Radicalmente liberi: a partire da Marco Pannella

 

 

1. Essere Radicalmente liberi

 

Radicalmente liberi è un titolo che significa poco o nulla se inteso come uno “stato delle cose” e non come qualcosa che si pone in relazione a un processo: nessuno infatti è radicalmente libero e, forse, nemmeno “libero”. Si tratta di comprendere il significato del movimento di “lotta” che accompagna l’azione politica e come tale azione si intrecci a quel termine generalissimo che corrisponde al concetto di “libertà” che rimane in politica il concetto più astratto e, congiuntamente, il più concreto. Non credo che vi sia nulla di “radicale” nei Radicali se con ciò intendiamo un movimento “estremo”, anzi essi spesso manifestano per i diritti più “ovvi”: aspetti della vita sociale sotto gli occhi di tutti eppure “invisibili”, vissuti sino a quel momento in modo acritico, passivo, conservatore.

La vita politica in cui siamo iscritti si costituisce a partire da un’originaria passività del soggetto: cresciamo in un determinato contesto “educativo” prima di attivare una consapevolezza critica rispetto all’ambiente in cui viviamo. A suo tempo riconoscere gli stessi diritti ai neri fu, per esempio, qualcosa di assolutamente scandaloso, uno scandalo radicale rispetto al senso comune di allora. Il “costume” di qualche Stato concepiva come del tutto “normale” la schiavitù. Nel film Django di Tarantino un proverbiale dialogo recita:

(Schiava) – Cosa fai per il tuo padrone?

(Django) – Non ascolti? Non sono uno schiavo.

S. – Sei davvero libero?!

D. – Sì, proprio libero.

Subito dopo, la schiava chiede a Django, acconciato come un damerino del Settecento: “Cioè hai voluto tu vestirti così?!”. Il tema del libero arbitrio si intreccia qui all’annoso problema politico: la libertà degli schiavi va di pari passo con il problema relativo alla libertà e i pari diritti tra neri e bianchi. Oggi queste sono tutte cose ovvie – o almeno lo dovrebbero essere –, quindi possiamo legittimamente chiederci: tra cent’anni quali cose considereremo degli ovvi diritti? I diritti degli animali, o addirittura quelli di forme di intelligenza artificiale? Parleremo dell’etica dei robot?

Il sottotitolo, “A partire da Marco Pannella”, indica un punto, anzi una figura, da cui iniziare a problematizzare la politica: perché scegliere Pannella come punto di partenza? Sarebbe fuorviante ritenere che tale scelta dipenda dal semplice fatto che Pannella è stato, da liberale e da libertario, un originale interprete del concetto di “libertà”. Non è questo il punto. Né ci aiuterebbe elencare tutti i modi in cui egli stesso si è definito: radicale, liberale, socialista, federalista, europeista, anticlericale, antiproibizionista, antimilitarista, non violento e gandhiano. Tutti questi aggettivi (e molti altri ancora!) rappresentano un modo per non essere etichettato: un modo per non aderire a “un’ideologia codificata”. Il punto essenziale è, invece, che Pannella ci porta indirettamente a riflettere su idee che non sono il risultato deduttivo di un sistema politico derivato da una dimensione trascendente (ossia da verità stabili ed eterne), bensì ci conduce dentro uno spazio politico in divenire, processuale e molteplice privo di una idea fondativa. Un pensiero “in azione” che si articola e si confronta con il divenire della società e con i suoi cambiamenti. Da questa prospettiva possiamo ritrovare anche un senso a quel discorso che Pasolini non ebbe mai modo di pronunciare al congresso dei Radicali nel novembre del 1975 intitolato “Lo scandalo radicale”. “Contro tutto questo voi non dovete far altro (io credo) che continuare semplicemente a essere voi stessi: il che significa essere continuamente irriconoscibili. Dimenticare subito i grandi successi: e continuare imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”. Tale “irriconoscibilità” evocata da Pasolini può essere intesa come un pensiero in grado di smarcarsi dal costume e dalla morale che si sedimenta passivamente nelle maglie della storia. E, in effetti, il senso più autentico che ritroviamo nell’azione Radicale consiste nella suacapacità di dare parola agli “ultimi” della società, di illuminare gli angoli bui delle carceri, di battersi anche attraverso forme di lotta non violenta per coloro che non hanno diritti o che non sono nelle condizioni di poterli rivendicare. Ciò implica portare nel diritto coloro che per diverse ragioni ne sono esclusi, il corpo “venduto” della prostituta, il corpo immobile del malato terminale, il corpo dell’immigrato, del detenuto e del condannato a morte. Situazioni e vite private che rivendicando ragioni e diritti si trasformano in azione politica, cessando così di essere solo una questione privata il corpo, la nostra soggettività, si riafferma politicamente anche come res-pubblica. Così anche la propria morte può diventare un fatto politico.

