2. I servizi della filosofia
2.1 I servizi femminili della filosofia
Abbiamo analizzato nel precedente articolo un terzetto di scrittori inglesi, pressoché contemporanei, i cui servizi sono stati resi durante le due guerre mondiali. Ci proponiamo ora di vedere se si tratta di una prerogativa di genere o se è possibile trovare attività spionistiche più o meno professionali anche fra le donne. Un rapido ricordo delle avventure di Mata Hari, o dell’innominata servetta tracia, ci distoglie subito dal considerare quella di spia una professione esclusivamente maschile. Ecco allora un altro terzetto di scrittrici e filosofe, amiche, colleghe universitarie oxoniensi e in qualche modo ‘spie’: Iris Murdoch, Philippa Bosanquet Ruth Foot e Gertrud Elisabeth Margareth Anscombe. La prima spia per il partito comunista quando lavorava al ministero del Tesoro, la seconda, nipote di un presidente americano (Groover Cleveland) e moglie di un agente del SOE (Special Operations Executive), G.E.M. Anscombe, una delle antesignane sostenitrici di quella che successivamente si sarebbe chiamata interpretazione risoluta di Wittgenstein, per ora, non mi risulta coinvolta in attività di intelligence, e ritengo altamente improbabile che lo sia stata visto il poco diplomatico trattamento che riservò all’ex presidente americano Harry Truman quando la sua università (di Oxford) volle insignirlo di una laurea honoris causa nel 1956. Si può essere filosofi e agenti, ormai lo abbiamo assodato, ma non agenti e critici di presidenti. Ma si veda il seguente giudizio di Mary Wilson Warnock, filosofa oxoniense nonché moglie dell’editore di Austin sir Geoffrey James, che scrive che: “G. E. M. Anscombe avrebbe partecipato ad un seminario dal titolo ‘Things’ dato da Berlin e Austin con l’intento di “spiare” quello che riteneva un gruppo di persone che copiavano le idee del “maestro” [Wittgenstein]. Il che è come dire che una filosofa, non sospettabile di essere una spia, spiava due filosofi che diventeranno, se non lo erano già, delle spie. E che spii, comunque per motivi professionali se la aveva mandata lì Wittgenstein, anche chi non è una spia, depone a favore della necessità ed urgenza della riconsiderazione di una figura esistenziale ingiustamente negletta dalla storia della filosofia. L’analitica esistenziale è piena di esseri angosciati o in cura, di camerieri e di bibliotecari, raramente di spie, che è più figura letteraria che filosofica, o al massimo di interesse per gli studi storici. Eppure la stessa storia della filosofia forse è iniziata con una spia che si lascia sfuggire un sorriso mentre l’Urfilosofo inciampa e cade in un pozzo. La nostra esistenza media quotidiana contempla che tutti noi, in grande o in piccolo, siamo prima o poi come per primo aveva intuito già Robert Musil, sia stupidi sia intelligenti, e cioè spie. Studi sulla stupidità in filosofia in questi ultimi anni sono stati molto numerosi, da Derrida ad Avital Ronell, ad “Ashenden – che – aveva una fiducia incrollabile nella stupidità dell’animale uomo, la quale stupidità, nel corso della sua vita, gli era sempre stata d’aiuto” (pag. 13); studi sullo spionaggio in filosofia e nella letteratura, sullo spionaggio non necessariamente inteso come attività militare professionale, invece no. Eppure le spie fanno la fortuna dei regimi politici, sia di quelli totalitari, come ha dimostrato Franzinelli con Delatori, o come la cinematografia con Le vite degli altri, sia di quelli democratici, come la storia disgraziata di questo paese negli anni sessanta e settanta ha dimostrato.
2.2 I servizi maschili della filosofia
Molti sono anche i terzetti maschili che si potrebbero analizzare, a partire da quello più famoso e scandaloso dei francofortesi Marcuse, Neumann e Kierchheimer, collaboratori prima dell’OSS e poi della CIA, passando per quello statunitense di Quine, Hook e Sellars e per finire a quello francese composto da Bergson, Koyré e Kojève. Ma esclusivamente per questioni di uniformità geografica prenderemo in considerazione il terzetto di Oxford composto dai filosofi analitici del linguaggio ordinario Austin, Ayer e Ryle. Peraltro non gli unici filosofi agenti segreti di Oxford perché non si dovrebbe dimenticare che da Oxford provenivano anche studiosi di storia delle idee, del diritto e di etica come Isaiah Berlin, Herbert L. A. Hart e Stuart Hampshire.
