Post-strutturalismo e politica

 

 

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Nel milieu intellettuale francese – tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento – nasce e si sviluppa il post-strutturalismo, una corrente di pensiero destinata a lasciare una traccia indelebile non solo nel pensiero filosofico tout court ma anche nella sociologia, la psicologia, l’antropologia e la critica letteraria. Essa si propone – soprattutto sulla scorta della polemica di Nietzsche verso la ricerca di un fondamento ultimo – di oltrepassare e non di contrapporsi allo strutturalismo dichiarando, da un  lato, la morte dell’Uomo, del Soggetto e, dall’altro, la contestuale rinascita della differenza, della singolarità e dell’alterità. Al di là dei distinguo, possono essere ascritti nel novero del post-strutturalismo, sicuramente Foucault, Deleuze e Derrida, il cui discorso filosofico andando ben al di là degli angusti recinti disciplinari verte sulle grandi questioni delle Libertà e del Potere comportando sempre delle implicazioni politiche. Su questo aspetto spesso sottovalutato si snoda l’agile e denso volume di Ruggero D’Alessandro, Francesco Giacomantonio, Post-strutturalismo e politica. Foucault, Deleuze, Derrida (Morlacchi, Perugia, 2015, pp. 113, euro 14,00), in cui i due studiosi evidenziano come un pensiero che, pur non occupandosi istituzionalmente di concetti e teorie politiche, possa incidere, direttamente o indirettamente, sulla sfera politica intesa nella sua dimensione tragica ponendo continuamente interrogativi, dubbi o interpretazioni unilaterali che riducono l’uomo a forme rigide e schematiche di soggettività.

Se il merito di Foucault sta nell’aver indagato il ‘politico’ dal punto di vista storico attraverso l’analisi dell’indissolubile legame tra Sapere e Potere, inteso quest’ultimo nella sua dimensione molecolare e scomposto dunque nelle sue molteplici sfaccettature: l’aspetto violento e brutale del vecchio Potere che come un bisturi nelle mani di un valente chirurgo incide in profondità i corpi dei devianti, dei marginali, degli anormali e l’aspetto docile e paterno del nuovo Potere disciplinare che come il guardiano nascosto nell’ingegnosa struttura della torre centrale del Panopticon sorveglia a distanza i prigionieri rendendosi invisibile e proprio grazie a tale dote rafforza il suo potere di controllo. Al tempo stesso, nel delineare un pensiero radicalmente critico nei confronti della governamentalità neoliberale, la cui essenza è rintracciabile nell’ordoliberalismo tedesco che si differenzia dal liberalismo poiché riconosce allo Stato, contrariamente alla logica del laissez-faire, non più un ruolo meramente passivo ma propulsivo, Foucault immagina uno scenario in cui si è liberi dall’assoggettamento non mancando di sottolineare però come, in alcuni casi, dietro la seducente maschera della Libertà possa nascondersi il volto terribile di un Potere dispotico ed autoritario.

La riflessione di Deleuze, invece, pur concentrandosi come quella foucaultiana sulle strutture sotterranee che pensano illusoriamente di sottrarsi alla dimensione ingombrante del Potere se ne distacca in quanto accanto alla dimensione molecolare del Potere cerca di scrutare anche quella molare. Ne deriva che la politica risulta dall’intreccio inestricabile tra queste due dimensioni, cioè la fusione continua tra i flussi, la massa, i segmenti e le classi. In questo senso, Deleuze che «porta la storia della filosofia nella critica sociale considerando i movimenti e la politica dal basso» concepisce la filosofia non come un’attività meramente contemplativa ma creativa di concetti, avente sempre un contenuto politico, in quanto i concetti nella loro mutevolezza e dinamicità sono grimaldelli per scardinare il Potere ovunque esso si annidi. La politica diventa così il terreno dove emergono contraddizioni, a volte, insanabili ma anche il luogo dov’è possibile sperimentare, grazie alla capacità trasformativa dei movimenti minoritari, che incuneandosi negli interstizi del Potere, oltre a creare innumerevoli crepe e fratture al suo interno che prima o poi possano determinarne il crollo, una forma di pensiero alternativo che possa liberarsi, una volta per tutte, dalla prigione economica che finora ha appiattito l’uomo riducendolo alla sola dimensione strumentale.

Derrida, da parte sua, si muove ai bordi del ‘politico’ svelandone, grazie alla sua opera di decostruzione, l’intima contraddittorietà o ambivalenza nel mondo contemporaneo. Nella Globale Zeit, infatti, la sfera politica ormai non può più essere ancorata alla ristretta dimensione nazional-statuale; allo stesso modo, la cittadinanza, ben lungi dal rimanere confinata in tale ambito, deve assumere non più una connotazione territoriale ma cosmopolita. Sulla base di tali assunti Derrida elabora la sua riflessione sulla democrazia a venire che si sottrae appunto ai tradizionali concetti che caratterizzano la società occidentale, ovvero la preminenza del razionalismo, dell’elemento maschile, del legame di familiarità e fratellanza, della nascita e della nazione, ma che contiene in sé un’aporia autoimmunitaria: mentre la democrazia è per definizione votata all’accoglienza degli esclusi, nello stesso tempo comporta la chiusura ai “cattivi cittadini”, ovvero a chi appartiene alla categoria del diverso, dell’altro da sé. Solo se la politica dunque riesce ad eliminare o quantomeno a ridurre la dimensione permanente del conflitto valorizzando quella del debito, della gratitudine, il cosmopolitismo, la democrazia universale, la pace perpetua potranno prima o poi realizzarsi: “senza libertà – puntualizza Derrida – non c’è ipseità e non c’è ipseità senza libertà”.

 

Riccardo Cavallo

Professore a contratto

di Filosofia del Diritto

(Università degli Studi di Brescia)

 

 

 


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