La sociologia in effetti, non è all’altezza dei tempi, e per questo i tempi, mal sostenuti nella loro altezza, cadono e precipitano.
Ortega y Gasset, L’uomo e la gente
La recente pubblicazione da parte dell’editore Mimesis della nuova traduzione di Armando Savignano dell’opera incompiuta di José Ortega y Gasset, L’uomo e la gente (Mimesis, Sesto San Giovanni, 2016), ci permette di continuare a ragionare sull’opera di un pensatore che può suggerire nuove strade da percorrere a patto che si riesca ad uscire dalla nevrosi del riassunto del suo pensiero, dalla citazione occasionale, dalla ricostruzione storico-filologica – quest’ultima certamente necessaria – atteggiamenti che, a lungo termine, rischiano di collocare Ortega nel museo dei pensatori morti.
L’uomo e la gente, così come tutta l’opera aperta di Ortega, contiene lampi d’intuizione geniale, prospettive da sviluppare e approfondire, elementi di critica radicale, noiossissime digressioni ottocentesche, porte aperte sul domani e vicoli ciechi.
È la stessa natura della circostanza orteghiana che rende impossibile utilizzare un testo del passato per analizzare il presente senza prima aver verificato cosa di quel testo è obsoleto e cosa invece, risponde alle esigenze della situazione presente e ancora di più, cosa nella situazione presente deve essere modificato per poter guardare al futuro.
Sottoposte a questo tipo di verifica, alcune affermazioni orteghiane appaiono oggi prive di senso. Impossibile ancora sostenere che: «i libri di sociologia non dicono niente sul sociale, su cosa sia la società. E per di più, non solo non riescono a darci una nozione precisa di cosa sia il sociale, di cosa sia la società, ma anzi leggendo questi libri, scopriamo che i loro autori – i signori sociologi – non hanno nemmeno tentato con un minimo di serietà di chiarirsi loro stessi le idee riguardo ai fenomeni elementari, costitutivi del fatto sociale» (pp. 22-23). Affermazione obsoleta e che lo stesso Ortega dichiara di non poter dimostrare per mancanza di tempo (p. 23). Oggi ci troviamo in un panorama totalmente opposto. I libri di sociologia – e i sociologi che li hanno scritti – hanno scandagliato ogni minimo aspetto della vita sociale, dei suoi elementi costitutivi e forse, siamo giunti a una situazione opposta e paradossale a quella descritta da Ortega: abbiamo così tanto analizzato il particolare servendoci delle più avanzate tecnologie di calcolo e di previsione che spesso ci sfugge il processo nel suo insieme, le sue ragioni teleonomiche.
Tuttavia, nonostante lo sforzo condotto dalle scienze sociali per comprendere la società, quando ci poniamo di fronte alla barbarie del nostro tempo, che sembra impermeabile ai progressi del pensiero, il suggerimento orteghiano ritorna ad essere attualissimo: «una di queste precauzioni, umile – ripeto -, ma imprescindibile, se si vuole che un popolo superi indenne questi tempi atroci, consiste nel far si che un numero sufficiente di persone al suo interno si renda ben conto di quanto e fino a che punto tutte queste idee intorno alle quali si parla, si combatte, si discute e si uccide siano grottescamente confuse e incredibilmente vaghe» (p. 22).
Per Ortega quando l’idea del sociale non è chiara, tutte le parole utilizzate nel gergo comune, nel chiacchiericcio politico di bassa lega, servono solo a impressionare e si trasformano in propaganda, strumento meraviglioso ed efficace per dominare la massa informe.
L’idea del sociale può essere dunque chiara a una élite di studiosi e ricercatori ma questo non significa che ogni singolo individuo possa essere in grado di chiarire in se stesso il significato profondo della società globale in cui vive.
L’uomo di oggi continua tragicamente ad essere esposto ai pericoli che Ortega mette in evidenza, infatti: «ognuno di noi corre sempre il pericolo di non essere il proprio se stesso, l’unico e intrasferibile che è. La maggior parte degli uomini tradisce di continuo il se stesso che sta sperando di essere e, a dire il vero, la nostra identità personale è un personaggio che non si realizza mai completamente, un’utopia affascinante, una leggenda segreta che ognuno conserva nel più profondo del cuore […] la condizione dell’uomo è, dunque, sostanzialmente incerta». (p. 33).
La vita del nostro corpo ci spinge continuamente a scegliere, ad agire a esercitare tutte le funzioni della mente per evitare il pericolo e conservare il nostro essere.
Questo sforzo continuo, instancabile che termina solo con la morte, ci ricorda continuamente la nostra condizione incompleta, insicura, fragile, esposta al rischio.
Di fronte a questo rischio, sprofondiamo spesso in noi stessi per ritrovare la ragione della lotta, l’origine del nostro patire.
Ci ritroviamo soli con noi stessi a ponderare le azioni e a valutarne di nuove. Ed è proprio in questa solitudine radicale che nasce il bisogno d’«incontrare qualcuno la cui vita possa fondersi completamente, amalgamarsi con la nostra. A questo scopo facciamo i più svariati tentativi. Uno di questi è l’amicizia. Ma il più sublime è quello che chiamiamo amore. L’amore autentico non è altro che il tentativo di scambiarsi due solitudini» (p. 55).
