso; Billy Hart, batteria); MATTEO BORTONE TRIO (Enrico Zanisi, pianoforte; Matteo Bortone, contrabbasso; Stefano Tamborrino, batteria); SABIR MATEEN & THE BELL RINGERS (Sabir Mateen, sax e voce; DJ Lugi, loops & grooves; Deda, tastiere; Mirko Cisilino, tromba e trombone; Martino Bisson, sax tenore e flauto; Davide Angelica chitarra; Salvatore Lauriola, basso; Gaetano Alfonsi, batteria); FRONTAL (Dan Kinzelman, sax tenore; Simone Graziano, pianoforte; Gabriele Evangelista, contrabbasso; Stefano Tamborrino, batteria); RANDY BRECKER & BALAIO (Randy Brecker, tromba; João Mascarenhas, piano e tastiere; Sergio Brandao, basso; Leonardo Susi, batteria; Marco Bosco, percussioni); AZIZA (Chris Potter, sassofoni; Lionel Loueke, chitarra e voce; Dave Holland, contrabbasso; Eric Harland, batteria); JEREMY PELT QUINTET (Jeremy Pelt, tromba; Victor Gould, pianoforte; Vicente Archer, contrabbasso; Jonathan Barber, batteria; Jacqueline Acevedo, percussioni); PAOLO FRESU, URI CAINE & QUARTETTO ALBORADA (Paolo Fresu, tromba; Uri Caine, pianoforte e piano elettrico; Anton Berovski, violino; Sonia Peana, violino; Nico Ciricugno, viola; Piero Salvatori, violoncello); BUSTER WILLIAMS QUARTET (Jaleel Shaw. sax alto e soprano; Eric Reed, pianoforte; Buster Williams, contrabbasso; Lenny White, batteria); PASQUALE MIRRA & HAMID DRAKE (Pasquale Mirra, vibrafono e percussioni; Hamid Drake, batteria e percussioni); STEVE COLEMAN & COUNCIL OF BALANCE (Steve Coleman, sax alto; Maria Grand, sax tenore; Jonathan Finlayson, tromba; Miles Okazaki, chitarra; Anthony Tidd, basso elettrico; Dan Weiss, batteria; Doelen Ensemble, archi, ance e percussioni); AZYMUTH (Fernando Moraes, tastiere; Alex Malheiros, basso elettrico; Ivan Conti, batteria); DANIELE DI BONAVENTURA & GIOVANNI GUIDI (Daniele di Bonaventura, bandoneon; Giovanni Guidi, pianoforte); TRIO BOBO (Alessio Menconi, chitarra; Faso, basso; Christian Meyer, batteria); JULIAN LAGE TRIO (Julian Lage, chitarra; Jorge Roeder, contrabbasso; Eric Doob, batteria); KRONOS QUARTET (David Harrington, violino; John Sherba, violino; Hank Dutt, viola; Sunny Yang, violoncello).
Come si può vedere, dunque, un programma spaziante dalle forme più classiche e consolidate del jazz a quelle più aggiornate e spostate sul contemporaneo, da sonorità vicine alla fusion alle raffinatezze di un duo tromba e pianoforte supportato da un quartetto d’archi, da formazioni quasi in stile big band ma su un repertorio a carattere spiccatamente “sperimentale” fino all’apertura assoluta alla Musica in quanto tale (senza confini dettati dall’appartenenza a qualsivoglia repertorio o genere predefinito) che è già contenuta nel nome stesso “Kronos Quartet”. All’interno di un tale programma, così vasto e poliedrico, abbiamo deciso di riferire ai lettori di “Scenari” circa gli esiti di due concerti in particolare: quello della formazione “Aziza” dell’8 novembre all’Auditorium Unipol e quello del “Council of Balance”di Steve Coleman del 14 novembre al Teatro Duse.