Ripartire da Giacinto, detto Marco, dai Radicali Italiani, dal Partito Transnazionale e da tutte le associazioni che appartengono al mondo radicale significa partire da un “laboratorio politico” dove la sperimentazione rende vivo il movimento, un luogo non dogmatico teso verso un continuo rinnovamento programmatico. Il succedersi di campagne Radicali vinte o perse, ed è quasi lo stesso, segna in ogni caso, a prescindere dall’esito, l’inizio della successiva battaglia politica: appunto come dice Pasolini la capacità dei Radicali di “dimenticare subito i grandi successi” per iniziarne di nuovi. Risiede in questo dinamismo vitale la forza politica di Pannella, quello di non incarnare un’idea statica della verità, bensì di essere interprete di verità relativamente stabili o metastabili – e quindi non eterne, assolute e trascendenti – nella circunstancia del divenire della società. Il senso stesso del Partito Radicale risiede nella capacità propulsiva di coloro che lo hanno animato e nella loro forza di sperimentare continuamente sulla realtà. Facendo costantemente leva sulla propria capacità di interrogarsi politicamente su ciò che sta accadendo, si sono fatti interpreti politici del cambiamento. Tale capacità di rinnovarsi è il frutto del loro essere in grado di cogliere in modo non ideologico gli aspetti che il progresso tecnico-scientifico offre: da tale problematizzazione del cambiamento si sono potuti affermare nuovi spazi per la libertà individuale.

Questo articolo rappresenta solo un’occasione per riflettere una volta di più sul pensiero del movimento Radicale. Non per cristallizzarlo in un semplice oggetto di studio, ma per cercarlo di comprendere nell’essenziale molteplicità fatta di contenuti programmatici e non di astratti valori finalistici verso cui tendere. Non che questo secondo aspetto sia assente, è noto infatti il richiamo dei Radicali alla tradizione liberale di stampo americano; tuttavia, è filosoficamente più interessante indagare l’aspetto filosofico immanente al loro agire politico. Ed è proprio questo agire che ci costringe a pensare in senso radicale: per tornare all’elenco da cui siamo partiti non basta dirsi laici, liberali, libertari, federalisti, ecologisti, europeisti etc. ma bisogna dire che tipo di Europa vogliamo, quali riforme liberali, quale federalismo, quali diritti. Tale dinamicità può condurci in diverse direzioni, attraverso un vocabolario capace di offrirci modi in parte inediti di rileggere il senso stesso della “lotta politica”. Gli “slogan” radicali rappresentano una prima guida nell’articolato mondo radicale in quanto ne sintetizzano il pensiero: con “Nessuno tocchi Caino” si deve intendere un modo per dire che tutti, nessuno escluso, è fuori dal diritto; “Trasparenza è democrazia” così come “Dentro e fuori il palazzo”, significano, invece, che solo un cittadino informato può veramente scegliere – diversamente, la politica si trasforma in una delega in bianco data al rappresentante di turno; “No Taliban No Vatican” è un manifesto anticlericale e antidogmatico a favore della libertà di coscienza, di pensiero e di ricerca scientifica.

