E’ un libro piuttosto singolare quello che Sciascia ha dedicato a Ettore Majorana (La scomparsa di Majorana, Einaudi,1975, ora ristampato dalle edizioni del “Corriere della Sera). In più punti, infatti, Sciascia scrive frasi che, senza che egli sembri rendersene conto, non solo smentiscono o possono smentire la tesi che egli avanza riguardo a quella scomparsa, ma addirittura anticipano o possono anticipare quella che verosimilmente è la verità. Limitiamoci ad alcuni esempi, peraltro non poco significativi. Quanto alla scomparsa, Sciascia propone la tesi della monacazione del giovane fisico, ma non la propone in forma assertiva, cronachistica, bensì in modo romanzesco, così da ottenere l’effetto di affascinare il lettore suscitando in lui dei dubbi su ciò che viene leggendo. E’ proprio vero che Majorana è scomparso perché, travagliato da una profonda crisi, ha cercato conforto nella solitudine e nel silenzio promessi dal chiostro, annullando la propria vita col chiudersi per sempre in un convento e non dando più notizia di sé? La tecnica narrativa di Sciascia è questa: tenersi aderente alla realtà il più possibile e fin che è possibile, dare spazio all’immaginazione quando la realtà lo consente, quando, cioè, è la stessa realtà che ha assunto connotati simili a quelli che solitamente presenta l’immaginazione. Il racconto cresce su di sé, si dilata leggermente, ma non abbandona né tradisce mai il reale. Un narratore meno dotato avrebbe probabilmente preferito il tema eclatante del suicidio, il fiuto e l’esperienza di Sciascia lo conducono invece al tema della monacazione, più facilmente credibile ma, al tempo stesso, più fascinoso, più suscettibile di variazioni. S’intende che la scelta non è dipesa soltanto da ragioni di tecnica letteraria, Sciascia doveva essere veramente convinto che Majorana si fosse nascosto in un convento. E’ giusto però anche supporre il contrario: Sciascia aveva intuito quale era stata la vera scelta di Majorana, ma aveva preferito far prevalere sulla realtà le sue ragioni di romanziere, optando per la monacazione del giovane fisico. Del resto è noto che il tema della monacazione, femminile e maschile, volontaria o forzata, ha un’illustre tradizione nella storia del romanzo.
Ma veniamo a ciò che più ci interessa. Sui rapporti di Majorana con Fermi e con gli altri fisici di Via Panisperna, scrive Sciasca: “Qualcosa c’era, in Fermi e nel suo gruppo, che suscitava in Majorana un senso di estraneità, se non addirittura di diffidenza, che a volte arrivava ad accendersi in antagonismo. E per parte sua, Fermi non poteva non sentire un certo disagio di fronte a Majorana”. Sciascia non precisa le ragioni di questo antagonismo, tranne che riferendosi al carattere molto particolare del giovane fisico siciliano, chiuso, taciturno: “Come tutti i siciliani “buoni”, come tutti i siciliani migliori, Majorana non era portato a far gruppo, a stabilire solidarietà…”. Non è molto, ma è importante questo “antagonismo”, che potrebbe aver contribuito alla scelta finale di Majorana. Molto più importante però è il viaggio che Majorana compie a Lipsia nel gennaio del 1933 e il suo incontro con Heisenberg, il più grande fisico di cui disponesse allora la Germania, forse il maggiore al mondo, colui che ha enunciato il principio di indeterminazione. Ecco Sciascia: “L’incontro con Heisenberg crediamo sia stato il più significativo, il più importante che Majorana abbia fatto nella sua vita: e più sul piano umano che su quello della ricerca scientifica”. Teniamoci per dette queste parole, e cerchiamo di dimenticare che, almeno formalmente, Majorana era allievo di Fermi, con il quale aveva discusso la sua tesi di laurea in fisica. Majorana, nelle sue lettere ai famigliari, mostra che Sciascia, sul punto dei rapporti con Heisenberg, non inventerà nulla: “Ho avuto una lunga conversazione con Heisenberg che è persona straordinariamente cortese e simpatica”; “Sono in ottimi rapporti con Heisenberg”; “Ho scritto un articolo sulla struttura dei nuclei che a Heisenberg è piaciuto molto benché contenesse alcune correzioni a una sua teoria”. Sia dalle lettere sia da alcune testimonianze apprendiamo che Heisenberg ricambia appieno l’ammirazione che il giovane italiano nutre per lui, al punto da citarlo durante un seminario. Quanto al nazismo, Majorana è, secondo Sciascia, “osservatore apparentemente impassibile. Quando si lascia andare a un giudizio, è di generica ammirazione per la Germania, per la sua efficienza”. L’”ammirazione” sarà pur “generica”, ma intanto, quando Majorana si riferisce al nazismo, parla di “rivoluzione” e, scrivendo alla madre, dice “La persecuzione ebraica riempie di allegrezza la maggioranza ariana. Il numero di coloro che troveranno posto nell’amministrazione pubblica e in molte private, in seguito all’espulsione degli ebrei, è rilevantissimo; e questo spiega la popolarità della lotta antisemita […] Nel complesso l’opera del governo risponde a una necessità storica: far posto alla nuova generazione che rischia di essere soffocata dalla stasi economica”. “Generica ammirazione”? Sciascia non se ne accorge, ma sta involontariamente giustificando una parte delle ragioni che saranno alla radice della scelta che poco dopo compirà Majorana. C’è inoltre una lettera a Segrè, citata da Erasmo Recami nel suo libro Il caso Majorana, nella quale il giovane scienziato afferma: “… Non è concepibile che un popolo di sessantacinque milioni si lasciasse guidare da una minoranza di seicentomila che dichiarava apertamente di voler costituire un popolo a sé…”. E’ quasi superfluo precisare che i “sessantacinque milioni” erano i tedeschi non ebrei, mentre “la minoranza di seicentomila” era costituita dagli ebrei di nazionalità tedesca.