La società è per Ortega è data nel «fatto che gli uomini si trovino fra di loro e io fra essi» (p. 151) ma ha una funzione oscurante, che impedisce spesso di prendere contatto con l’autenticità del mio essere presente a me stesso con attenzione perché: «la realtà radicale della mia vita rimane oscurata ai mie stessi occhi da una crosta formata da ciò che ricevo dagli altri uomini, dai loro traffici e dalle loro chiacchiere, e mi abituo a vivere normalmente in un mondo presunto o verosimile creato dagli Altri, e che di norma considero subito autentico e viene ad essere per me la realtà stessa. Soltanto quando la mia docilità nei confronti di quello che gli altri uomini fanno e dicono mi porta a situazioni assurde, contraddittorie o catastrofiche, mi domando cosa c’è di vero in tutto ciò che vedo e sento, ossia mi isolo momentaneamente dalla pseudo realtà, della convenzionalità nella quale vivo insieme agli Altri, e mi immergo nell’autenticità della mia vita intesa come radicale solitudine» (pp. 151-152).
La convenzione del vivere in società a contatto con la gente, con le sue opinioni sommarie, confuse, caotiche, rischia di farci perdere contatto con quella interiorità che ci ricorda continuamente la nostra radicale unicità.
È questa forse la più imprevista delle scoperte di Ortega, il fatto che: «la collettività è si umana, ma umana senza l’uomo, è l’umano senza lo spirito, l’umano senza l’anima, l’umano disumanizzato» (p. 178).
Da questa collettività meccanizzata occorre tutelarsi per conservare quel minimo di vitalità che le circostanze – a volte tragiche – tentano di sottrarci per sacrificarci sull’altare della collettività informe.
Per Ortega «la società non è mai quello che il suo nome promette, perché è sempre in qualche misura, dis-società, repulsione tra gli individui […] Per far si che prevalga un minimo di socialità e, di conseguenza, che la società perduri, è necessario che intervenga frequentemente il suo interno «potere pubblico» in forma di coazione; è necessario arrivare al punto di creare – quando la società si sviluppa e non è più primitiva – un corpo speciale incaricato di far funzionare tale potere in modo incontrastato. E ciò che ordinariamente si chiama Stato» (p. 266).
È nella tensione fortissima tra interiorità e collettività che si gioca la possibilità di una vita autentica, circondata da Tu-amici che ci permettono di riconoscerci e di individuarci. L’uomo può sopravvivere solo se si riconosce nella natura positiva della sua precarietà e grazie ad essa si rende conto della vicinanza con tutti gli altri Io che condividono la stessa condizione.
Allora, nonostante molte delle valutazioni orteghiane risultano essere invecchiate perché le circostanze del nostro tempo sono molto diverse dalle sue, ci appare con altrettanta chiarezza il fatto che Ortega sia riuscito a individuare nella dialettica tra individuo e collettività l’origine del conflitto sociale, la base del disagio della nostra civiltà.
Potrebbe essere utile ancora leggere questo testo perché lo scopo di una sociologia non asservita ai poteri della tecnica, del profitto, del controllo sociale, rimane quello di non accettare lo stato delle cose come irrimediabile ma lavorare con indocilità volontaria per rimettere sempre in discussione il presente.
L’uomo del nostro tempo, l’uomo della società liquida ricerca continuamente una sicurezza – soprattutto materiale – che la turbolenza continua del mutamento sociale non permette mai di raggiungere. In senso orteghiano la società è stata sempre “società del rischio” con dispiacere forse per Ulrich Beck e i suoi seguaci. Essere uomini significa essere in pericolo per Ortega.
Come uscire da questa situazione? Solo vivendo profondamente la propria insicurezza e facendo di essa il motore dell’incontro con l’altro sarà possibile attraversare le circostanze, consapevoli che la condizione umana resta tragicamente e radicalmente incompleta e utopica.
Libertà e responsabilità, impegno civile e ricerca personale e spirituale oscillano tra i due poli dello sprofondamento in se stessi e nello smarrimento nel chiacchiericcio della gente.
Il sociologo di oggi può ancora utilizzare le intuizioni orteghiane per continuare a fare cultura ma come ci ricorda Marco Guzzi nei suoi saggi apocalittici: «La cultura quando è viva, irrompe sempre nella storia come una protesta ineludibile e una proposta sconvolgente, come un giudizio radicale, come una parola che fa saltare in aria gli schemi del passato, e fa tremare di rabbia e di paura tutti quelli che su questi schemi continuano a poltrire e a lucrare stipendi e posti di potere» (M. Guzzi, Dalla fine all’inizio, Saggi apocalittici, Paoline, Milano 2011, p. 15).
Rileggere Ortega allora, non per trovare certezze o per concludere la nota di un nuovo libro ma per continuare a pensare criticamente.