 

2. Il regime partitocratico

 

La gestione partitocratica dell’informazione pubblica è stata oggetto della critica Radicale attraverso azioni che a volte sono state intese più come “bizzarre provocazioni” che come una presa di posizione politica: irruzioni a sorpresa negli studi della Rai, Pannella con altri Radicali imbavagliati o, in un’altra occasione, vestiti da fantasma. Si trattava per loro di escogitare un modo per rompere il silenzio della così detta “stampa di regime”. L’obiettivo consisteva nel mettere a nudo come il regime partitocratico avesse determinato l’occupazione sistematica del potere delle aziende pubbliche attraverso forme “spartitorie” (secondo un criterio di rappresentanza partitocratica) delle televisioni e dell’informazione pubblica. Si trattava quindi prima di tutto di combattere il “regime partitocratico” della prima Repubblica, considerato “regime” poiché illegale per il sistematico mancato rispetto della nostra costituzione e per il modo in cui si sono finanziati i partiti: illegalmente e “legalmente” attraverso il finanziamento pubblico della politica.

Un partito che combatte contro i partiti appare immediatamente nella forma del paradosso: come agire come partito contro la partitocrazia senza diventare un partito come gli altri? Questo è il senso di una lotta partigiana incentrata su singole proposte: Pannella, una volta conquistato il consenso o l’obiettivo voluto, ha scientemente disinnescato il consenso del partito per riazzerarlo e ricalibrarlo su un’altra battaglia, invece di posizionare il partito e la sua organizzazione verso un consolidamento del consenso. Una forma definitiva di “irraggiamento” dove dal nucleo di azione romano si offre energia propulsiva attraverso le associazioni sui territori. Questo impianto organizzativo è stato messo in opera per far sì che la propria azione non venisse omologata alla partitocrazia, ma rimanesse “lotta partigiana”, “corsara”, contro “il regime partitocratico”. Un opposizione ferma a quello che è stato definito, appunto, un “regime democratico” per esprimere la violenza inscritta nella mancanza di “stato diritto”, cioè nel mancato rispetto delle regole del gioco democratico e della stessa Costituzione.

Alla base del pensiero liberale vi è l’individuo e non i partiti. Per questo motivo, il bipartitismo e il modello di legge elettorale uninominale sono intesi come i modelli più aderenti alla valorizzazione del ruolo dell’individuo. Il modello è quello americano: un sistema in grado di ridurre il numero dei partiti al fine di porre al centro della competizione elettorale il cittadino. Il modello elettorale, così come la forma partito, sono pensati al fine di rendere il più diretto possibile il rapporto tra individui e rappresentanti politici, eliminando il maggiore numero di filtri che si frappongono naturalmente tra questi due attori sociali. Si tratta di un’ingegneria istituzionale immaginata per favorire l’azione individuale. Seguendo la stessa logica, si è affermata l’importanza del modello federalista in quanto avvicina il cittadino ai propri amministratori: per suo tramite, infatti, la decisione sui territori viene esercitata da chi li abita.

I Radicali Italiani non hanno concesso, se non in rari casi, il proprio simbolo per elezioni amministrative; ancora una volta, farlo avrebbe comportato un voto valoriale e l’adesione a un progetto politico e ad un programma del candidato. Il candidato non sarebbe stato eletto sulla base della propria capacità di portare avanti un suo progetto politico, bensì grazie al simbolo del partito avrebbe acquisito voti e goduto di lotte che altri hanno fatto. Il voto sarebbe gravitato attorno a un simbolo e non a una persona e al suo programma. Simbolo che veicola come alcuni Radicali hanno affermato e riaffermato, ma sempre seguendo la logica del votare per la persona e per le sue idee e non per l’emblema di partito in quanto tale come avveniva per gli altri soggetti politici: da questo ambiente politico sono emerse, contro i simboli dei partiti tradizionali della così detta “prima Repubblica”, le prime liste col nome “Pannella-Bonino”.

