Che il mondo politico contemporaneo sia segnato da una preoccupante crisi delle classi dirigenti internazionali, da una verticale caduta della loro qualità strategica, dal venir meno di figure dalla forte impronta carismatica – carisma derivante anche da fiducia e riconoscimento delle scelte politiche –, è evidente a tutti. Di primo acchito, questo processo ha iniziato a manifestarsi con l’avvio del grande passaggio d’epoca, segnato dalla fine dell’Impero dell’Urss che, chiudendo la stagione pluridecennale contrassegnata dalla lunga soluzione del «problema hobbesiano dell’ordine» (1945-1989: crollo del Muro di Berlino), ha posto il mondo dentro l’orbita di un’inedita e destinale «connessione globale». Globalizzazione che, di là dalle ireniche profezie pseudo-hegeliane sulla «fine della storia», avanzate dallo studioso nippo-americano Francis Fukuyama, ha posto semmai il mondo intero dentro l’orbita di una fase incandescente, segnata dal dominio definitivo dell’Uno – da non intendere come un unico “soggetto politico esclusivo”, imperiale, bensì come l’affermazione di un’unica “logica dominante”. Infatti, di là dalle superficiali letture che nell’avvio del XXI secolo individuavano l’Impero in quell’esclusivo soggetto politico dominante che aveva segnato l’affermazione capitalistica tra fine ‘800 e per tutto il ‘900 (gli Usa), la più rilevante interpretazione della Global Age – Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, Toni Negri e Michael Hardt, Rizzoli 2002 – concettualizzava la forma esclusiva dell’Uno nell’affermarsi di un unico “potere sistemico mondiale”, tale da configurarsi come un inedito campo di neutralizzazione (per dirla con Carl Schmitt): quello tecnico-economico-finanziario. Al punto che la dimensione conflittuale del mondo contemporaneo ha via via preso la forma di una condizione acefala, contrassegnata da quei Grossraum (“Grandi spazi”) – Usa, Russia, Europa, Cina, India, ecc –, in stretta competizione egemonica (economica, finanziaria, politica, ideologica, valoriale, ecc..), dentro una rete che tiene avvitato il mondo in un sistema mosso da un’identica logica/forma valoriale, mentre la politica ha iniziato a mostrare la sua progressiva evanescenza. Fase che stiamo tuttora vivendo e che ci riguarderà probabilmente nei tempi lunghi. Pur volendo evitare semplificazioni o analisi superficiali – non è questa la sede per approfondire il tema –, è evidente che l’accentuarsi parossistico delle strategie e dinamiche del terrorismo islamista tende a far presa proprio nell’idea (ipercomunicativa, persuasiva e ideologica) di voler sconfiggere la logica corruttiva, l’unico valore negativo – ateo e/o cristiano, materialistico, capitalistico ecc – su cui si fonda il mondo occidentale, per riaffermare strumentalmente il valore della religione islamica, irradiandosi e conquistando così adepti dentro il tessuto incerto e smarrito di fasce di giovani islamici cresciuti nelle società occidentali, mentre è evidente la lotta cruenta di settori dell’Islam sunnita contro l’Iran e gli sciiti.
Il “passaggio d’epoca globale” richiedeva inediti strumenti d’analisi, forte discontinuità di visione strategico-politica, l’esigenza di nuovi approcci culturali, che sono invece mancati: il declino delle grandi leadership politiche inizia in questo tornante. D’altra parte, non è proprio la condizione di cul de sac in cui Tony Blair e Bush Junior hanno lasciato il mondo intero con le loro scelte devastanti dell’intervento militare in Iraq – costruite sulla menzogna –, ad attestare la validità del paradigma del declino delle Leadership? Non è un caso che, giungendo all’oggi – nel compimento del ciclo di questa fenomenologia di una politica mondiale in frantumi –, le stesse elezioni americane (con gli Usa, nel bene e nel male, maggiore potenza mondiale), in cui Hilary Clinton e Donald Trump si contendono la vittoria, costituiscano l’esempio più plastico di questa condizione di evanescenza, di assenza di appeal politico-carismatico delle Leadership mondiali. Non che i due candidati siano equivalenti, tutt’altro. Peraltro, attestano la percezione della fine della stagione delle grandi leadership i diffusi orientamenti espressi da settori di opinione pubblica italiana – pur senza alcuna influenza nel voto, il dibattito nel web e in alcuni social network esprime un clima d’indeterminatezza e un orientamento oscillante –, con la loro indifferenza, quando non ostilità, verso la Clinton, considerata espressione delle lobbies delle industrie degli armamenti che influenzano da sempre le logiche delle politiche interventiste degli Usa nel resto del mondo, sino a preferirle il pittoresco e, a tratti, inquietante Donald Trump.