Nel primo caso, si è trattato di un tipico caso di cosiddetta formazione “all star”, dato che a costituire il quartetto in questione, come ho già accennato, erano musicisti del livello e, inoltre, della fama di Chris Potter (sassofoni), Lionel Loueke (chitarra e voce), Eric Harland (batteria) e, soprattutto, Dave Holland (contrabbasso). In questa occasione Holland non figurava in maniera esplicita nelle vesti di leader della band, come accade invece nelle varie incarnazioni della sua band (quartetto, quintetto, sestetto, ottetto e poi anche big band), così come non figurava ufficialmente come leader nel caso di un’altra formazione vista di recente a Bologna, e cioè il quartetto “Prism” ascoltato al Paradiso Jazz Festival poco più di un anno fa. Tuttavia, al pari del succitato concerto dei “Prism” (sul quale ho avuto modo di riferire in un precedente articolo apparso parimenti su “Scenari”), non si può negare che anche “Aziza” – per il tipo di repertorio, per le modalità esecutive e, per così dire, per la semplice presenza scenica, cioè per il semplice modo di stare sul palco ed eseguire le composizioni – faccia pensare a qualcosa di molto vicino a una nuova incarnazione del Dave Holland Quartet. Ciò, naturalmente, non è inteso in alcun modo per sminuire l’apporto degli altri musicisti, e cioè Potter, Loueke e Harland, i quali, per le loro indiscutibili doti sia tecniche che espressive, nonché per il loro elevato grado di affiatamento facilmente constatabile dal felice interplay su cui si regge ogni brano, risultano partner preziosi, se non indispensabili e insostituibili (cioè, non rimpiazzabili in questo contesto da altri musicisti), a fianco di Holland. Piuttosto, la precedente considerazione sul ruolo di leader era semplicemente intesa come indicazione della naturale inclinazione, per così dire, di un bassista come Holland – egualmente “granitico” nel supporto fornito al resto della band e “fantasioso” nelle improvvisazioni in cui si lancia tanto all’interno dei brani quanto in preziosi momenti completamente solistici – a centrare su di sé l’energia musicale scaturente dall’interazione reciproca sul palco. Ovvero, era intesa come testimonianza della sua naturale tendenza a fungere da perno essenziale che, con la sua solidità, il suo virtuosismo e, verrebbe da dire, la sua saggezza da anziano maestro (del resto, si tratta di un artista che ha mosso i primi passi nel jazz alla fine degli anni Sessanta nel contesto della celebre “svolta elettrica” della band di Miles Davis), garantisce al gruppo quell’indispensabile senso di stabilità e coerenza di fondo che consente a tutti, poi, di arricchire in modo libero la proposta musicale del collettivo. Per dirla con un linguaggio filosofico adattato qui al contesto particolare di un concerto jazz, il contrabbasso di Dave Holland, dunque, quale unità che funge da condizione di possibilità per l’esplicarsi della libera molteplicità rappresentata dalle altre voci del gruppo. Detto questo, volendo parlare in modo più specifico del concerto si può dire che, avendo avuto la fortuna di ascoltare l’anno passato il quartetto “Prism” e quest’anno “Aziza”, non ho potuto non notare alcune affinità fra le due formazioni. I principali elementi di “Aziza” che ricordano “Prism” sono, ovviamente, in primo luogo la sezione ritmica della band, in entrambi i casi formata da Holland e Harland (i quali, pertanto, esibiscono ormai un invidiabile grado di affiatamento, una capacità quasi telepatica di seguirsi a vicenda senza neanche bisogno di uno sguardo o un cenno del capo); e poi, in modo subito evidente all’ascolto, anche l’apporto di una chitarra elettrica molto sofisticata ma, al contempo, in varie occasioni parecchio distorta e quasi soverchiante. Soltanto “quasi”, però, giacché i chitarristi delle due formazioni (Kevin Eubanks in “Prism”, Lionel Loueke in “Aziza”) mostrano altresì di possedere appieno il senso del limite e, quindi, non indulgono mai in virtuosismi eccessivi, inutili, fini a se stessi o, per l’appunto, soverchianti rispetto ai propri partner musicali. In confronto a Eubanks, anzi, va detto che Loueke si è mostrato meno incline a cedere alla tentazione di uno stile chitarristico “muscolare”, per così dire, e piuttosto tendente a soluzioni ricercate, con un’interessante alternanza tra fraseggi anche travolgenti e per così dire torrenziali (cioè, consistenti in un vero e proprio fiume in piena di note), da un lato, e invece momenti di pura sperimentazione sul timbro, con esiti sonori molto “atmosferici”, dall’altro lato. Quanto agli altri due musicisti, cioè Potter e Harland, il primo (partner stabile di Holland in pressoché tutte le formazioni guidate da quest’ultimo negli ultimi quindici anni) si è confermato un solista versatile, ispirato e appassionato, nonché il principale elemento di diversificazione rispetto a “Prism”, dato in quella formazione il quarto elemento era rappresentato da Craig Taborn alle tastiere. Harland, invece, ha ribadito le qualità già dimostrate qui a Bologna nel 2015 con altre due formazioni, ovvero i succitati “Prism” e poi anche “James Farm”: qualità riassumibili in un’assoluta, metronomica precisione nell’assicurare il beat al gruppo e, insieme, una rara fantasia nell’escogitare soluzioni ritmiche a volte delicate, a volte invece irruente, con notevolissima capacità di muoversi e giocare con l’intero drum set anche su tempi dispari piuttosto complessi (come accade non di rado nella musica composta da Holland, del resto). Appena prima dell’inizio del tour (per la precisione, il 14 ottobre) è stata pubblicata la prima registrazione ufficiale del quartetto, il cd omonimo Aziza: purtroppo chi scrive non ha ancora avuto modo di ascoltare questo ulteriore titolo che va ad arricchire il già nutrito catalogo della produzione di Holland & compagni, ma alla luce del concerto di Bologna – che ha presentato un repertorio solido ma vario, ben concepito e ottimamente eseguito, con pochissimi momenti di ripetitività e, al contrario, parecchi sprazzi di grande vivacità musicale – abbiamo pochi dubbi su quella che sarà la qualità musicale di tale prodotto discografico.