Il partito Radicale si è dimostrato essere “diverso” anche a partire dal suo statuto: il partito diventa uno strumento di lotta contro le forme di potere politico che non pongono al centro l’individuo, bensì la società, lo Stato e i partiti. Si tratta invece di rovesciare la piramide e di partire dall’unità minima rappresentata non dalla famiglia ma dall’individuo stesso. Tale presa di distanza rispetto al potere partitocratico nella prima e nella seconda Repubblica ha comportato prese di posizione difficili da comprendere e da comunicare. Il fatto, per esempio, di schierarsi a destra, così come a sinistra, è stato uno dei punti più controversi: nella prima Repubblica la realizzazione del programma elettoraleera di fatto “decorativo” per la campagna elettorale, nessun governo sarebbe mai caduto per il mancato rispetto di parte del programma, né le campagne elettorali erano incentrate sul programma politico quanto piuttosto su un orientamento politico per esempio anti o pro comunista. In ogni caso vigeva l’alibi che se non si realizzava un certo obiettivo era perché uno dei partiti alleati di governo non lo aveva consentito, quindi il mancato obiettivo politico non era mai responsabilità di un singolo soggetto politico. Tale frantumazione partitocratica ha comportato il ricorso sistematico al voto e l’impossibilità di governare per l’intera legislatura. Negli Stati Uniti, invece, è piena responsabilità dell’individuo realizzare il proprio programma. È in quest’ottica, di programmi e non di astratti valori, che i Radicali hanno impostato le alleanze e il loro modo di intendere la politica, per dirla con Pannella, con “guelfi” e “ghibellini”, ossia con chiunque tra di loro fosse pronto a sostenere il maggior numero di punti del programma Radicale, siano esse forze di “destra” o di “sinistra” tanto solo apparenti diversità perché complici di quel unico sistema di illegalità che hanno definito “regime”. Parlare di “regime” in un sistema democratico appare paradossale se non lo si intende, ancora una volta, come elemento processuale, ossia come ciò che conduce un sistema democratico ad un regime: la progressiva perdita di trasparenza, libertà, rispetto delle regole, della costituzione e del diritto.

 

3. Individuo, laicità e diritto

 

Cardine del pensiero liberale è l’individuo e le sue responsabilità: il principio è che ognuno possa decidere sul proprio corpo e della propria soggettività, posto che queste decisioni non compromettano le libertà altrui. Il realismo Radicale analizza un fenomeno presente, che c’è nel tessuto sociale, per regolamentarlo, per iscriverlo nel delicato rapporto dei diritti e dei doveri: questo schema è valso per tutte le battaglie antiproibizioniste, per la prostituzione, per la legalizzazione delle droghe leggere, così come per l’aborto e il divorzio. Alcuni fenomeniproducono meno danni sociali quando vengono legalizzati: quindi una buona legge regolamentando il fenomeno dovrebbe anche ridurlo, come è stato nel caso dell’aborto. Senza entrare nel merito di casi specifici vediamo come il concetto di “laicità” giochi un ruolo rilevante nel pensiero dei Radicali e si rapporti al concetto stesso di “individuo” posto relativamente in relazione al contesto sociale. Intendiamo per laicità un atteggiamento e un metodo alla cui base vi è la ragione: un atteggiamento critico e antidogmatico. Ciò comporta la possibilità di poter mettere in discussione idee o presunte verità: nessuno è depositario di verità ultime e definitive più di quanto non lo possa essere chiunque altro. Il realismo, qui implicito, non comporta l’accettazione passiva della realtà anzi si afferma la verità proprio in quanto non dipendente dal soggetto: in questo senso dato che non ci appartiene non può essere rivendicata come nostra né imposta agli altri. Noi siamo nella verità nel senso che siamo costitutivamente aperti ad essa; attraverso l’esperienza e la ragione cerchiamo di affermare delle verità, il che rende la nostra una posizione opposta al “relativismo culturale”.

