UN PAPA ALLA FINE DEL MONDO – I
Una genealogia escatologica di papa Francesco
Dark Ages
shaking the dead
Closed pages
better not read
Cold rages
burn in your head
Jethro Tull, Dark Ages.
Quando, affacciandosi alla finestra di piazza San Pietro, uno Jorge Mario Bergoglio appena asceso al soglio pontificio disse che il conclave era andato a scegliere un papa «alla fine del mondo» stava facendo una semplice nota di carattere geografico. Le paranoiche interpretazioni che quelle poche parole hanno scatenato nei complottisti sono infondate. L’escatologia è però una componente essenziale della visione del papa sul nostro tempo. Senza pretendere di attribuire al pontefice gesuita letture che non sono le sue, cercheremo negli appunti che seguono di riavvolgere uno dei fili del suo pensiero. Così facendo risaliremo l’albero di una genealogia escatologica che attraversa alcuni dei più profondi autori cristiani dell’ultimo secolo.
Prima d’iniziare diamo la parola al papa. In diverse occasioni Bergoglio ha sottolineato come la Chiesa debba farsi nuovamente carico della propria missione profetica. L’appello può sembrare vago a chi non abbia familiarità con messe e turiboli, ma costringe i membri della Chiesa stessa a confrontarsi con la parte più scomoda e meno digeribile delle Scritture: Apocalisse. Essere profeti oggi significa testimoniare la venuta del Regno, un evento che non si colloca soltanto in un mitico aldilà, ma secondo il pontefice illumina il futuro attraverso valori incarnati nella vita presente.
In “Svegliate il mondo!”, trascrizione del colloquio del pontefice con i Superiori generali riportato da “La Civiltà Cattolica” nel 2013, Bergoglio definisce nei termini che seguono la missione dei consacrati: «Svegliate il mondo! Siate testimoni di un modo diverso di fare, di agire, di vivere! È possibile vivere diversamente in questo mondo. Stiamo parlando di uno sguardo escatologico, dei valori del Regno incarnati qui, su questa terra. Si tratta di lasciare tutto per seguire il Signore. No, non voglio dire “radicale”. La radicalità evangelica non è solamente dei religiosi: è richiesta a tutti. Ma i religiosi seguono il Signore in maniera speciale, in modo profetico. Io mi attendo da voi questa testimonianza. I religiosi devono essere uomini e donne capaci di svegliare il mondo». Più avanti nello stesso discorso, il papa ribadisce quale sia la priorità della vita consacrata: «La profezia del Regno, che non è negoziabile. L’accento deve cadere nell’essere profeti, e non nel giocare ad esserlo. Naturalmente il demonio ci presenta le sue tentazioni, e questa è una di quelle: giocare a fare i profeti senza esserlo, assumerne gli atteggiamenti. Ma non si può giocare in queste cose. Io stesso ho visto cose molto tristi al riguardo. No: i religiosi e le religiose sono uomini e donne che illuminano il futuro». Le parole del pontefice riportano al centro la concezione lineare, finalistica del tempo cristiano, rinnovando l’ansia e l’esaltazione con cui le comunità degli Atti degli Apostoli attendevano la venuta del Messia.
Da dove partire per trovare il primo anello della nostra genealogia? Più di qualcuno ha notato l’affinità fra l’enciclica “Laudato si'” del pontefice e il pensiero di Alex Langer (1946-1995). Basta scorrere i suoi scritti per trovare conferma. Nel 1989 lo scrittore e politico originario di Sterzing-Vipiteno, ex comunista approdato al cattolicesimo in età adulta, auspicava una «conversione ecologica» mondiale: «Preferisco usare questa espressione – scrive Langer -, piuttosto che termini come rivoluzione, riforma o ristrutturazione, in quanto meno ipotecata ed in quanto contiene anche una dimensione di pentimento, di svolta, di un volgersi verso una più profonda consapevolezza e verso una riparazione del danno arrecato. Inoltre nel concetto di “conversione” è meglio implicita anche una nota di coinvolgimento personale, la necessità di un cambiamento personale ed esistenziale».