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Lasciamo Sciascia e il suo romanzo-verità e teniamo invece conto del fatto che, prima e soprattutto dopo l’uscita del suo libro, nuove indagini, nuove testimonianze, nuove notizie, nuovi articoli, nuovi libri hanno portato nuova luce sulle vicende del fisico siciliano. Di questo materiale, spesso assai utile, a volte sviante, abbiamo, quando fosse il caso, sobriamente tenuto conto. Tanto più che le conclusioni cui sono giunti alcuni non differiscono molto dalle nostre. Vale la pena segnalare il recentissimo La seconda vita di Majorana, di Borello, Giroffi e Sceresini (Chiarelettere, 2016), che non tiene in nessun conto l’ipotesi della fuga di Majorana in Germania, concentrando invece l’indagine su gli anni trascorsi dallo scienziato nell’America del Sud, senza fornire una ragione del suo trasferimento in quel Continente e lasciando un vuoto di circa vent’anni.
Ma che ci faceva Majorana a Valencia, Venezuela, negli anni fra il 1955 e il 1959? La domanda ha una sua legittimità, perché – accertata la presenza del fisico siciliano in quel Paese e in quegli anni dal procuratore della Repubblica di Roma Pierfilippo Laviani sulla base di un’indagine dei carabinieri – è noto che il Venezuela è ricco di petrolio, ma, diversamente da Lipsia, non possiede un Istituto di Fisica di notorietà internazionale, né un premio Nobel che lo diriga. Pensare a un soggiorno turistico della durata di circa cinque anni è semplicemente ridicolo. Per trovare una risposta conviene forse tener conto di certe testimonianze secondo le quali Majorana sarebbe stato avvistato in Argentina già negli anni immediatamente posteriori alla fine della guerra. Torna allora la domanda: che ci faceva in Argentina? Un Paese dove, come a tutti è noto, proprio alla fine della guerra sbarcavano di frequente gerarchi nazisti e scienziati tedeschi aiutati a fuggire dalla Germania da alcune organizzazioni internazionali, fra le quali la Chiesa cattolica. Decidiamoci, allora, a tirare alcune conclusioni, non suffragate da prove, è vero, ma sorrette dalla logica e dall’evidenza. Se si preferisce essere cauti, parliamo di ipotesi. Ma usciamo dal romanzo. Il 26 o il 27 marzo 1938 Ettore Majorana non entra in convento né si suicida. Si rifugia nell’amata Germania, probabilmente a Lipsia, probabilmente con l’aiuto dei servizi segreti nazisti. Ciò che abbia fatto in seguito, si può solo immaginare, non senza però seguire un filo rigorosamente logico. Egli era un fisico teorico, ma la scienza e la tecnologia tedesche erano tutte protese, in quel momento, a cercare di provvedere anche la Germania della bomba atomica. Può darsi che abbia lavorato sotto la guida di Heisenberg, che era anch’egli un fisico teorico. Heisenberg in seguito tentò di giustificare il proprio lavoro al servizio dei nazisti dicendo di aver cercato di ritardare il progetto della bomba. Forse questa giustificazione lo aiutò a salvarsi dalle ire degli Alleati. Ma poi egli era un premio Nobel. Ed era Heisenberg. Majorana, allora, era soltanto Majorana, uno scienziato fra tanti altri scienziati. Forse disponeva, anche solo mentalmente, di progetti segreti, di cifre, di bozze, di schemi che qualcuno non voleva diventassero noti. Qualcuno lo consigliò, o lo obbligò. Forse decise liberamente per suo conto. Fece quello che, prudentemente, fece la maggioranza, si trattasse di gerarchi, di funzionari, di scienziati. E si imbarcò per l’America del Sud.
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Se ciò che abbiamo supposto, o meglio dedotto da certe premesse, corrisponde anche solo parzialmente alla verità storica, non si potrà che pensare che Majorana fosse un nazista. Probabilmente del nazismo non gli importava niente. Scelse la Germania per le esperienze scientifiche e umane che vi aveva fatto e perché era persuaso che la scienza e la tecnologia tedesche fossero le migliori del mondo. Se davvero fu costretto a passare dalla ricerca teorica alla ricerca applicata, alla prassi, probabilmente restò assai deluso. Non sapremo mai, posto che la delusione sia stata veramente il suo destino, se a deluderlo siano stati anche fatti ben più gravi e che con la scienza e soprattutto con la fisica pura non avevano nulla a che fare.