Semiotica del gusto

 

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Un’ipotesi forte porta Gianfranco Marrone a riscrivere, in questo libro, saggi pubblicati negli anni in diverse sedi. Semiotica del gusto non è una raccolta di articoli sulla gastronomia, ma uno studio attento del gusto, senso profondo nell’uomo come la visceralità e la motricità. L’apparato più importante, perché realtà e simbolo di ogni processo trasformativo, dalla digestione a qualsiasi “cucina” del senso; il più potente, perché, operando attraverso gli orifizi del corpo, in sinestesia con altri organi, unisce e al contempo separa carne e fisicità, sé e mondo. Il rapporto percezione/giudizio va pensato a partire da questi funzionamenti.

Riverbero della Fisiologia del gusto (1825) con cui Brillat-Savarin aveva anticipato e per certi versi superato Merleau-Ponty, estendendo le ricerche sulla fenomenologia oltre la vista e il tatto,il volumedialoga con le discipline che si occupano di “gusto” – fisiologia, filosofia, estetica, antropologia, sociologia dei consumi. E dimostra che il gusto, con il nutrimento letterale e metaforico collegato, è un “sistema primario di modellizzazione culturale”: luogo silenzioso da cui affiorano immagini sociali e individuali, dove si distinguono, articolano e classificano gli esseri viventi, animali e piante, commestibili o meno, curativi o velenosi, permessi o vietati. Il gusto significa a prescindere dalla lingua verbale, anzi la precede. Fonda il principio stesso della significazione. Descrivere l’esperienza gustativa è difficile, specie oggi che sono cambiate le aspettative nei confronti del cibo, con la sopravvalutazione mediatica che ne consegue (Gastromania, Bompiani, 2014). Il pregio di un’analisi semiotica è di far cadere le evidenze quotidiane – ciò che diventa abitudine al punto da apparire “naturale” – e di dar ragioni del motto condiviso quanto dispotico De gustibus non disputandum, facendo un balzo utile a guardarci dall’esterno. Disparità e caos delle sostanze celano somiglianze formali e semantiche: sintagmatiche – avangusto/retrogusto – paradigmatiche – gusto/disgusto – e di espansione contestuale – dal boccone al piatto, dal piatto al pasto, dal pasto all’ambiente.

L’indagine mancata dei nessi che il gusto tesse fra il corpo proprio e l’intersoggettività, annullando l’idea di una coscienza privata e unitaria dell’individuo, è all’origine delle difficoltà di parlare sensatamente del gusto. Marrone discerne quattro accezioni: 1) il gusto è anzitutto una proprietà delle sostanze: salato, dolce, amaro, acido… ; 2) per metonimia passa a indicare le proprietà del soggetto, le competenze sensoriali. Il gusto agisce come un “tatto orale”, che ha nell’olfatto la sua sovrastruttura (Leroi-Gourhan). Segue l’orientamento corretto di trasformazione delle materie, dalla bocca all’ano, che il disgusto ribalta, facendo fuoriuscire sostanze dalla bocca o ingerirne dall’ano; 3) tracima quindi nel pensiero critico, come riflessione sulla bellezza e sulle arti. Apprezzare o disprezzare è riproporre i processi del corpo a livello sociale e culturale: attrazioni e repulsioni, euforie e disforie; 4) designa infine il riconoscimento di appartenenza a una comunità: “avere gusto” è condividere con altri piaceri e dispiaceri. Si pensi alle tensioni sul fatto di mangiar carne. Stiamo dalla parte dei vegani, che disprezzano i carnivori perché, ingerendo la carne degli animali, divorano l’anima che hanno in comune con noi? O riteniamo di essere tutti cannibali, perché l’uomo mangia sempre un’alterità che riduce a se stesso, in una varietà di credenze e rituali? (Lévi-Strauss)

L’analogia fra cibo e linguaggio apre a Marrone squarci illuminanti. Usiamo continuamente il cibo, come usiamo la lingua; lo viviamo e consideriamo elemento costitutivo della nostra identità, pur non conoscendone le regole. Primo fra i bisogni, anche il cibo è sempre stato strutturato in un sistema di differenze (Barthes): natura e cultura, crudo e cotto, putrido e sofisticato, elaborato e non elaborato; non realtà statiche, ma esiti momentanei e cangianti di traduzioni fra consuetudini culinarie. Come nella lingua, il cibo presenta la relazione langue/parole: qualsiasi piatto (parole) ha un modello di riferimento (type), ma tale modello esiste perché, preparando i singoli piatti, lo si è istituito. Infine, nella bocca, cibo e linguaggio si danno per contiguità: mangiare è parlare del cibo come parlare del cibo è farlo passare nella bocca. Già percettivamente, assaporare i cibi, con i denti, la saliva, la lingua, diviene una narrazione in cui i preparativi e le attese valgono, come nell’eros, molto più delle congiunzioni e degli appagamenti.