Quanto al secondo dei due concerti poc’anzi citati, e cioè quello di Steve Coleman & Council of Balance, si è trattato invece di un evento molto diverso ma non per questo meno interessante. Anzi, per molti aspetti si può dire che si sia trattato di uno dei concerti più originali e intriganti ascoltati in generale al Bologna Jazz Festival nelle ultime edizioni. Del resto, nel 2014 Coleman è stato il beneficiario di ben tre prestigiosi award (MacArthur Fellowship, Guggenheim FellowshipeDoris Duke Performing Artist Award) e talenti del jazz (sia giovani che anziani, ma in entrambi i casi molto influenti) come il pianista Vijay Iyer e il batterista Billy Hart non hanno esitato a paragonare il contributo di Steve Coleman alla storia di questo genere musicale al contributo apportato da Coltrane o dall’altro Coleman (il “gigante” Ornette, il pioniere del free jazz): e ciò, per quanto indubbiamente enfatico e persino iperbolico possa apparire, rimane comunque una testimonianza di un certo peso riguardo al rilievo delle operazioni musicali dell’artista che abbiamo avuto la fortuna di ascoltare qualche settimana fa a Bologna. Ora, come si legge nel programma ufficiale del festival, l’“elemento fondamentale della poetica di [Steve] Coleman” – sassofonista e compositore/improvvisatore chicagoano, classe 1956, che da decenni è però di base a New York e che viene definito giustamente uno dei maggiori “esploratori delle possibilità combinatorie dell’improvvisazione degli ultimi tre decenni” – è “il continuo rinnovamento, in una ricerca dai vasti orizzonti esplorativi”. Una ricerca che ha trovato il suo centro, verso la metà degli anni Ottanta, nell’istituzione (insieme a Greg Osby, Robin Eubanks, Geri Allen, Cassandra Wilson e altri), del cosiddetto M-Base Movement, di cui Coleman è stato co-fondatore, con la sua estetica incentrata su una forte, per non dire imperiosa esigenza di rinnovamento nel campo della musica afroamericana. Tra le formazioni guidate da Coleman (il quale, sia detto qui per inciso, da giovane ha anche militato nella band del succitato Dave Holland, incidendo con quest’ultimo cinque cd su etichetta ECM negli anni Ottanta e confermando così la natura di Holland come straordinario scopritore di talenti) spicca probabilmente quello dei Five Elements come main ensemble per le sue attività musicali, con la sua sapiente miscela di jazz, funk, soul, world music. Accanto a esso, però, ha una certa importanza anche l’ensemble più ampio dei Council of Balance, responsabile del disco Genesis nel 1997 e, quasi vent’anni dopo, del disco Synovial Joints (2015). Un disco, quest’ultimo, i cui esiti sonori hanno ricordato molto al sottoscritto quelli dello straordinario disco di Sam Rivers & Rivbea All-Star Orchestra Inspiration del 1999 (disco al quale, forse non a caso, aveva partecipato anche Coleman come solista). Proprio sulle composizioni di Synovial Joints – descritto sempre nel programma del Bologna Jazz Festival come “una musica fluviale, la cui camaleontica orchestrazione crea molteplici stratificazioni sonore”, e sul sito della sua casa discografica come “the most ambitious project of Coleman’s 30-year career as a bandleader” – è stato incentrato in gran parte il repertorio felicemente presentato al pubblico bolognese nella serata del 14 novembre. Anche se, va detto, nel caso di Coleman il termine “composizione” non va intesa in senso troppo stretto, dal momento che una delle peculiarità della sua poetica consiste proprio nella messa in discussione, o se si vuole nella messa in crisi, di ogni rigido dualismo fra composizione e improvvisazione. “I don’t use the term ‘Jazz’. Preferring a more organic approach to music”, spiega infatti Coleman, “I use the term ‘Spontaneous Composition’”. Al Bologna Jazz Festival, come si diceva, Coleman si è presentato dunque accompagnato da una formazione ampia, quasi una big band non convenzionale o, se si vuole, alquanto “sperimentale”, in quanto composta da sax alto, sax tenore, tromba, chitarra elettrica, basso elettrico, batteria e poi accompagnamento/sostegno dell’olandese Doelen Ensemble (flauto, clarinetto, tromba, trombone, quartetto d’archi, contrabbasso, piano e percussioni). Per l’eccellente modo in cui l’ensemble guidato da Coleman è riuscito a realizzare il succitato ideale di fusione, fin quasi all’indistinzione reciproca, del momento compositivo con quello puramente improvvisativo, tra i brani del disco riproposti live per il pubblico di Bologna segnalerei in particolare i quattro movimenti della lunga e intricata Synovial Joints Suite e poi la funambolica Eye of Heru. A spiccare, in particolare, sono state le virtù poliritmiche dell’ensemble, l’avvincente inseguirsi di uno strumento con l’altro in un intreccio che crea un processo dinamico e incalzante di tensioni, risoluzioni e ancora nuove tensioni, e infine la sapiente costruzione basata su incastri mirati tra archi, fiati e percussioni, con effetti tanto sul piano melodico e armonico quanto su quello ritmico e timbrico che, a giudicare dalle ovazioni finali, sono risultati affascinanti per il pubblico bolognese.