Blanchot per come io lo vedo.

 

 

 

Ritengo che Blanchot si sia trincerato in una complessità e forse in una perplessità, in ogni caso un ripensamento faticoso e complicato che non riusciva a liberarsi di due esigenze provate con forza; quella di riunire i registri inconciliabili della letteratura e della politica (a tal riguardo cito una lettera di Bataille molto eloquente) e quella di fondare la politica su un principio spirituale che non poteva non essere almeno sotto alcuni riguardi attinto da un’origine europea e cristiana (anche se l’origine resta per definizione lontana e a monte rispetto a noi). Avendo io detto “spirituale” – termine che è necessario nell’atmosfera mistica del libro di Blanchot, costituendo il “mistico” per conto suo una nozione evidente nel testo – mi soffermo un istante per ricordare che qualche anno prima Michel Foucault aveva pronunciato questo termine a favore della rivoluzione iraniana. Con questo intendo sostenere che una preoccupazione di quest’ordine potesse a buon diritto impegnare menti attente alla poca elevatezza delle preoccupazioni della cosiddetta società democratica dei consumi. Tale preoccupazione poteva anche condurre a smarrirsi un po’. È in questo senso che ho voluto sottolineare, a proposito della politica evocata e invocata da Blanchot, che un dubbio sulla democrazia che noi conosciamo era comune a tutti coloro che hanno un’esigenza di “senso”. Chiudo questa parentesi. La complessità di Blanchot concerne evidentemente, a causa di Bataille, il rapporto tra amore e società – «comunità» che costituisce la cifra di questo rapporto. Personalmente io mi ero limitato ad affermare che gli amanti si espongono necessariamente nello spazio pubblico (anche nella modalità paradossale della clandestinità). Si possono trarre alcune conclusioni ma non quella di fondare la comunità sul rapporto amoroso. Ora è questo che fa Blanchot. Vi aggiunge in realtà un oltrepassamento dell’amore in una passione dissimmetrica nella quale solo la donna si porta via con il suo godimento il segreto mistico della comunità che si sottrae a se stessa. L’uomo resta al di fuori del godimento e nella sola condivisione (forse, dice Blanchot) della morte. Secondo me, anche la morte o la finitezza era la nostra unica condivisione. Lo sottolineavo come il segno necessario del rifiuto di qualsiasi sostanza comune. Ma io non legavo affatto tale tratto a una sottrazione del godimento che equivale a una non-condivisione. Io tentavo di affermare una condivisione di niente, Blanchot gli contrappone un niente della condivisione. Un’assenza, una scomparsa di cui Cristo fornisce la figura ultima dopo una serie di altre figure mitiche. Mistica e mito sostengono il suo discorso in maniera esplicita. La mistica come esperienza senza soggetto, il mito come «corpo mistico» godendo al di là “del mito e della metafisica” vale a dire (per tagliar corto) in un’assenza al di là di ogni rappresentazione. Ora l’esperienza ha comunque luogo e il corpo mitico gode proprio di un piacere che gli “procura” il suo partner – è il termine (sul cui senso Blanchot non si sofferma). Ritengo che questa doppia osservazione impone di considerare che il rapporto supposto senza rapporto ha luogo, che è proprio l’esperienza del rapporto in ciò che essa è precisamente quella che il rapporto fa e in cui si dà il mito, certo, non come figura mitologica ma come suo proprio dirsi, fosse esso senza parole e senza “ti amo”. Blanchot ci tiene a sconfessare il rapporto, la sua consistenza propria, poiché vi ritrova immediatamente la legge, la socialità, l’istituzione. Siccome questa sconfessione è difficile giacché in fondo annulla la possibilità di parlare di “politica”, Blanchot s’infila in tortuosità inestricabili e insostenibili. Voler fondare su un fuori assoluto significa rischiare di perdere tutto. Si perde lo stesso “spirituale”. Per dirlo in altri termini: per Blanchot è necessario, al di qua di ogni rapporto, un termine (un agente, un autore, un paziente) che lo impegni. Io penso al contrario che il rapporto sia strettamente contemporaneo ai suoi termini. E inseparabile da essi. Vale a dire senza sostanza ma non per questo senza aver luogo. Non senza realtà – è proprio esso il reale. Ancora in altro modo: non è possibile nessuna specie di “monarchia assoluta”: un rapporto la precede necessariamente. A partire da lì torniamo infine all’opera. Parlare dell’operare alla sola inoperosità come lei ha fatto comporta un’ambiguità. L’accento è posto sull’opera o sull’inoperosità? Si può rifiutare di scegliere. Tuttavia se è vero che io avevo dimenticato di parlare dell’opera necessaria all’inoperosità, quel che Blanchot a ragione mi rimprovera, è nondimeno vero che io parlavo della letteratura – piuttosto in termini di comunicazione è vero. Blanchot non ne parla affatto poiché vuole parlare di un racconto, di un autore – racconto perfetto, autore coinvolto in esso e infine una lettura che occorre ritenere particolarmente autorevole (si veda l’esclamazione: «ma io so chi è lei!»): in fondo si tratta probabilmente di una questione di autorità, dunque anche di legittimità di eccezione in certo qual modo. Tutta una politica che io comprendo bene ma che risponde a un’altra preoccupazione rispetto a quella del “comune” in tutti i sensi possibili

 

Tratto da La comunità sconfessata, Mimesis Milano 2016



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