Possiamo ipotizzare che l’affinità dell’enciclica al pensiero di Langer derivi dalla frequentazione, da parte di Bergoglio, di un autore che di Langer fu maestro e interlocutore: il filosofo e sociologo Ivan Illich (1926-2002). Come il futuro papa, Illich era un gesuita e operò a lungo in America latina, entrando peraltro in forte contrasto con le massime autorità ecclesiastiche. Se Langer era nato nel Tirolo meridionale da padre ebreo viennese e da madre italiana, Illich era un viennese figlio di padre croato e madre ebrea sefardita. Non lo specifichiamo per puntiglio biografico: la presenza del pensiero ebraico, ovvero della religione abramitica di più ardente fede messianica, può aver influenzato la sotterranea sensibilità escatologica di ambo gli autori. Dei due soltanto Illich, alla fine della sua vita, ammise di concepire i giorni nostri come un tempo apocalittico. Critico durissimo della modernità scevro da ogni reazione antimoderna, il gesuita viennese è stato da molti avvicinato all’anarchismo cristiano, e la sua visione ecologista ha influenzato a fondo quella di Langer. Fino all’ultimo, però, ha evitato di trattare l’argomento della contemporaneità in termini religiosi.
Nell’intervista-testamento “I fiumi a nord del futuro” Illich affronta il tema di petto e dice al suo interlocutore David Cayley: «Io non credo (…), come fanno alcuni, che questo sia un mondo post-cristiano. Sarebbe consolatorio. Credo piuttosto, anche se ho qualche esitazione rispetto al termine, che sia un mondo apocalittico. Proprio all’inizio della nostra conversazione abbiamo parlato del mysterium iniquitatis, il mistero del male, un male altrimenti impensabile, inimmaginabile e inesistente, che nidifica e depone il suo uovo all’interno della comunità cristiana. Usammo allora quella parola, Anti-Cristo, l’Anticristo che assomiglia in così tante cose a Cristo, che predica responsabilità universale, concezioni globali, umile accettazione di quel che viene insegnato anziché personale ricerca della verità, guida attraverso istituzioni». E ancora: «Io sostengo che il mysterium iniquitatis ha covato a lungo. So troppo della storia della Chiesa per dire che proprio adesso stia rompendo il suo guscio, ma oso dire che oggi è presente più chiaramente di quanto lo sia mai stato prima. È quindi completamente sbagliato attribuirmi l’idea che questa sia un’era post-cristiana. Al contrario, credo che la nostra sia, per paradosso, l’epoca più esplicitamente cristiana, che potrebbe essere molto vicina alla fine del mondo».
Nello stesso libro Illich parla dell’influenza che ha avuto su di lui la lettura delle opere del teologo ligure Sergio Quinzio (1927-1996), con cui intratteneva uno scambio epistolare. Un uomo per certi aspetti reazionario, per altri a un passo dal nichilismo. La cupa visione del mondo di questo eretico innamorato dell’ortodossia ci consentirà, nella seconda parte di questi appunti, di risalire la nostra corrente escatologica fino alle nevi della Russia degli ultimi cesari.
Un’attesa durata duemila anni
It’s the end of the world as we know it, and I feel fine
R.E.M.
La falsa gnosi. La definizione paolina ripresa dall’eresiologo Ireneo di Lione, agli albori del cristianesimo, è cara tutt’oggi ai tradizionalisti cattolici contemporanei. I reazionari figli di De Maistre vedono nell’intero processo della storia moderna l’ennesima incarnazione del primo nemico dottrinale della Chiesa: la gnosi. Per costoro gnosi è l’illuminismo, il pensiero scientifico, la democrazia, il marxismo, il femminismo e tutto quanto gli ultimi due secoli abbiano portato in dote all’Occidente. Contro questa peste del pensiero che tutto corrode, la Chiesa si erge come unico baluardo di purezza: la Tradizione, rigorosamente maiuscola, è preservata dalla decadenza grazie alle liturgie e alle gerarchie, al fasto e al dogma. Il tradizionalismo è radicato in una concezione ciclica del tempo, più o meno conscia: tradizione è ripetizione, la Chiesa è custode dell’eterno, di ciò che mai muta ed è immune ai rivolgimenti della storia.