Che tutti quelli che ho nominato abbiano fatto parte per un periodo più o meno lungo ed in tempi più o meno rischiosi di apparati di intelligence non è una supposizione, ma una verità talmente nota, anche se non particolarmente capace di generare finora il dovuto sconcerto, da essere riportata anche su popolari agenzie di informazione come Wikipedia o nella quarta di copertina dei loro volumi. Almeno in Inghilterra e negli Stati Uniti “aver lavorato per il governo”, come si dice in forma ellittica, non costituisce un problema, anzi costituisce una nota di merito supplementare. E che dall’Italia ci si stupisca di ciò è spiegabile solo con la diversa fama di cui hanno goduto i servizi segreti specie nel periodo più compromettente della loro gestione politica del paese, ovvero dagli anni Sessanta agli anni Novanta del secolo scorso. Nel periodo in cui cioè operarono prima il SIFAR, poi il SID, l’UAR, il SISMI e il SISDE. Se mettiamo da parte la singolarità italiana rimane una sola perplessità di fronte alla scoperta della collaborazione dei filosofi con le agenzie di sicurezza e intelligence. La perplessità non riguarda direi il fatto che si può comprendere la collaborazione di un filosofo durante la guerra, per esempio di Marcuse con l’OSS, ma non quello dopo quel periodo. In fondo problemi di sicurezza esistono sempre, anche in tempo di pace o di guerra fredda. La perplessità non è di natura politica ma ideale, culturale, teorica, filosofica. E cioè, può un filosofo, ossia colui che ha un particolare legame e rapporto con la verità, quello che promette di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità, tramare in segreto ed essere fedele anche a chi contempla fra le sue operazioni il depistaggio, lo spionaggio, la violazione dei diritti, le operazioni false flag e forse anche il tradimento, per non dire l’omicidio e le stragi? Chi si impegna a dire la verità costi quel che costi, insomma il parresiaste, può lavorare per l’intelligence? Giocando un po’ con le parole si potrebbe dire che certi servizi, quelli igienici, sono noti anche come ritirate; ed il servizio segreto della filosofia rappresenta una vera e propria ritirata della filosofia, una vera e propria ritirata dalla filosofia, un venir meno dell’impegno filosofico a dire sempre e comunque, quasi kantianamente, la verità. Che cosa c’entrano allora i servizi con la filosofia? È questa la domanda preoccupante e che fa problema, e lo fa più ad un filosofo che ad uno scrittore. In fondo lo scrittore non si impegna come il filosofo a dire la verità (“…principio costante di Ashenden – ottimo nella vita come nel servizio segreto – era quello di non tacere la verità fino al punto in cui poteva dirla…” pag. 12) ed anzi ci chiede fin dall’inizio di sospendere l’incredulità, di credere cioè al falso e all’improbabile. Pertanto a prima vista si può dire che i servizi della letteratura sono tollerabili mentre i servizi della filosofia sono incompatibili. Eppure un legame antico e sotterraneo corre tra intelligence e filosofia. I filosofi sono soliti tradurre con intelligenza il termine greco nous. La sua prima occorrenza si trova in Omero, in un episodio molto noto dell’Odissea, quello in cui il cane Argo riconosce (noein) il suo padrone dall’olfatto. Il primo filosofo però a tematizzare il termine fu Anassagora che lo considerò principio di separazione e perciò di intelligenza, nel senso di comprensione, delle cose. Vennero poi Platone ed Aristotele che lo posero in cima alle attività mentali come forza intuitiva e capacità di cogliere i principi. Dal fiuto all’intuito si direbbe il percorso compiuto dal nous da Omero ad Aristotele. Lo stagirita fu maestro di Alessandro Magno e qualcuno ancora sospetta che ne sia stato il vero spin doctor nella Atene di Demostene. Ma prima di lui, anzi prima ancora che fosse nata la parola filosofia, quello che è considerato, a torto o a ragione, il primo filosofo, Talete dispensava consigli di intelligence prevedendo eclissi e distogliendo dall’intraprendere battaglie o proponendo strategiche deviazioni