Dato che le nostre convinzioni possono non coincidere con le convinzioni altrui, si tratta di salvaguardare la possibilità di poter decidere di sé senza che ciò comporti alcun obbligo diretto per gli altri. “Soggettività” che prima di tutto ci lega in modo imprescindibile al nostro vissuto e al nostro modo di sentire la vita: il nostro corpo determina la nostra partecipazione al mondo della vita. Il nostro corpo non è – come ci ha insegnato la fenomenologia – una semplice cosa tra le cose. Esso è anche una cosa, ma allo stesso tempo è il nostro punto di vista sulla realtà: un’apertura fondamentale al mondo e agli altri. Tale prospettiva non va vissuta come un limite alla nostra conoscenza, ma come ciò che rende possibile la nostra conoscenza. Una soggettività che si interroga sul senso stesso dei saperi che si vogliono oggettivi: sulla scienza, ma anche e congiuntamente su di sé, su come cambia la nostra soggettività rispetto e in relazione a quei saperi. Il nostro è un “corpo vissuto” che non possiamo mai oggettivare in prima persona, altrimenti diventerebbe una mera cosa, ossia un corpo morto. Può apparire strano che vi possanoessere circostanze in cui possiamo trovarci nella condizione di non avere l’ultima parola su noi stessi e sulla nostra vita, in cui non possiamo più decidere del nostro corpo. Il “caso Welby” è da questo punto di vista particolarmente emblematico. Se ci trovassimo in una situazione analoga, infatti, avremmo perso il diritto di scegliere se continuare o sospendere la terapia, ossia, privati dei nostri desideri, ci troveremmo nella situazione in cui non possiamo né discutere né scegliere. Quindi prima il medico deve chiedere il nostro consenso per applicare una terapia all’inizio invasiva, ma nel momento che questa è diventata vitale interromperla comporterebbe l’eutanasia. La terapia anche se inefficace e per noi insopportabile a questo punto ci viene coercitivamente applicata: siamo privati della libertà di scelta e della libertà di cura, pur nel pieno delle nostre facoltà mentali e quindi pienamente consapevoli delle conseguenze che ogni decisione comporterebbe per noi. Ci troveremmo, come Welby, imprigionati nel nostro corpo e privati del diritto all’autodeterminazione sulla nostra persona. Non discutiamo se la scelta dell’individuo sia giusta o sbagliata, ma se Welby debba mantenere il diritto di poter decidere sulla propria vita.

La capacità d’inclusività di una legge è legata alla questione se essa è concepita tenendo conto dell’insieme degli individui e non solo di una parte di essi, fosse anche, questa parte, maggioritaria. In questo senso i diritti civili fanno leva su ragioni di diritto e non sul costume o sulla morale della maggioranza dei cittadini. I neri negli Stati Uniti hanno rivendicato parità di diritti rispetto ai bianchi, benché questo diritto non sia stato rivendicato in funzione del numero delle persone di colore. Similmente, i diritti rivendicati dagli omosessuali vengono rivendicati in nome delle loro ragioni, ossia in nome della corretta rivendicazione dei loro diritti contro ciò che viene giudicata una discriminazione, e ciò a prescindere dal numero di omosessuali.

Date queste premesse, potremmo chiederci dove, secondo i laici, andrebbe collocata la sfera religiosa. La risposta è semplice: alla coscienza individuale. La relazione “io-altro” presuppone che la “nostra” volontà, così come la nostra fede, possa non coincidere con quella altrui. Se concepite laicamente, le leggi possono consentire di regolamentare la vita degli individui senza che nessuno debba rinunciare alla propria fede, riducendo così al minimo la costitutiva situazione conflittuale tra individui e società. Il “laicismo” non è “relativismo culturale” dove ogni “valore”, “idea”, “principio” è identico ad un altro. Esso va ricondotto prima di tutto al modo di concepire le leggi, negoziabili secondo un principio di ragione, in grado di governare una molteplicità di individui e non intese come il riflesso di dogmi o verità possedute da una parte della comunità. I diritti individuali all’interno dello Stato si basano su una costitutiva appartenenza a una medesima relazione di alterità, nella quale l’altro non decide per noi e viceversa. Un simbolo religioso, per esempio, in una scuola pubblica o in un ospedale – la scuola dell’obbligo come gli ospedali sono per tutti e non solo per la maggioranza degli studenti o dei pazienti – diventa un elemento di esclusione di quella parte della comunità che non appartiene a quella religione e che ha pari diritti rispetto agli altri di essere rappresentato da quella scuola o istituzione. È altresì singolare che in una scuola pubblica l’insegnante di religione non venga reclutato e selezionato come gli altri docenti. La cultura cristiana e cattolica fanno parte di un patrimonio comune senza il quale sarebbe impossibile comprendere la storia dell’arte e la nostra cultura, quindi è fondamentale studiare la storia delle religioni a scuola – in primo luogo quella cattolica –, il problema va circoscritto ai temi trattati (oggi non si studia storia delle religioni) e alla selezione dell’insegnante deputato a tale insegnamento che deve avvenire come per tutti gli altri.

