A due anni il bagnino della spiaggia mi insegna a nuotare, a quattro il nonno a remare, a sei il padre a giocare a basket, a sette inizio a sciare, a otto a andare in barca a vela. Tutto ciò si tramuta presto in una qualche sorta di agonismo, da far sorridere rispetto all’agonismo estremo ed esasperato dei nostri giorni. Nel frattempo, da bimba nata nel 1963, mi applico diligente allo studio e, a mia insaputa, seguo la sapienza degli antichi greci (concretizzatasi ad Olimpia, ove si misuravano i migliori atleti del tempo), sapienza che loda la competizione sportiva pure nell’arte, nella letteratura, nella filosofia. Dopo i dieci anni proseguo con la pratica agonistica, a cui, nel frattempo, annetto, curiosa, gli sport: calcio, pallavolo, ping-pong, tuffi dal trampolino e dalla piattaforma, recandomi a letto presto con qualche classico: con Virginia Woolf che mi consegna uno spirito snob e ribelle – in molti sensi del termine – a differenza dei conformistici ’68 e ’77. Eccentrica, all’epoca, a causa di questa mia concomitanza di sport e intellettualità, in cui non distinguo tra sport “minori” e sport “maggiori”, su cui oggi, invece, si insiste. Ed eccentrica procedo: a vent’anni, in montagna, con zaino e tenda, e per rifugi, a camminare per settimane, con Thomas Bernhard; a trent’anni, a specializzarmi a Londra, in filosofia: percorro Charing Cross Road e acquisto romanzi, saggi, poesie – i miei, e me ne dispiaccio ancor ora – mi avevo vietato di tentare la professione di skipper oceanico. La vela: sport “minore” o “maggiore”? Dipende da molteplici fattori. Da parte mia, lo giudico, non senza orgoglio, tra gli sport “minori”, specie se praticato su derive. Sport faticoso, impegnativo, con poco e molto vento, ove occorre padroneggiare e prevedere “avversari” improvvisi (venti, mari, correnti, e via dicendo): conoscenza, esperienza, fisicità, modestia, rispetto, tecnica – questo è da intendersi per agonismo.
Quindi mi sono sempre esentata dal praticare quell’agonismo estremo, che incide a tal punto sulla tua psiche e sul tuo corpo da renderti presto vecchia o vecchio, e non necessariamente in senso maturo: si può essere al contempo vecchi e adolescenziali. Del resto, in quanto filosofa razionale, risulto allergica alle dittature di ogni genere, mentre lo stesso non avviene nel settore dell’agonismo estremo. Basti ricordare quanti atlete/i, per ragioni più che menomate, non si sono recati in Cina, dittatura inclemente e capitalistica, che si mostra e si nasconde soprattutto a Pechino. Quanti? E, purtroppo, l’agonismo estremo è venuto a dipendere fino tal punto dalle dittature estreme che in pochi, tra atlete e atleti, possono concedersi di esprimere pubblicamente, pure in paesi democratici, le loro proprie opinioni, specie se politiche, sempre che ne abbiano.
In molti, troppi stanno ormai glorificando le Olimpiadi di Rio. Come se atlete e atleti, pure quelli obbligati a casa in quanto non convocati, avessero assunto la figura di santoni, a cui tutto deve venir concesso: in realtà, stiamo parlando di adolescenti (anche quando vanno per i trenta o quarant’anni) che in caserme sottopongono il loro corpo ad allenamenti distruttivi, per essere inviate/i al fronte, sotto il comando di un generale, per lo più maschio, e allora perdoniamogli ogni “bizzarria” e ipocrisia: tra non poco questo loro corpo perfetto si ridurrà a una carcassa agghiacciante, a tal punto da agghiacciarti il cervello – fatto di cui la bimba del ’63 non soffre affatto, pur continuando a praticare ben più di uno sport e a fare filosofia. E già a luglio, da mera dilettante, sta progettando belle vacanze invernali nella Svizzera Tedesca, per sciare su piste nere dalle otto del mattino alle 16 pomeridiane, anche a venti sotto zero. Eppure questa non è esasperazione, bensì pura passione.
Passione sportiva, null’altro. Invece, l’atleta, ancor “giovane” si ritirerà con amanti e badanti, proseguendo con la medesima cantilena “Non accetto ordini da nessuno”, quando, invece, ha trascorso anni e anni a ubbidire ad allenatori, manager, sponsor, fans e via dicendo.
