È il 1965 quando a Palermo viene rappresentata per la prima volta La Passion selon Sade: Mystère de chambre avec Tableaux vivants, précédé de Solo avec un couple Rara et suivi d’une autre Phrase à trois. Regia, costumi e direzione sono tutte del compositore, Sylvano Bussotti. Alle luci un giovane Salvatore Sciarrino e nel ruolo principale, il doppio Justine/Juliette, la leggendaria Cathy Berberian. Nata sotto i migliori auspici, l’opera viene rappresentata un po’ in tutto il mondo, subendo talvolta censure a causa del titolo blasfemo e di alcuni dei suoi contenuti. Il libretto deriva da un testo della poetessa francese Louise Labé (1526-1566), influenzata dallo stile di Petrarca, ma autrice di opere dai contenuti talvolta anche graffianti e sensuali, come la stessa O beaus yeux bruns. La strumentazione è per un ensemble “cameristico” molto particolare: una parte degli strumenti rimanda agli stili tardo barocco e galante – classico dell’epoca di Sade (corno, oboe, flauto, oboe d’amore, violoncello, arpa, organo, harmonium);l’altra, invece, è estremamente moderna (due pianoforti, percussioni assortite, ed uno straniante flauto a becco). L’opera in sé è diventata uno dei nuclei dell’opera di Bussotti, in cui sono confluiti alcuni dei pezzi precedenti (è il caso della Phrase à trois e di alcuni dei Rara, composizioni aleatorie che devono il loro nome all’ex compagno del compositore, Romano Amidei), e da cui sono stati tratte alcune versioni ridotte (è il caso di alcune suites, tra cui spiccano gli Echi danzanti per arpa e voce narrante, registrati dal compositore stesso).
La partitura dell’opera merita una menzione a parte: si tratta di un gioiello di graphic score. Bussotti ha appreso l’arte del disegno dallo zio incisore Tono Zancanaro e ne ha fatto una delle caratteristiche distintive dei suoi spartiti. Le sue opere spesso sono concepite non da un punto di vista armonico e melodico, ma graficamente come giochi di linee o di luci che si intersecano in vari modi possibili. È anche il caso della Passion: i pentagrammi con le indicazioni si avvolgono intorno a figure umane (che rappresentano alcuni degli elementi e dei gesti scenici), si intersecano in spirali ed in figure geometriche… Ci troviamo davanti ad uno spartito aleatorio: le indicazioni delle note da eseguire sono scarse, limitandosi il più delle volte ad indicare la nota di inizio e la nota di arrivo dei vari strumenti, lasciando agli strumentisti ed al direttore il compito di decidere cosa metterci in mezzo e come gestire l’ensemble degli strumentisti. Questo tipo di approccio alla composizione lascia un ampio spazio al caso, all’attimo ed alla volontà dello strumentista: quest’ultimo che diventa un vero e proprio co-creatore dell’opera nel momento dell’esecuzione. Pioniere di questo stile è stato John Cage. Il suo è un modernismo di completa rottura rispetto alla tradizione “classica” ed “accademica” occidentale, tradizionalmente incentrata sullo spartito scritto, visto come auctoritas indiscutibile. Va però rilevata una differenza abbastanza importante tra Cage e Bussotti. Nel secondo (e nella Passion in particolare, come spiegherò a breve) sono maggiormente presenti degli echi e delle ombre dalla tradizione occidentale, mentre Cage porta la sperimentazione fino ad abbattere confine tra suono e rumore, tra spazio dell’esecuzione e spazio circostante, esecuzione ed atto teatrale. Un esempio su tutti è 4’33”, l’opera di puro silenzio in cui l’ascoltatore è portato/costretto a sentire ciò che c’è intorno all’opera, in quanto l’opera stessa è un insieme vuoto che viene di volta in volta riempito dai rumori circostanti. Cage, nel suo modernismo che “vuole avanzare e vincere a tutti i costi” (citando liberamente da un articolo di John Rea nel primo volume dell’Enciclopedia Einaudi della musica), arriva ad una autosoppressione dell’opera musicale stessa, vista come uno dei massimi limiti della sperimentazione. Bussotti, da questo punto di vista, è meno estremo. Il materiale intervallare fondamentale della Passion, ad esempio, è un tema ben noto già dal Settecento: il famoso “tema BACH” (Si bemolle, La, Do, Si naturale in notazione italiana), già usato, oltre che da Johann Sebastian e dal figlio Carl Philipp Emanuel, nel più noto brano per organo di Liszt per la sua sonorità particolarmente maestosa e tetra e cromatica. Per certi versi, è come se, in una composizione priva di una struttura solida, un’opera aperta, stando alla fortunata definizione di Eco, fosse possibile individuare come punti cardinali alcuni elementi che orientano e limitano il decorso dell’opera all’interno di schemi non casuali e parzialmente riconoscibili: ombre ed echi dalla tradizione occidentale, appunto.