Per il teologo ligure Sergio Quinzio (1927-1996), che abbiamo raggiunto nella prima parte di questi appunti risalendo un’ipotetica genealogia escatologica del pontefice, le cose stanno diversamente. Il tempo cristiano in Quinzio è lineare e finalistico. Le verità delle Scritture non hanno carattere atemporale: descrivono il processo storico della chenosi di Dio, lo svuotamento della potenza divina descritto dalla Cabala. Nel suo monumentale “Commento alla Bibbia” il teologo segue il rapporto di Dio con il popolo ebraico, riscontrando nel susseguirsi dei testi la scomparsa della potenza divina dal mondo. Quinzio vede nell’incarnazione il fine ultimo e il culmine dello svuotamento: dalla luce della Genesi la salvezza si riduce a un minuscolo punto nello spazio e nel tempo, l’uomo Gesù. Questi compare in Palestina annunciando la prossima fine del mondo. L’annuncio del profeta-Dio risponde infine alle domande di Giobbe: con la pienezza dei tempi sarà spazzata via la sofferenza, giungeranno un nuovo cielo e una nuova terra.
Scrive Quinzio nel “Commento”: «(…) essendosi fatto Dio, in Gesù vivente e mortale, prossimo dell’uomo non esiste più un amore per Dio separato e diverso dall’amore per il prossimo. Ma questa scomparsa del Dio trascendente (Sal 123, 1-2), poiché di fatto è lontano da noi anche il Dio amico e fratello che era venuto, è una perdita infinita. Questo è il nodo della tragedia cristiana: di aver tutto annientato restringendo tutto nel punto dell’unica salvezza, la quale poi è fuggita».
Gesù muore. La crocifissione è un abominio che secondo Quinzio è blasfemo considerare parte del piano divino. Il punto a cui s’era ancorata la salvezza scompare dal mondo per tre giorni, il cielo resta vuoto. La resurrezione apre uno spiraglio di speranza, l’ultima promessa di Gesù è che lo spettacolo di marionette del mondo sta per finire. Quella promessa è tutto ciò che resta al cristiano per affrontare il perdurare: non c’è alcun Dio trascendente, alcun ordine sacro che possa confortare l’uomo in un universo ostile e insensato. C’è solo la speranza che l’annuncio si compia, che Dio non sia sconfitto dal mondo e venga a liberare i suoi figli dalla sofferenza e dalla morte. Che venga il Regno.
I duemila anni successivi, secondo il nostro autore, non sono che la perversione di questa speranza. Mentre i secoli si accavallano sulla promessa che non si compie mai, la storia tenta di realizzare il Regno in assenza di Dio: in questo senso la modernità è figlia della fede ebraica-cristiana. Sviluppo anticristico per eccellenza, i suoi effetti sulla vita degli uomini sono «buoni» ma tremendo è il loro corollario. Per Quinzio il processo che rende la vita più tollerabile non elimina lo scandalo del male, finisce anzi per perpetuarlo. La Chiesa, giustificando l’oppressione dall’alto della tradizione, è partecipe di tutto ciò, pur essendo custode della Scrittura e quindi della speranza. La modernità non è quindi gnosi, è frutto di una perversione bimillenaria del cristianesimo la cui cifra è l’ambiguità.
Nel suo ultimo libro “Mysterium iniquitatis”, Quinzio immagina le encicliche dell’ultimo papa annunciato dalla profezia di Malachia, Pietro II. Il testo si conclude così: «Pubblicata l’enciclica che sancisce la fine del cristianesimo come suo ultimo possibile significato, Pietro II sale all’interno della cupola di San Pietro, legge nella notte illuminandole con una lampada le parole scritte tutt’intorno alla sua base: “Tu es Petrus et super hanc petram aedificabo ecclesiam meam et tibi dabo claves regni coelorum”. E cade all’incrocio dei bracci della croce, nel luogo dei falsi trionfi, là dov’è anche sepolto il pescatore di Galilea. Allora “ci fu un grande terremoto, di cui non si era mai visto l’uguale da quando gli uomini vivono sopra la terra. La grande città si squarciò in tre parti e crollarono le città delle nazioni. Dio si ricordò di Babilonia la grande, per darle da bere la coppa del vino del furore della sua ira. E tutte le isole fuggirono, e i monti non si trovarono più” (Ap 18, 16-20)».