Questo è un esempio di che cosa significhi essere anticlericali e di come tali proposte incarnino uno spirito laico. Il senso della laicità coincide quindi con l’affermarsi della razionalità del logos. Laicità non è sinonimo di ateismo: incarna uno spirito critico e antidogmatico, ma non antireligioso. Nessuno è depositario di verità ultime e definitive più di quanto non lo sia chiunque altro: la verità in senso stretto non ci appartiene ed è indipendente da noi. Se laicità è sinonimo di razionalità, il diritto non può che essere laico, sia che si ponga l’accento sulla sua genesi, sia che lo si sposti sulla sua applicazione. Il tema della laicità è decisivo perché, da un lato, riguarda tutti (anche etimologicamente il termine laikos, deriva da laos, il popolo), e, dall’altro, coinvolge dinamiche di vita fondamentali per la società, come il nostro modo di relazionarci agli altri e alle istituzioni.

Ci siamo qui soffermati solo su alcuni dei molti tratti che corrispondono e che fanno parte della galassia Radicale, uno dei tanti modi in cui possiamo “ripartire da Marco Pannella” per riflettere sulla politica. Uno specchio, quello Radicale, che ci fa riflettere a partire da noi stessi, dalle nostre vite private, e che ci consente di trovare nella vita privata il motivo di una lotta politica: di prendere posizione rispetto al potere che ci conduce a pensare il nostro corpo come una dimensione assolutamente prossima alla politica, che ci rende corpi, soggetti (irrimediabilmente?) politici. Quella di Marco è una vita, e un corpo, prestata alla lotta politica, che fa quanto Pasolini allora lo ha esortato a fare ossia a continuare a essere sino alla fine: “imperterriti, ostinati, eternamente contrari, a pretendere, a volere, a identificarvi col diverso; a scandalizzare; a bestemmiare”.

 

4. Cosmopolitismo, potere e filosofia della tecnica

 

Si è inizialmente presupposta la “libertà individuale” e il gioco democratico che l’accompagna: tuttavia l’individuo e la sua libertà non sono mai qualcosa di isolato, di perfettamente autonomo, ma si inseriscono sempre in un sistema complesso relativamente stabile. Quella che abbiamo indicato come l’origine della “forza” Radicale – l’incarnarsi in un pensiero in azione programmatica in divenire, e non incentrato su un’ideologia definita sulla base di un fondamento stabile e determinato – rappresenta allo stesso tempo la potenza e il limite: lo stesso potremmo dire sia per il Partito Democratico americano sia per il processo di “americanizzazione” del globo.

Già in altri contesti si sono indicate due idee-guida (in Manifesto per una sinistra cosmopolita, a Nostra cura) per la politica in modo da offrire un fine ideale-regolativo a questa prospettiva politica di matrice liberale: “democrazia diretta” e “Stati Uniti del mondo”. Due idee guida regolative che possono segnare una via per attraversare le crisi che accompagnano l’organizzazione delle moderne società di mercato incentrate sul capitalismo finanziario. Queste idee rappresentano la direzione che possiamo intraprendere come soggetti politici cosmopoliti per fornire una risposta politica agli squilibri dell’economia globale; ciò deve avvenire attraverso il progressivo oltrepassamento dello Stato nazionale e il superamento delle categorie politiche che ne derivano. La partita tra conservatori e progressisti si gioca qui e non tra variopinte e modeste forme di lotta anti-capitalistica. Tale opposizione non farebbe altro che riproporre gli antiquati schemi politici del passato: non vi è un “nemico” da abbattere, un sistema da combattere, un Marx da riabilitare. Questo sistema è già il risultato della nostra storia. Si tratta invece di favorire spazi politici in grado di autodeterminarsi nella diversità della molteplicità delle forme di trasformazione in atto nei territori. L’ordine mondiale consiste prima di tutto nella libertà dell’individuo di essere cittadino globale. Mentre i grandi agglomerati metropolitani sono funzionali al capitale finanziario, le nuove realtà territoriali potranno essere degli spazi politici energeticamente e politicamente autonomi, se pur connessi a quegli aspetti della società che, per loro natura, sono necessariamente globali: la conoscenza, il sapere e la condivisione di informazioni. Sono spazi politici eterogenei capaci di sperimentare differenze entro un’unità di sistema condiviso. Questo in sintesi sarà il possibile orizzonte cosmopolitico verso cui tendere.