L’uso del tema “Bach” ha anche un’altra funzione: in uno dei Tableaux Vivants il nome “Sade” viene urlato insieme a quello del compositore tedesco: si tratta di una firma dell’autore (Sade-Bach, S-B, Sylvano Bussotti), resa esplicita dal nome “Bussotti” che dopo un po’ accompagna gli altri due nella stessa scena. L’uso del termine Tableaux vivants è un rimando diretto a Sade. In merito, sono illuminanti le osservazioni che fa Roland Barthes (peraltro amico di Bussotti) in Sade, Fourier, Loyola (1969-1971), successivo di alcuni anni alla prima dell’opera. Stando a questa lettura, in Sade non sarebbero presenti soltanto la violenza e l’erotismo, che costituiscono solo uno degli aspetti della sua opera su cui non bisogna focalizzarsi eccessivamente: per certi versi quello che fa Bataille in La littérature et le mal, opera nota a Bussotti e che ebbe una certa influenza sulla critica letteraria francese successiva. È invece possibile leggere Sade in un’ottica di délicatesse, una cura per la costruzione di scene teatrali: i personaggi sono manichini che formano quadri viventi, una forma di teatro borghese del XVIII secolo caduta poi in disuso, e il loro essere personaggi letterari permette di spingere queste rappresentazioni oltre i limiti fisici di persone reali. Sempre seguendo alcune considerazioni di Barthes è possibile individuare un altro trait d’union tra l’opera di Sade e quella di Bussotti: si tratta dell’elemento rapsodico. La scrittura di Sade molto spesso è un raggruppamento di eventi, un insieme di episodi singoli privi di un vero senso, al contrariodel romanzo tradizionale, e che potenzialmente possono essere concatenati all’infinito. Allo stesso modo in Bussotti troviamo una serie di quadri privi di un legame logico e causale tra loro, una serie di insieme di atti estetizzati privi di un senso che, anche in questo caso, potrebbero essere portati avanti all’infinito: già il Solo per organo ha una durata che può andare dai pochi minuti all’oltre un’ora, fino a costituire una suite a se stante.
Ma è possibile vedere anche un’altra influenza nella Passion: si tratta della nozione di “Teatro della Crudeltà”, sviluppata da Antonin Artaud in Le théâtre et son Double (1938). Artaud è un autore caro a Bussotti, che ne ha usato più volte i testi o gli spunti (caso emblematico: Phaidra/Heliogabalus, balletto ispirato in parte a Héliogabale, ou l’anarchiste couronné di Artaud). L’idea di Artaud è che il teatro debba causare un vero e proprio risveglio emotivo dell’uomo moderno, la cui sensibilità è stata saturata anche a causa di un teatro esclusivamente psicologistico. Cosa, più del teatro, potrebbe essere in grado di scuotere lo spettatore? Il teatro, deve diventare qualcosa di traumatizzante, deve dare una valenza metafisica ai suoi gesti scenici fisici. Il palco, luogo dell’azione scenica, deve essere soppresso, gli attori devono circondare il pubblico nei loro movimenti, l’uso della musica non deve essere di accompagnamento, ma deve trascinare lo spettatore e colpirlo nel profondo del suo essere. Il nuovo teatro rappresenterà le chimere e gli abissi dell’uomo, li affronterà e li mostrerà in scena per risvegliare le persone dalla sonnolenza della loro sensibilità. Non a caso nella lista degli autori da utilizzare Sade è tra i primi citati. E l’idea di “avvolgere” lo spettatore all’interno della rappresentazione è ben evidente nella Passion selon Sade: già nel momento in cui il pubblico entra in sala, l’organista (che al contempo interpreta il “maestro di cappella”) suona il Solo, spartito aleatorio dalla durata indefinita. I personaggi sul palco si alternano poi in azioni che richiamano di volta in volta l’erotismo e la violenza: il doppio Justine/Juliette, in un vortice di accettazione e rifiuto dell’esperienza, entra in scena legata e trascinata da due figure mascherate, e viene di volta in volta rappresentata in procinto di impiccarsi o sedotta da un danzatore, quando non dall’intero insieme dei musicisti di corte. Erotismo e crudeltà dei gesti si alternano in scena alla forza espressiva della musica e della danza, ma anche a letture che rimandano all’angoscia di un amore falso o di un amore ingannatore. Musica, danza, recitazione: il tutto assume una valenza estetica che rimanda a luoghi bui dell’uomo. L’attenzione dello spettatore è interamente catalizzata dall’azione scenica, che diventa un tutto organico di varie espressioni artistiche: la musica stessa non è più, come nell’opera tradizionale, un accompagnamento dell’azione scenica (che rimane di secondaria importanza), ma i due ambiti sono strettamente ed indissolubilmente legati.
