Lo spirito e/è il corpo: Leonard Cohen in memoriam.

 

 

 

All’amante offeso e messo da parte balena d’improvviso una verità,

cruda e abbagliante, come quando acuti dolori illuminano l’intero corpo.

Egli riconosce che nell’intimo dell’amore accecato […]

vive l’esigenza della liberazione da ogni accecamento.

Th. W. Adorno, Minima Moralia, § 104.

 

Parte I.

 

“Osserva, il corpo comprende e afferma il significato, lo scopo principale, include e afferma l’anima; / Chiunque tu sia, quanto è superbo e divino il tuo corpo, o ciascuna sua parte! […] Io sono il poeta del Corpo, io sono il poeta dell’Anima […] Canto il vero canto dell’anima”, che coincide pienamente, senza residuo o scarto alcuno, con il canto del corpo. “Ché se il corpo non è l’anima, che cosa dunque è l’anima? […] Se qualche cosa è sacra, il corpo umano è sacro”. Così scrive Walt Whitman in Foglie d’erba, in versi che – aggiungiamo in maniera polemica e insieme ironica – forse andrebbero fatti leggere e imparare a memoria a qualsiasi filosofo della mente o scienziato cognitivo che ancora oggi si attardi a sostenere posizioni improntate a qualche forma di dualismo… E, ancora, in altri versi tratti da parti diverse della medesima grande opera, scrive Whitman: “Canta l’impulso del muscolo e la fusione / Canta il canto della compagna di letto (Oh, l’irresistibile anelito! Oh, per ciascuno e per tutti, l’attrazione del corpo complementare!) […] / Dalla notte un istante emergendo e poi scomparendo, / Celebro te, atto divino, e voi figli, che venite approntati, / E voi, lombi possenti. […] Il sesso tutto comprende, i corpi, le anime, / Significati, prove, purezze, delicatezze, risultati, promulgazioni, / Canti, comandi, salute, orgoglio, il mistero materno, il latte del seme, / […] Tutto questo si trova nel sesso come parte di esso, giustificazione di esso”.

Rileggendo Walt Whitman qualche sera fa mentre, contemporaneamente, riascoltavo alcuni brani di Leonard Cohen, ispirato a compiere tale riascolto dall’evento della recente scomparsa del grande cantautore di Montreal, a un tratto ho operato spontaneamente un accostamento fra i due autori. O, più precisamente, fra i due poeti, essendo stato Cohen, oltre a colui che nel campo della musica rock “ha influenzato i colleghi più di ogni altro songwriter al mondo, con l’eccezione di Dylan”, anche un romanziere e un poeta, se non principalmente quest’ultima cosa: “Poeta anche quando canta, recita, scrive, parla, prega. Perché se la poesia è musica della parola, Leonard Cohen è un poeta a tutto tondo, non solo quando si esprime in versi” (Cotto 1993: 19-20). Come dicevo, ho operato spontaneamente un tale accostamento Whitman/Cohen a partire dalla rilettura delle succitate parti di Foglie d’erba sul corpo e/è l’anima, il sesso e/è il Senso perché, com’è stato scritto immediatamente a ridosso della morte di Cohen, “i due poli entro i quali si dipana la sua complessa produzione poetica, letteraria e musicale [sono] la sensualità e la mistica”: “da un lato, dunque, le donne, l’amore carnale”, e “dall’altro lato Dio”, in un modo così particolare, però, da rendere “impossibile operare distinzioni”, in una sorta di “interscambio [che] è continuo” (De Cataldo 2016: 61). Un interscambio continuo, quindi, che, come indicato nel titolo di questo articolo, spinge a immaginare di poter sostituire la congiunzione con la voce verbale, la “e” con la “è”: il corpo e/è lo spirito, la sessualità e/è la mistica, o anche, facendo riferimento al titolo di un disco di Cohen (Songs of Love and Hate del 1971), l’amore e/è l’odio. Del resto, come vero e proprio elemento essenziale della poetica di Cohen in quanto tale è stato indicato il “superamento di dualismi che hanno sempre come soggetto dominante l’amore”: una poetica in cui “il personale diventa universale” e in cui “il sesso […] è una prova molto prossima all’illuminazione”, “uno dei tanti Hallelujah possibili” (Caselli 2014: 8).