Amanti etero, o amanti gay (se sei un uomo) e lesbiche (se sei una donna). Chissà. Non vi è più il coraggio e neanche la cultura di dichiararsi, con l’accortezza di evitare eccessive banalità e gossip. Così risultano davvero remoti i tempi di una Martina Navrativola o di una Amélie Maursesmo, mentre ben più vicini quelli dell’affaire Mancini/Sarri, che attesta quanto rimanga, perlomeno in Italia, assai spinoso e pericoloso (gli sponsor ti abbandonano) parlare apertamente di una sessualità non stereotipata. Del resto, in pochi anni ci si “gioca” tutto. E anche per tale ragione si ricorre facilmente al doping.
Su Repubblica del 17 luglio scorso leggiamo: “Sembra di essere tornati ai tempi della guerra fredda, nel segno del doping: Usa contro Russia, in nome dello sport pulito. Lunedì, secondo quanto scrive il “New York Times”, il Cio potrebbe escludere tutte le nazionali russe, quindi non solo quella dell’atletica, dall’Olimpiade di Rio, assecondando la richiesta delle agenzie antidoping di dieci paesi, fra i quali Usa, Canada, Germania, Spagna, Giappone e Svizzera e quella che di un gruppo di oltre 20 atleti di cui non vengono fatti i nomi”. E, sempre Repubblica del 18 luglio scorso riporta: “Cento pagine che inchiodano la Russia. Fu doping di Stato: i laboratori di Mosca e Sochi coprirono una serie di atleti russi risultati positivi durante i Giochi Olimpici invernali di Sochi nel 2014. L’accusa è pesantissima e viene dalla Wada (agenzia mondiale antidoping), contenuta in un report di una Commissione indipendente chiamata ad indagare sulle accuse al colosso dell’est. Ma il problema va oltre Sochi, il discorso è più ampio. Il doping sistematico riguarda infatti 312 casi, quindi tutto lo sport russo. Un sistema iniziato a Vancouver nel 2010 e di fatto allargato “a tutti”. Una escalation dell’inganno senza fine, con effetti anche a Londra 2012, ai mondiali di atletica di Mosca 2013 ed a quelli di nuoto di Kazan 2015”.
La leggendaria fanciulla, invece, pare non fosse dopata. Alle Olimpiadi di Montréal del 1976: lei, la minuta quattordicenne, Nadia Comaneci viene considerata perfetta in un esercizio alle parallele asimmetriche; sul tabellone compare un “1”: il 10 che i giudici invece le attribuiscono non è contemplato. Da qui nasce il mito Comaneci. Mito pagato a caro prezzo: lei, bambina, non può che spaventarsi a morte, e deve rimanere tale per vincere sempre di più, a costo di diete e allenamenti estenuanti. Certo, onorata e ben pagata, ma pure vittima di soprusi sessuali da parte di Nicu Ceaușescu, figlio degenere del dittatore rumeno, figlio che la costringe a un rapporto forzato. Lei non sorride mai. E a farla sorridere ancor meno ci pensa pure la stampa sportiva occidentale, composta allora quasi unicamente da maschi alfa, in cui l’adorazione per la ginnasta puzza molto di pedofilia.
Dopo le Olimpiadi, seguono le Paralimpiadi. In troppi non ne sanno nulla, o non ne intendono sapere. Eppure a Londra 2012, l’Italia conquista ben ventotto medaglie. A Rio parecchie e parecchi i favoriti in diverse discipline. Non mancherà il sorriso luminoso di Alex Zanardi, vincitore della medaglia d’oro a Londra nella cronometro e nella prova su strada, che guida la squadra. “Alex, poveraccio – si sente ancora mormorare – se non gli avessero amputato ambedue le gambe…”. E s’imbeve di pura ipocrisia chi sostiene che il ritorno di Alex alle gare abbia emozionato tutto l’universo sportivo. Risoluto, determinato, umile, Alex rimane il riferimento esemplare di chi ama lo sport agonistico. Senza estremismi. Con tutta la libertà, l’arte, la letteratura, la filosofia. Dell’antica Grecia. Da non confondersi con la filologia greca.
Alex: caso del tutto opposto a quello di Bolt, un bronzo di Riace, ammirato e ora festeggiato, dal momento che, nonostante l’infortunio (lesione di primo grado al bicipite femorale), il Comitato Olimpico della Giamaica lo ha convocato a Rio per i 100 metri, i 200 e la staffetta 4X100, benché, più volte, si siano nutriti su di lui sospetti di uso sostanze dopanti, sospetti sollevati pure da atleti del calibro di Carl Lewis e Tobias Unger. E l’importante, in molti sport, è essere fighi ed alti come Bolt. Solo se non si ricorda, per esempio, Early Boykins, 165 cm in altezza per 60 kg di peso, che ha giocato a basket fino al 2012: atleta ammiratissimo per la sua costanza nel superare se stesso. Oggi i nostri giovincelli e le nostre giovincelle lo guarderebbero dall’alto al basso. E in basso, con loro, siamo caduti? Non tutte e non tutti. Fortunatamente.