di corsi di fiumi. In fondo si può dire che l’intelligence nasce prima della filosofia e che quest’ultima da essa è derivata. A testimonianza di ciò è venuta la scuola di psicologia storica francese la quale ha indicato nel legislatore e nel navarca, cioè il comandante della flotta, oggi diremo l’ammiraglio, l’antesignano del filosofo. La filosofia pertanto segue, viene dopo, l’intelligence. E non di sole occupazioni militari era fatta la vita di Talete, bensì anche di intelligence economica, come altro chiameremmo oggi l’affare dei frantoi? Non è forse per questo che Blumenberg considera una spia la servetta tracia che ride vedendo cadere nel pozzo l’agente Talete? L’indefinito delle storie dei primi filosofi permette di immaginare destini e stili di vita forse con troppa disinvoltura, ma ben presto la ricerca della verità si incaricherà di fare piazza pulita dei segreti di cui si nutriva ancora la setta pitagorica. Pitagora, che secondo una tradizione avrebbe coniato il termine filosofia, e poi Platone, che invece lo usa per la prima volta e che organizzava corsi con personale altamente selezionato, fanno fiorire il mito delle dottrine non scritte. Non scritte forse per non lasciare tracce? E che dire, dimenticando tutto quello che di poco chiaro accade in mezzo dalla condanna di Socrate al consiglio di vivere nascosti di Epicuro, da un filosofo che fa carriera diventando imperatore a quelli che si suicidano per obbedienza al potere, di un abile ed astuto diplomatico come Leibniz? Si dimentica forse troppo spesso che pur passando per filosofo, e lo fu senz’altro, quella di Leibniz non è stata neanche per un minuto una carriera da filosofo, tranne forse i pochi giorni o le poche ore trascorse in compagnia di Spinoza. A contatto con duchi, principi, futuri re d’Inghilterra, imperatori e zar, Leibniz ha trascorso la sua vita passando da un fallimento all’altro. È quello che si può autenticamente definire ossimoricamente un fallito di successo. Dalla missione per convincere Luigi XIV a fare una guerra all’Egitto a quella per la Polonia, dal tentativo di impossessarsi delle abilità decrittatorie di Wallis alla più nota vicenda sul brevetto del calcolo infinitesimale con Newton e fino al tentativo durato tutta la vita di scrivere una storia del casato d’Este, quella di Leibniz è una vita di continui fallimenti professionali. Ma per stare sempre sulla breccia ci vuole intelligenza e diplomazia, qualità che a Leibniz non mancarono. L’intelligenza si affina durante la guerra. Churchill e C fanno incetta di intellettuali, logici, crittografi, filologi, studiosi del linguaggio, di Oxford e Cambridge mandando molti di loro a lavorare per l’intelligence a metà strada, a Bletchley. Da lì, dalla baracca 8 di Turing vengono molte delle notizie che permettono ad Austin di organizzare lo sbarco in Normandia assieme con Fleming.
L’impiego di filosofi in tempo di guerra non desta ovviamente problemi. I problemi sorgono quando veniamo a sapere che chi aveva lavorato a Bletchley o altrove per il governo aveva l’obbligo di non riferire quanto aveva fatto. Obbligo imposto direttamente da Churchill attraverso un giuramento. Qualche dubbio invece sorge quando le narrazioni ufficiali ci rassicurano che tutti, finita la guerra, sono ritornati placidamente alle loro cattedre oxoniensi. E questo perché i fallimenti di Leibniz o di Maughan non hanno provocato un loro licenziamento. Chi ha fatto vincere la guerra agli inglesi (Austin e Fleming) sarebbe stato invece prontamente congedato. Possibile per Fleming che sceglie di fare lo scrittore a tempo pieno, ma per Austin accadde lo stesso? Apparentemente sì. Non viaggiò molto, un anno ad Harvard e qualche soggiorno filosofico a Royamont. Ma aldilà di questo è possibile ritrovare nella sua ricerca filosofica una metodologia di indagine appresa durante il servizio militare? Qui ci sono maggiori motivi di certezza. In numerosi punti delle opere sia di Ryle sia di Austin il ricordo del periodo trascorso nell’intelligence appare in modo molto frequente e significativo.