Dell’opera non esistono registrazioni video rese pubbliche, si trovano al più alcune delle suites da essa derivate o una registrazione integrale dell’opera registrata nel 2004 a Madrid. È abbastanza scontato dire che ascoltarla senza l’aspetto visivo è un incredibile impoverimento nell’esperienza di una vera opera d’arte totale, una delle poche realmente tali. La rappresentazione romana del 28 maggio 2016 nasce come collaborazione con i corsi di perfezionamento dell’Accademia di Santa Cecilia e la Fabbrica Young Artist Program del Teatro dell’Opera di Roma. Il cast insolitamente giovane è stato guidato da Marco Panni, da anni tra i direttori di fiducia di Bussotti e nella doppia funzione di “noto direttore d’orchestra” in scena e “maestro orchestratore” in fase di preparazione. La regia ha optato per una scenografia non caratterizzata (con eccezione dei musicisti, tutti incipriati e con parrucca barocca), con un telo che divide in due la scena (obbligatorio) su cui vengono proiettate alcune pagine dello spartito, che sono rappresentate anche sparse in mura trasparenti nella metà anteriore della scena. Gli attori e Justine\Juliette sono stati caratterizzati da capelli verdi di reminescenza punk, decisamente più vestiti rispetto alle indicazioni della partitura. Da notare la coreografia dei fiori durante il momento in cui due testi vengono recitati prima alternativamente e poi contemporaneamente in un crescendo ossessivo. L’ambientazione è stata tendenzialmente sobria e con un uso delle luci forse un po’ troppo di secondo piano rispetto alle indicazioni della partitura originale. Alcune delle scene più mirabolanti previste da Bussotti sono state tagliate o impoverite, probabilmente anche per le richieste esagerate del compositore (tra le altre, una competizione di virtuosismo tra il “Maestro percussionista” vestito da caprone e Justine/Juliette, che nella rappresentazione in questione è stata interamente soppressa, così come alcune scene di strip-tease della protagonista).
Alla fine della rappresentazione, un pubblico tramortito, straniato ed estasiato è rimasto in silenzio per un attimo, a conferma del carattere decisamente inusuale ed incredibilmente forte della rappresentazione. Durante gli applausi, la cantante che interpretava Justine/Juliette (Alda Caiello) ha ricevuto un mazzo di fiori, che poco dopo ha consegnato a qualcuno nella prima fila. Portato al centro della scena, questo qualcuno si è rivelato essere Bussotti in persona, arrivato a Roma appositamente per la rappresentazione. Per motivi di salute abbastanza gravi è stato costretto ad annullare gli eventi programmati per il 2016 e a non concedere più interviste, e gli stessi strumentisti non erano sicuri della sua presenza. Bussotti, con i fiori in braccio, si è inchinato più volte, per quanto gli fosse possibile a causa della sedia a rotelle su cui è costretto. Finito l’applauso, un compositore circondato da ammiratori ha fatto anche i complimenti agli strumentisti. Il suo sguardo felice valeva più di qualsiasi altro commento.
di Piero Carreras