Se è pur vero che il ruolo della Clinton è spesso apparso non all’altezza, o segnato da ambiguità e opacità per molte sue dichiarazioni e prese di posizione – sono pur note le riserve con cui gli ambienti della sinistra più radicale del ‘900 hanno guardato (e giudicato) le ambiguità delle opzioni politico-strategiche dei “democratici” Usa –, quanti mostrano di non condividere la Clinton sono disposti a sorvolare con sufficienza sugli evidenti tratti razzisti, antifemministi e discriminatori verso le minoranze di ogni tipo, espressi a chiare lettere da Trump, come se le sue esternazioni al riguardo fossero un mero epifenomeno, riconducibile al generale ciclo populistico e demagogico senza alcuna conseguenza che in questo decennio oramai sembra aver corroso il rapporto tra politica/istituzioni e opinione pubblica. Anzi, di Trump, tanti ammirano, o enfatizzano gli aspetti del suo ingenuo “programma” neo-isolazionista: vale a dire, propugnatore di una strategia di politica estera statunitense tesa a primo acchito a riportare gli Usa dentro l’alveo della preminenza degli interessi “interni” della Grande isola americana, rispetto alle logiche d’intervento (militare e/o egemonico) nelle turbolenze e nelle faccende complicate degli attuali, inestricabili intrecci mondiali – Medio Oriente; Nord Africa; Europa; Area turca, Israele/vicenda palestinese, ecc.
Come se un’America disposta a tornare a occuparsi degli affari “di casa propria”, sì da dare di sé un’immagine più urbanizzata rispetto a quel volto da capitalismo onnivoro e predatorio – così come criticato dal radicalismo di sinistra – potesse rincuorare e rassicurare un mondo inquieto e turbato dallo scenario da «terza guerra mondiale a pezzi» (secondo l’espressione di Papa Francesco) che stiamo vivendo. Non è un caso che tali posizioni “pro Trump” (anche Facebook, come caleidoscopio multiforme, ne è piena) siano speculari a certo tifo “pro Putin”: dalla vicenda Crimea-Ucraina alla lotta all’Isis, dalla critica all’embargo/sanzioni economiche europee verso la Russia. Certamente, pesa – in questo humus “pro Trump-pro Putin” – l’assenza di una chiara, forte, equilibrata strategia di un’Europa politica, all’altezza delle sfide del nuovo scenario globale, in grado di saper giocare un ruolo attivo, finalizzato a ricreare relazioni istituzionali di chiaro equilibrio tra tutti i principali partner: Usa e Russia in testa, per poter affermare, in un mondo destinalmente globalizzato, relazioni principalmente cooperative più che antagonistiche anche con Cina, India e il variegato e contraddittorio “mondo islamico”, per neutralizzare e spegnere lo scenario incendiario che sembra profilarsi al nostro orizzonte.
Peraltro, ciò rende, da tempo – confermando un’Europa divisa e oscillante, proprio per l’assenza di leader dal forte carisma e ampio “riconoscimento” di autorevolezza –, la stessa Europa politica davvero “ineffettuale”, priva di un’agenda strategica egemonica e sempre a rimorchio degli accadimenti. Sicché, in certo “putinismo per i poveri” – se possiamo dire così –, che s’incrocia e s’intreccia con il tifo per Donald Trump, non ci si accorge del semplicismo e dell’ingenuità politica delle posizioni a favore dei due personaggi, immaginando magari che l’affermazione di Donald Trump – peraltro, molto ben visto da Putin –, con il suo ideologico neo-isolazionismo, possa aprire all’Europa uno scenario politico più libero e più aperto, per poter giocare un ruolo forte e autorevole nell’attuale “spazio europeo”, come se Putin fosse il giovane innocente di un generico “Grande spazio” chiamato Russia, senza pretese egemoniche, senza la voglia (aspirazioni e azioni) di ripristinare – “oltre il Comunismo”, verrebbe voglia di dire ad alcuni amici attardati nella loro inconscia malattia infantile – un ruolo più forte al fine di esercitare un peso e un’influenza geopolitica ancora più ampia. In altri termini, il ruolo di un autocrate furbo, stratega “a-democratico” e senza scrupoli, che sta giocando la carta di guida di una Russia più potente in questo scacchiere europeo, in cui riemergono fantasmi nazionalistici che rischiano di riaprire umori inquieti, instabili e insicuri, pur a distanza dal crollo del vecchio Bastione sovietico.
La ragionevole ideologia attraverso cui Donald Trump lancia messaggi di riscatto, orgoglio e, simul, rassicurazione al popolo americano, sembrerebbe ispirarsi all’idea balzana di voler ripristinare una sorta di “Dottrina Monroe”, rovesciando quella deriva paninterventista che l’aveva connotata tra fine ‘800 sino ai nostri giorni, per farle riassumere la sua originaria ispirazione isolazionista, riveduta e corretta di fronte ai mutamenti e sconvolgimenti della global Age: in altri termini, come ri-delimitazione dello spazio americano, sottratto non tanto a quei rischi d’ingerenza esterna sul proprio suolo – ciò aveva un senso nel 1823, quando la Dottrina Monroe sanciva proprio la fine definitiva di tali ingerenze esterne da parte delle potenze europee –, bensì per porre un forte No alle pressioni immigratorie sui propri confini (con paesi del centro e sud America, anch’essi alle prese con problemi di instabilità politica ed economica), e inoltre per sancire un’inedita indifferenza – secondo la nuova posizione promessa da Trump –, rispetto a interventi e presenze Usa nelle turbolenze sempre più inquietanti che infestano la rete globale del mondo contemporaneo. Non vi è chi non veda come questa strategia di Donald Trump sia solo la foglia di fico persuasiva, attraverso cui egli intende neutralizzare quell’inquietudine che serpeggia tra segmenti significativi di una società americana che inizia ad apparire ossessionata da accresciute esigenze di sicurezza. E certamente, in un mondo più piccolo e ravvicinato per la sua inestricabile rete globale, non può essere Trump la svolta per un mondo più pacificato.