Immaginate di imbattervi per caso in una vecchia diva di Hollywood e di sforzarvi di riconoscere tra le rughe e il trucco marcato quella stessa bellezza che un tempo fu capace di sedurre il mondo intero. E immaginate, alla fine di questo esercizio di estenuante concentrazione, di ritrovarvi convinti che quel volto che state fissando appartenga veramente alla più bella donna che avreste mai potuto incontrare. Lo show che Brian Wilson ha presentato per il cinquantesimo anniversario di Pet Sounds, l’insuperato capolavoro dei Beach Boys del maggio del 1966, lascia esattamente questa sensazione di autosuggestione. Nella prima serata londinese, ovviamente sold out, tutto ha concorso ad annullare ogni distanza critica: un pubblico più che compiacente e indulgente verso qualsiasi cosa accadesse sul palco, una sequenza di capolavori che lascia storditi solo a ripeterne i titoli, l’idea maliziosa di assistere a qualcosa di storico e l’effetto-simulacro di sapere che il “genio” è lì a qualche decina di metri di distanza. Ogni cliché è stato rispettato e allo stesso tempo trasgredito in uno strano gioco di archeologia pop, gusto nostalgico e trionfo transgenerazionale, dove accanto a un nerd con look anni Sessanta (che non ci ha risparmiato le sue osservazioni circa le differenze degli arrangiamenti rispetto al tour di quattro anni prima per il cinquantesimo anniversario dei Beach Boys) sedeva un attempato pensionato del Kent (che non ha lesinato a elencarci i suoi malanni e il suo amore per il West Coast jazz degli anni Cinquanta).
Il concerto si è strutturato in tre segmenti precisi: una prima parte che si è snodata in un’alternanza di successi e brani di minore impatto, una seconda parte dove è stato eseguito Pet Sounds nella sua interezza e infine il bis, con tutto quello che ci si può aspettare da un bis del leader dei Beach Boys. Non tutto ha funzionato, momenti di abbagliante bellezza hanno convissuto con performance più opache. La stanchezza di Wilson, che ha lasciato di fatto l’esecuzione vocale della metà delle canzoni ad Al Jardine (l’altro membro storico della band che si è unito a Wilson in questo tour), al figlio di Al, Matt Jardine (che ha coperto tutti i falsetti), e alla fugace apparizione di Blondie Chaplin (effimero chitarrista dei Beach Boys nel biennio 1972-1973), ha suscitato a tratti la sinistra idea di assistere a un concerto di una cover band. Eppure nelle rughe della vecchia diva alla fine abbiamo riconosciuto l’antica bellezza e questa bellezza ci ha catturato in istanti indimenticabili nella prima parte: l’incipit di “Our Prayer” e “Heroes and Villains”, il grande spettro di Smile, l’album della follia e del tormento, l’epopea incompiuta; l’inno immortale di “California Girls” e l’infantilismo esibito di “I Get Around”; il crescendo catartico di “Add Some Music to Your Day”; l’incondizionatezza dell’amore maturo di “One Kind of Love”, unico brano di No Pier Pressure, l’album solista del 2015, canzone che chiudeva il biopic sulla vita di Wilson Love & Mercy.
E poi Pet Sounds. Da “Wouldn’t It Be Nice” a “Caroline, No”, passando per “God Only Knows”, Wilson ci ha mostrato nuovamente il cuore della sua arte e, conseguentemente, anche l’essenza più propria dei Beach Boys. Il grande poema del pop più classico, l’adolescenza come confine esistenziale non superabile, il rifiuto del peso della vita adulta, con le sue responsabilità e i suoi grigiori quotidiani, la speranza di poter rivivere ossessivamente l’esperienza della prima volta di ogni esperienza, e prima fra tutte quella dell’amore, la paura confessata che tutto questo potrà un giorno concludersi e, infine, la consapevolezza che il semplice serpeggiare di questo sospetto sta già a indicare che l’estate è già finita, l’amore finito, che i “suoni cuccioli”, le ovattate certezze dell’infanzia sono svaniti. Sì, non tutto ha funzionato nella riproposizione di questo monumento, ma forse proprio questa fragilità lo ha reso più vulnerabile e, per questo, più bello: una volta cancellata la perfezione formale probabilmente abbiamo compreso meglio l’essenza di questo capolavoro (non esiste altra parola e pertanto è questa che va utilizzata). Così, quando Wilson, spossato e a corto di voce, ha intonato la domanda iniziale che egli rivolge in “Caroline, No” all’amore non corrisposto della sua giovinezza, Caroline (“Where did your long hair go?”), ci è sembrato quasi di toccare quel non detto che ogni vera opera d’arte reca con sé e dentro di sé, quel guscio in cui risiede l’imperfezione della vera bellezza. E dopo questo attimo di assoluto stupore la festa finale. Con il teatro tutto in piedi, in un’ovazione continua, la band ha sostenuto il suo guru ingrigito in una sequenza devastante: “Good Vibrations”, “All Summer Long”, “Help Me, Rhonda”, “Barbara Ann”, “Surfin’U.S.A” e “Fun, Fun, Fun”. A chiudere, immancabile “Love and Mercy”, la grande elegia del primo album solista del 1988.
La Londra che ci aspetta fuori dal teatro è molto lontana da Brian Wilson: un venerdì qualsiasi, con le strade che si riempiono di Essex girls, di giovani tatuati con birra di ordinanza in mano e di turisti occasionali che invadono il centro in cerca di divertimento, facile svago e solite promesse da serate indimenticabili e un po’ cafone. Non resta timidamente che rivolgere loro l’augurio che Brian Wilson ci ha sussurato qualche istante prima: “Love and mercy to you and your friends tonight”. Chi era al Palladium ha finalmente capito che l’arte di Brian Wilson è essenzialmente la ricerca di pietas in un mondo che a tratti stentiamo a riconoscere come la nostra casa comune.