Senza voler arrischiare qui un’interpretazione complessiva dell’opera di Cohen e senza nemmeno volermi spacciare, da semplice ascoltatore appassionato quale sono, per un “Leonardcohenologo” professionista (come vi sono, del resto, i “Bobdylanologi”, i “Frankzappologi”, i “Jimihendrixologi” e via dicendo), ciò che vorrei provare a fare è esaminare questa caratteristica della poetica coheniana, procedendo con un approccio per così dire “micrologico” (riprendendo il concetto in maniera molto libera e, per così dire, poco filologica da Walter Benjamin). Ovvero, focalizzandomi solo su pochi fenomeni particolari, nella convinzione però che essi si possano rivelare capaci di far luce sul contesto e il senso generale. Nella fattispecie specifica, i fenomeni particolari saranno tre brani, solo tre brani, selezionati fra le moltissime composizioni straordinarie di Cohen. I tre brani in questione sono: Chelsea Hotel #2, dall’album New Skin for the Old Ceremony (1974); Paper-Thin Hotel, dall’album Death of a Ladies’ Man (1977); e, infine, Hallelujah, dall’album Various Positions (1984). Il motivo per cui la scelta è caduta proprio su questi tre brani è a sua volta triplice: 1) sono, a mio avviso, fra i brani più belli mai composti da Cohen; 2) sono, soprattutto, fra i suoi brani più rappresentativi della concezione generale che, nel titolo di questo articolo, ho scelto di racchiudere nella formula “lo spirito e/è il corpo”; 3) sono fra i più riusciti nelle reinterpretazioni eccezionali che ne hanno proposto, a loro volta, tre artisti molto più giovani di Cohen, grosso modo coetanei fra loro, appartenenti al gruppo dei musicisti pop-rock più influenti delle ultime generazioni: Rufus Wainwright, Greg Dulli e Jeff Buckley. Tre versioni, queste ultime, che mi hanno accompagnato, emozionato, sostenuto nel corso degli anni e in particolare, per varie ragioni, durante il 2016. Fatte queste premesse metodologiche, procedo con l’analisi: come si dice ai concerti rock, “here we go!”.

Volendo sintetizzare in una sola espressione l’universo poetico-musicale (giacché di questo si tratta: un intero universo contenuto in poco più di tre minuti) di Chelsea Hotel #2 si potrebbe forse dire: “Un pompino, la comunicazione autentica fra le persone e l’autoredenzione dall’oppressione”. “I remember you well in the Chelsea Hotel / […] Giving me head on the unmade bed” è infatti il celebre e piuttosto esplicito incipit della canzone. Ovvero: “Ti ricordo bene nel Chelsea Hotel / […] Me lo succhiavi sul letto disfatto”. Ciò non deve scioccamente scandalizzare né tantomeno stupire, dato che Cohen “era un adoratore delle donne” e, “a differenza di altri cantautori, era molto diretto nel descrivere questa sua adorazione per il genere femminile” (Abley 2016: 90). Molto, molto diretto Cohen, come si può vedere in Chelsea Hotel #2 da quel “giving head” iniziale che fa subito venire in mente il personaggio di Candy, impegnato nella medesima pratica, in Walk on the Wild Side del ben più trasgressivo (o, almeno, comunemente considerato tale) ma, a suo modo, non meno poetico Lou Reed (1993: 67). Molto, molto diretto Cohen, come testimoniato in modo persino brutale, per esempio, dalla poesia I Have Taken You: “Ti ho presa / Ti ho scopata […] / Nulla era negato / Tutto era generosità e fame vera” (Cohen 2012: 79). “I have taken you / I have fucked you” è l’incipit della poesia che, immaginandola idealmente accompagnata da pochi, leggeri accordi di chitarra acustica e la voce profonda e rassicurante di Cohen, suscita un effetto a dir poco straniante, dato che a versi del genere si potrebbe essere più facilmente tentati di associare, quanto a sottofondo musicale, una furia sonora alla Nine Inch Nails (il pensiero, ovviamente, corre subito al celebre ritornello di Closer: “I want to fuck you like an animal / I want to feel you from the inside”).

Ad ogni modo, tornando a Chelsea Hotel #2, nel libretto che accompagnava il disco New Skin for the Old Ceremony (1974) Cohen spiegò che la canzone riguardava una cantante americana morta diverso tempo prima. In seguito, durante un concerto, svelò che la cantante in questione era Janis Joplin, incontrata al Chelsea Hotel mentre in realtà cercava Kris Kristofferson e convinta da Cohen, in assenza di Kristofferson (“Dicesti di preferire uomini belli / Ma che per me avresti fatto un’eccezione”!), a seguirlo in camera per un flirt occasionale. Il brano prende le mosse, pertanto, da un incontro sessuale descritto in termini che ne fanno supporre una certa rapidità, estemporaneità e anche superficialità. A tal proposito, si veda il celebre verso conclusivo del ritornello: “Sei andata via, mai una volta ti ho sentito dire / ‘Ho bisogno di te, non ho bisogno di te’, / E tutte quelle stupidaggini”. Tutto si limita a quello, a un rapporto orale fine a se stesso, non previsto, con un partner diverso da quello originariamente desiderato, senza che ciò generi legami o sentimenti più profondi. E si veda anche l’altrettanto celebre verso finale, in cui Cohen non esita a manifestare distacco e persino un certo cinismo nei confronti della partner sessuale appena rievocata (e, come sappiamo, scomparsa, deceduta, andata via per sempre): “Non voglio insinuare che fossi innamorato di te, / Non posso star sulle tracce di ogni pettirosso che cade. / Ti ricordo bene nel Chelsea Hotel, / E questo è tutto, non ti penso nemmeno molto spesso”.