Quinzio non è il primo a pensare un romanzo della fine del mondo in epoca moderna. Il precursore di “Mysterium iniquitatis” è un altro libro, il cui autore è l’origine della nostra genealogia escatologica: il profeta russo dell’Apocalisse, Vladimir Soloviev (1853-1900).
Filosofo e amico di Dostoevskij, Soloviev inseguì per decenni l’illusione dell’impero cristiano. Nell’ultima fase della sua vita cambio idea e rinnegò come un incubo l’idea di un «leviatano teocratico»: nel 1900, anno in cui morì, pubblicò un libro, “Tre dialoghi e il breve racconto dell’Anticristo”, che avrebbe dato frutti negli ambiti di pensiero più disparati del secolo allora nascente. Tracce della visione escatologica esposta nel “Racconto” si trovano in Alexandre Kojève, teorico ateo della fine della storia, nell’esistenzialista ebreo russo Lev Šestov, considerato un maestro da Benjamin Fondane e da Emil Cioran, oltre che nei già citati Sergio Quinzio e Ivan Illich.
Soloviev immagina un Ventesimo secolo squarciato dai conflitti, mentre agli albori del Ventunesimo prevede l’avvento di un «uomo del futuro» destinato a risolvere i problemi del mondo: all’età di 33 anni il protagonista del libro è autore di un’opera salvifica intitolata “La via aperta verso la pace e la prosperità universale”, e grazie alla sua teoria rivoluzionaria viene innalzato alla guida degli Stati uniti d’Europa. Da lì, attraverso le sue doti filantropiche e le sue elevate qualità spirituali, giunge alla pacificazione del mondo e alla soluzione di tutti i problemi sociali, conciliando individualismo e comunità, fede e scienza. Inutile dire che per Soloviev l’efficacia della cura per i mali del mondo non inficia, semmai conferma, il suo carattere di impostura: è soltanto il preludio a nuovi massacri. Per l’inevitabile conclusione apocalittica rimandiamo all’opera.
Essendo un raro caso di ortodosso favorevole al primato del papa, Soloviev è un autore molto apprezzato in ambito cattolico. Non è da escludersi che rientri tra le letture del gesuita Bergoglio. La contemporaneità offre all’occhio del cristiano molte ragioni per pensare, con Ivan Illich, che il mysterium iniquitatis oggi sia «presente più chiaramente di quanto lo sia mai stato prima». Tutte le grandi religioni monoteiste poggiano su tre poli: profezia, tradizione, mistica. Riportando la profezia al centro di una Chiesa da tempo arroccata sulla tradizione, il cristianesimo di Francesco si pone in contrasto con il perturbante che pervade il nostro tempo. Un tratto evidente anche a chi cristiano non è. Invece del rifugio in un’eternità trascendente, il pontefice chiama all’azione nella storia, entrando in collisione con quelli che Paolo chiama «i dominatori di questo mondo di tenebra».
Massimo Cacciari in “Il potere che frena”, il suo saggio di teologia politica sulla figura del katechon, parla dell’avversario (l’Antikeimenos): «Il momento dell’Antikeimenos non è (…) quello della Tirannia più o meno feroce, bensì quello dell’autonomizzarsi delle sfere di potenza e del confliggere tra di loro alla ‘luce’ dell’apostasia. I diversi domini – economico, finanziario, politico, giuridico, tecnico-scientifico – competeranno tanto più duramente, quanto più comune si farà la loro Weltanschauung (che è quella del sistema mondo, in tutta la sua strutturale aporeticità)». Ciò porterà a nuove «trasformazioni» di cui ancora non è dato di sapere. Conclude Cacciari: «Ciò che la crisi permanente permette oggi ragionevolmente di affermare è che da esse non emergeranno nuove potenze catecontiche. Emergeranno forse ‘grandi spazi’ in competizione, ‘guidati’ da élites che, pur in conflitto tra le loro diverse potenze, sono caratterizzate tutte dalla insofferenza assoluta verso qualsiasi potenza che trascenda il loro stesso movimento. Unite soltanto dalla comune apostasia rispetto all’Evo cristiano». Se il potere che frena è tolto, secondo gli scritti paolini, la fine è imminente. È un saggio a modo suo profetico, quello di Cacciari. Fu pubblicato nel gennaio del 2013. Il mese successivo Benedetto XVI avrebbe annunciato la sua rinuncia al ministero petrino.