È il 1947 e Winston Churchill guarda all’Europa liberata dai totalitarismi. Le armate dell’impero hanno confermato il primato mondiale della Corona britannica dopo aver traversato il continente dalla Francia agli Urali. Qualunque futuro attenda l’Europa, sarà all’ombra dell’Union Jack.
Com’è ovvio, la scena appena descritta non compare sui libri di storia. È ispirata ad un “libro nel libro” immaginato da Philip K. Dick nel suo romanzo ucronico The Man in the High Castle. In quest’ultimo volume lo scrittore californiano descrive un mondo in cui le forze dell’Asse hanno vinto la guerra, e il Reich tedesco contende all’impero giapponese quel che resta degli Stati uniti. All’interno di questo scenario da incubo, i protagonisti vanno alla ricerca di Hawthorne Abendsen, autore del libro The Grasshopper Lies Heavy. The Grasshopper è a sua volta un romanzo ucronico in cui si immagina un mondo in cui gli Alleati, e non l’Asse, hanno vinto la guerra. L’opera è vista come sovversiva dai nazisti, che infatti danno la caccia ad Abendsen. I pochi passaggi di Grasshopper che Dick riporta, però, parlano a loro volta di un continuum temporale diverso dal nostro: un mondo in cui la Gran Bretagna ha avuto un ruolo molto più importante nel corso del conflitto, arrivando nella seconda metà del Novecento a una guerra fredda con gli Usa per il posto di prima superpotenza mondiale.
Se la nostra contemporaneità non fa che confermare la profondità di molte intuizioni di Dick, di certo il voto nel Regno unito di giovedì scorso è uno dei momenti più autenticamente dickiani degli ultimi anni. L’idea della Gran Bretagna in uscita dall’Unione europea è, per l’idea di noi che coltiviamo da due decenni, del tutto ucronica. E gli scenari che apre lo sono altrettanto. Mancano a chi scrive le competenze per un’analisi economica della Brexit, per capire se questa comporterà un tracollo di lungo periodo per Londra o se sia l’inizio di un nuovo capitolo delle tracotanti avventure finanziarie di John Bull.
Le possibili traiettorie politiche, però, farebbero venire il mal di testa anche a Phil Dick. Molti in questi giorni auspicano un veloce ritorno tra le braccia dell’Unione della Scozia e dell’Irlanda del Nord, liberatesi via referendum dalla tutela di Londra. Che un simile passaggio sia fattibile e indolore è cosa tutta da verificare: in Irlanda del Nord, in particolare, un aspro scontro politico (lo Sinn Feinn sta già chiedendo la riunificazione con Dublino) potrebbe degenerare in violenza tout court. Più in generale, la Brexit potrebbe rivelarsi un banco di prova per i potenziali risvolti post-jugoslavi di una futura dissoluzione dell’Unione europea.
Con l’uscita di Londra, inoltre, l’asse dell’Ue si sposta più saldamente sul continente. Libera da un socio riluttante, a volte apertamente sabotatore, l’Unione si risveglia il venerdì dopo il voto più franco-tedesca che mai. Anche se la collaborazione tra i due paesi portanti non vive uno dei suoi momenti di maggiore efficacia. Ciò significa anche che è diminuita la presa di Washington sull’Ue: il primo referente americano nell’Unione ha tagliato la corda, e ora a farne le veci restano una serie di paesi dell’Est che, per mille motivi, non possono sostituirlo adeguatamente. Capiremo in tempi relativamente brevi se questa nuova Europa abbia davanti a sé opzioni diverse dal disfacimento. Forse, però, Brexit potrebbe essere l’occasione per riacciuffare un universo parallelo da cui l’ucronia in cui abbiamo vissuto finora c’aveva allontanato.
È prassi di ogni buon europeista citare il discorso che nel 1946 Winston Churchill rivolse alla platea dell’università di Zurigo, invocando la nascita degli Stati uniti d’Europa. Molto meno citata è la chiusa di quel discorso in cui, nel rispetto dei nuovi equilibri postbellici, il politico britannico cita i futuri alleati della nascitura Unione: gli Stati uniti d’America, la Russia sovietica, la Gran Bretagna e il Commonwealth britannico. Il mondo del 1946 era molto diverso da quello odierno: il colonialismo aveva le ore contate ma non lo sapeva, e per Londra era lecito immaginare un futuro per il proprio impero globale slegato dal continente.
Le cose sono andate in maniera diversa da quel che Churchill sperava nei settant’anni successivi, durante i quali il Regno unito si è fatto malvolentieri inserire nella cornice europea. Oggi le due traiettorie temèorali si sono incrociate. Di certo Londra non riavrà il suo impero, però l’Unione europea potrebbe cogliere l’occasione per fondare gli Stati uniti d’Europa nei termini intesi a Ventotene. Farlo significherebbe ridare linfa alla particolarità europea continentale, sacrificata nel disegno attuale a favore di un’adesione supina ai modelli provenienti proprio dall’oltremanica che oggi abbandona l’Unione. Certo, basta pronunciare questo auspicio e poi guardare la faccia di Jean-Claude Juncker per capire che difficilmente verrà da Bruxelles la risposta a quest’urgenza. Eppure in qualche modo l’Europa dovrà farsene carico, altrimenti l’ascesa dei populismi nazionalisti in tutto il continente rischia di farci vivere l’ennesima ucronia di The Man in the High Castle.