Nelle ore in cui arrivavano le notizie sulla Brexit, i social network bruciavano di indignazione e di rabbia, ma anche di sconforto e disperazione. Gli alti lai, il kaddish per l’Europa finita, defunta: game over. Così ho pensato bene di fare un piccolo esperimento senza alcun valore statistico, né generale né relativo, con i miei contatti su Facebook: ho provato a chiedere perché quelli che si stracciavano le vesti e strappavano i capelli lo stessero facendo. In altri termini, chi sapeva dirmi le conseguenze della Brexit?
Una provocazione o poco più, naturalmente. Però a girare su Internet è quasi impossibile comprendere le ragioni di tanta ansia. Neanche i giornali più autorevoli sono riusciti a togliermi la curiosità. Ciò che viene propinato è un misto di retorica europeista molto naïf e di catastrofismo millenarista. A leggere attentamente, ciò che viene per lo più evocato sono i rischi per la Gran Bretagna di natura economico-finanziaria e di centralità politica. Una vignetta del New Yorker dà la Gran Bretagna come in procinto di chiedere di diventare il cinquantunesimo stato degli Stati Uniti d’America.
Ma il mio esperimento, più che essere maieutico, era dettato dall’interesse di metodo: cosa esattamente la gente sa, quando esprime valutazioni?
È evidente che si tratta di un tema che ha toccato anche lo stesso dibattito sul voto in Gran Bretagna. Due sono state infatti le questioni al centro della discussione: il suffragio universale e le preferenze ‘generazionali’. Sulla prima questione, il punto è se tutti abbiano diritto a votare, soprattutto su questioni complesse e intricate che determinano scelte così radicali per l’intera popolazione. È l’argomento di Barabba: “Se fai votare, la gente tra Gesù e Barabba salva Barabba”. Fior di intellettuali, giornalisti e politici lo hanno usato per dire che il suffragio universale è un boomerang. Mario Calabresi su Repubblica ha scritto stigmatizzando le sirene del populismo, che avrebbero (ma poi ci torniamo) sedotto i padri e i nonni, divoratori del futuro dei propri figli. L’idea che ne emerge, neanche troppo velatamente, è che il suffragio universale sia accettabile solo quando esso produce risultati graditi all’establishment. Non è un caso se Mario Monti sia stato uno dei primi a usare l’argomento-Barabba. La critica alla democrazia rappresentativa e al diritto di voto esteso a tutti si trasforma nella critica alla democrazia diretta (sic) e alla sondocrazia. Scrive infatti ancora Calabresi: “Vi stanno raccontando che la democrazia diretta e i sondaggi in tempo reale risolvono magicamente i problemi”. Non è neanche troppo difficile vedere in filigrana con chi ce l’abbia, nel contesto nazionale, il direttore di Repubblica. Mi piace citare, a questo proposito, il saggio di un costituzionalista tedesco, Moellers, che si intitola We are (afraid of) the people. ‘Noi, il popolo, si trasforma in ‘Noi abbiamo paura del popolo’. Gli elettori, resi docili e persuadibili abbattendo il sistema scolastico e universitario e il pluralismo culturale e informativo si sono fatti persuadere da qualcun altro, e questo è male.
Ma l’argomento-Barabba si lega a doppio filo alla seconda valutazione mainstream sulla Brexit: l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione è stata voluta dai ‘vecchi’. È infatti circolata, il giorno dopo il voto, una tabella che mostrava l’alta percentuale di votanti per il leave tra gli anziani. La stragrande maggioranza dei commentatori ha preso però fischi per fiaschi, lanciandosi in balzane idee sulla creazione di un ‘patentino’ per il voto, o in ragionamenti del tipo ‘se si vota dopo i 18 anni, perché non si può dire che dopo i 60 non se ne ha più diritto?’. Ma i dati dicono altro. Infatti un conto è dire che la Brexit è stata votata da tot anziani (mettiamo, per amore di semplicità, il 75%), un altro è dire che tra gli anziani un tot (sempre quel 75) ha votato leave. Le due cose sono completamente diverse. Mettiamo – sempre per semplificare – che gli anziani andati a votare fossero 100 e i giovani 300. Se il 75% di 100 avesse votato Brexit e il 25 di 300 lo stesso, il numero dei voti per il leave sarebbe stato uguale: 75. In altri termini, quel dato statistico andava incrociato con il peso demografico delle categorie prese in esame (‘giovani’ e ‘vecchi’, per capirci), con le percentuali di astensionismo tra quelle stesse categorie, e così via. È stato l’ex primo ministro Enrico Letta con un tweet a smontare tutta la retorica: la maggior parte dei giovani britannici è rimasta a casa o al pub, catafottendosene ampiamente della questione. Dunque a rigore se di responsabilità si deve parlare, è a loro che occorre guardare. Ma Calabresi, i giornali, i social network non hanno pensato di fare queste banali verifiche incrociate: la colpa è dei vecchi, punto. Scrive Calabresi (cito il suo editoriale come epitome di tutto ciò che sull’argomento si è letto): “I vostri nonni, che sanno cosa è stata la guerra, dovrebbero avere a cuore un futuro di libertà per voi, ma insieme ai vostri genitori si stanno lasciando incantare da chi racconta che rimettere muri, frontiere, filo spinato servirà a farci vivere più tranquilli, sicuri e sereni. Che tornare ad avere ognuno la propria moneta riporterà lavoro, prosperità e futuro”. Insomma, siete nelle mani di Urano. E poi, con una storia pettinata nello stile che ricorda qualcun altro (ricordate la Marta di Renzi?): “Una ragazza inglese che ha votato sì, ma non è riuscita a convincere suo padre e suo zio a fare lo stesso, ieri ha promesso ai suoi amici europei, con una voce tremante che mescolava imbarazzo e rabbia: “Verrà il nostro turno della nostra generazione e allora torneremo”. Ci contiamo”. Ecco, ma tornare da dove? Dal futuro? Forse, se Martha avesse convinto i suoi coetanei a tornare sì, ma dal pub, le cose sarebbero andate diversamente. Ma questo è un controfattuale, tale e quale al seguente: se avessimo avuto una stampa in grado di raccontare i fatti, oggi avremmo capito meglio cosa è davvero accaduto in Gran Bretagna.