Marrone inverte allora il ragionamento tipico della presa estetica. Non viene prima la sensazione e poi la cognizione, ma è il contrario: la cognizione c’è già e detta gli schemi semantici e culturali della percezione; la sensazione emerge se e quando riesce a schivare questi schemi e a dar adito all’estesia. Estendendo al senso del gusto il rapporto fra figurativo e plastico-astratto nelle immagini (Greimas), Marrone distingue il gustoso, che si instaura grazie al riconoscimento sensoriale di figure del mondo già note, dal saporito, dove la sostanza gastronomica, vera istanza d’azione, provoca un nuovo stato di cose, che trasforma sia il soggetto senziente sia la sostanza. La degustazione del vino, per esempio, tende a rimuovere gli aspetti canonici dell’esperienza gustosa a vantaggio di un’ebbrezza del saporito. In proposito, che la cucina sia l’arte del nostro tempo è degno d’interesse. Lo spostamento dal “linguaggio dell’arte” al “linguaggio del cibo” si invera alle condizioni di un’estetizzazione del quotidiano sul piano della fruizione, di una sagacia del saporito sul piano della produzione.

Una metodologia precisa fa di Semiotica del gusto un libro di ricerca avanzata: interrogare il gusto non in astratto o attraverso exempla ficta, ma descrivendo i testi della cultura, che esistono indipendentemente dalle nostra indagini. Per Marrone nulla di più concreto dei testi e di più finto dell’“esperienza”, se ritenuta reale, immediata, fenomenologicamente pura. Tutte le esperienze, per poter essere comunicabili o analizzabili, sono filtrate. “Testo” inteso come unità di gusto e di senso: non il piatto, ma il pasto nella sua interezza, con diversi livelli di pertinenza, secondo il punto di vista scelto. Nella prima parte del volume Marrone si sofferma sulla ricetta, programma di preparazione della pietanza, sorta di spartito per esecuzioni perché luogo contrattuale, negli impliciti (il “quanto basta”), fra le competenze pregresse dell’enunciatore e i saperi dell’enunciatario: un “ingegnere” segue la procedura a menadito; un “bricoleur” è pronto a personalizzare, a imporre un nuovo modello. Ogni ricetta che si rispetti è un’edificazione e una distruzione (Bastide). E, mentre propone procedure, regola affetti e passioni. Così, al palato, il “risotto alla milanese”, fra la sceneggiatura codificata del “risotto patrio” di Gadda (livello della langue) e le varianti di Artusi, di Carlo Cracco e del sito web Giallo Zafferano (livello della parole), deve ancora risultare, insieme, amalgamato e suddivisibile, incollato e sciolto, per rimembrare un modo d’essere italiani nel secondo dopoguerra: l’esercito che, pur compatto, mantiene la fisionomia dei singoli componenti. Per esplorare la messinscena delle operazioni di trasformazione in cucina, Marrone studia poi un classico aiutante non umano, lo sbattitore, che migliora le prestazioni umane e, nei movimenti di accelerazione e rallentamento (agogia), prende in carico le passioni del fare. Con le analisi del “vino naturale”, dell’advertising del latte e del packaging dei prodotti bio, emerge l’ipocrisia dell’ideologia naturalistica, fondata sul principio del levare – meno racconti e più oscenità della sostanza nelle pubblicità del latte; annullamento dei “segni di civiltà del mondo” (Hemingway) nel vino biologico, che, per gli scettici, sa del totem del terroir tanto da “puzzare”; confezioni senza marca, prive di orpelli, brutte e volutamente fatte male nelle merci biologiche. Per Marrone il “bio” è un metabrand che si è sostituito a quello della glaciazione dell’industria alimentare (merendine, surgelati, scatolame), quando il progresso contrastava una natura supposta matrigna. La “natura” è un discorso di marketing che fa finta di essere discorso politico ecologista, non solo in cucina, ma nel turismo, nella religione, nel design, nel pensiero urbano.

Un concetto permea tutti i saggi e si impone nelle analisi del Food Porn, dove la pietanza, ipertrofica, è sempre sola, di Masterchef, in cui rivalità fra i concorrenti e sevizie dei giudici denegano i piaceri del cibo, e del suo logo, a confronto con i loghi che sovverte: la lumaca di Slow Food e gli archi dorati di McDonald. È il concetto di tavola, esito finale di una lunga catena di presupposizioni logiche – dal desco alla cucina agli alimenti e indietro verso i campi e le stalle, il lavoro in essi compiuto… – che conta non per il km zero, ma per la commensalità di cui è il simulacro. Il manifesto dello Slow Food (1987), pubblicato sul Gambero rosso allora supplemento de Il Manifesto, invitava, contro la fast life, a rallentare i ritmi, nel recupero di un godimento del cibo che restava però individuale. Marrone rivendica invece, anche rispetto alle ansie della “gastro-anomia” e della dietetica, la positività della forma di vita del gourmand, il cui corpo, sensazioni gustative incluse, è sempre il corpo dell’altro teatralizzato. Le cene di Marinetti, fatto sociale totale, anche se lì è il disgusto a veicolare la ricostruzione dell’universo. Semiotica del gusto rovescia lo scenario della condanna platonica: il cibo non può essere un oggetto che si consuma ingoiandolo né lo strumento con cui qualche sofista riempie lo stomaco e annebbia la mente. È andare alla ricerca di bontà, ripugnanze e insipienze nelle cose come nelle persone.

 

Recensione di Tiziana Migliore


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