Eppure la canzone trascende immediatamente questo piano, che ho definito con i concetti di rapidità ed estemporaneità, per elevarsi su un’altra dimensione, che potremmo definire comunicativa e persino spirituale. In altre parole, una dimensione ben diversa dalla prima, solo fisica e superficiale; una dimensione che si muove su un livello, questo sì, molto profondo, cioè riguardante le profondità più nascoste dello “spirito” di ciascun individuo, le difficoltà e gli ostacoli che ciascuno incontra nel proprio esser-così e non altrimenti. In Chelsea Hotel #2 tutto questo trova magnificamente espressione nella confessione del fatto di essere “oppressi dalle figure della bellezza”, di stazionare in una condizione difficile ed esistenzialmente faticosa; il tutto, peraltro, espresso in modo forte, diretto, quasi violento, con un gesto irrefrenabile: “stringendo i pugni (clenching your fist)”, pronti a sbatterli contro qualcosa o qualcuno per la rabbia. Una dimensione spirituale e comunicativa che, però, non si manifesta affatto in disgiunzione con quella esplicitamente carnale della prima strofa, bensì in piena e indisgiungibile unione con essa. Dunque, una sorta di trascendenza nell’immanenza, una profondità nella superficie, un manifestarsi della persona nella sua più piena e dolorosa verità (nel suo “spirito”) che però nella poetica di Cohen scaturisce, e non può che scaturire, dal contatto fisico e corporeo, finanche da quello (apparentemente) più futile. Del resto, “chi si riempie la bocca con la profondità non diviene per ciò profondo”, scriveva provocatoriamente Adorno in Dialettica negativa (1966), l’anno prima dell’esordio discografico di Cohen con Songs of Leonard Cohen. E allora, così come, seguendo No Surrender di Springsteen, si può talvolta trarre maggiore insegnamento da una canzone di 3 minuti davvero appassionante che da anni di studio privi di passione, allo stesso modo verrebbe da chiosare la frase di Adorno dicendo che può esserci maggiore profondità esistenziale in una canzone che prende le mosse da una fellatio sul letto disfatto di una camera d’albergo con un partner occasionale che in alcuni sistemi di metafisica fondati su soggetti astratti, quasi irreali, nel cui corpo non scorre il sangue (riprendendo una celebre osservazione di Wilhelm Dilthey).

Da ciò, infine, in Chelsea Hotel #2 scaturisce un ultimo elemento: il potere liberatorio, emancipatorio, di autentica redenzione (e, anzi, autoredenzione) che solo la musica possiede. Dopo l’ammissione del senso di oppressione causato dal rapporto con i canoni estetici ufficiali imposti dalla società, ecco lo sfogo immediato e così “umano, troppo umano”, della partner di Cohen (che, in quel caso, sappiamo essere Janis Joplin): “Non importa, / Siamo brutti ma abbiamo la musica”. In questo contesto, dunque, la musica come strumento di consolidamento di sé a fronte delle asperità della vita, strumento di comunicazione autentica con chi condivide le proprie difficoltà ma anche i propri doni e talenti, strumento di resistenza al peso dell’oggettività sociale che schiaccia il soggetto, strumento di autoelevazione e persino di salvezza. Quanto alla versione di Chelsea Hotel #2 che, nel film-documentario su Cohen I’m Your Man del 2005 e nella relativa colonna sonora uscita l’anno seguente, ne fornisce Rufus Wainwright(il quale, fra l’altro, ha vissuto per sei mesi al Chelsea Hotel nel 2000 per scrivere le canzoni del suo secondo album e nel 2011 ha concepito una bambina in “parenting partnership” con la figlia dello stesso Cohen, Lorca), credo si possa concordare sul pathos che trasuda dalla sua interpretazione, con un tono dimesso nella prima strofa, un graduale crescendo emozionale che segue il progressivo aprirsi del brano e un vertice su quel “Well, nevermind / We are ugly, but we have the music” che davvero non lascia indifferente l’ascoltatore. Spesso tendente, purtroppo, a perdere la misura col suo “Baroque Pop” e a cadere nel kitsch, qui Wainwright si dimostra invece un interprete attento, molto intenso ma al contempo sobrio e misurato, capace di mettere da parte la propria vena istrionica per porsi completamente al servizio della composizione, per asservirsi alla sua legalità interna.

 


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