Il rilancio di una cultura cosmopolita si accompagna ad una filosofia di matrice realista-materialista capace di riconoscere verità e valori comuni che, in quanto indipendenti e non soggettivi, sono in grado di giocare il ruolo di attrattori: forze aggreganti che conducono all’unità politica della Terra (Morin usa il bel concetto di “Terra-Patria”) entro una molteplicità di sistemi locali.

Il sistema capitalistico se vuole autoalimentarsi continuando a spostare merci e capitali liberamente nel globo dovrà, prima o poi, consentire alle persone di fare altrettanto e questo sarà il primo segno dell’affermazione di una cultura cosmopolita. Le grandi sovranità nazionali dovranno quindi cedere il passo a sovranità indipendenti di piccola scala, organizzazioni sociali relativamente stabili (o metastabili): micro-realtà, città, villaggi-globali che si intrecciano in un sistema di connessione condiviso, lo spazio virtuale sarà così la vera realtà politica. Unicamente attraverso la progressiva affermazione di una cultura cosmopolita sarà possibile bilanciare il potere della finanza globale, curare i mali che affliggono la Terra e regolare i processi economici rendendoli sostenibili per il nostro ecosistema. Un capitalismo giocato unicamente da attori nazionali sarà non solo strutturalmente debole rispetto alla finanza globale ma, basandosi sull’egoismo e sulla volontà di sopravvivenza dei singoli Stati nazionali, metterà a costante rischio il globo consumando risorse in modo da non poterne regolare l’equilibrio. Una tale competizione produttiva – che caratterizza l’attuale assetto – comporterà a breve termine l’annientamento delle risorse e degli ultimi patrimoni “naturali” dell’umanità.Con ciò abbiamo solo sfiorato la complessità del fenomeno della società globale, ossia di come regolarne il cambiamento entro un assetto democratico.

Il realismo ci ha portato a riconoscere il sussistere di sistemi metastabili all’interno delle forme di organizzazione sociale, ossia forme di energia che spingono all’equilibrio, a forme autopoietiche dell’organizzazione della materia e del vivente. Tali archetipi metastabili sono il risultato della storia e del suo sedimentarsi sociale che oggi chiamiamo “democrazia” e “capitalismo”. Queste forme sociali metastabili hanno dimostrato maggiori capacità di adattamento e di equilibro rispetto al “comunismo” e ad altre forme di governo al fine di organizzare la convivenza degli individui entro un sistema. Il proseguimento di questa indagine filosofica ci conduce lontano dallo scopo circoscritto di questa nostra riflessione; tuttavia, possiamo almeno indicare la direzione in cui è ulteriormente possibile sviluppare questo discorso iniziato dall’analisi del pensiero liberale e dal pragmatismo dimostrato da alcune sue espressioni come il Partito Radicale ma, soprattutto, dal Partito Democratico americano. È una facile previsione quella per cui il sistema capitalistico, così come noi lo conosciamo, sia destinato a non reggere a lungo (del resto nulla regge “a lungo”). È altrettanto scontato che tale declino non avverrà in nome della riesumazione di fantasmi ideologici del passato. Se riusciremo ad ottenerlo prima di ulteriori guerre, l’unica prospettiva politica che potrà rendere sostenibile il cambiamento globale è quella cosmopolita che si articolerà attraverso un doppio movimento: dal basso verso l’organizzazione di piccole realtà autonome (energeticamente e politicamente relativamente indipendenti) in un tessuto globale e, dall’alto, verso gli Stati Uniti del mondo. Questo passaggio sarà inevitabile se vogliamo salvarci dai singoli egoismi degli Stati belligeranti che popolano il pianeta. Mentre i singoli individui possono competere senza danni per l’equilibrio del sistema, gli Stati nazioni sono ormai concorrenti troppo invasivi rispetto al delicato ecosistema che li ospita, ossia la Terra. Lo sviluppo del capitalismo si nutre della Terra impoverendo ad un ritmo esponenziale le sue risorse, facendo venir meno la stessa possibilità di abitabilità della nostra Terra-Patria. Gli Stati nazionali incrementano la loro potenza competitiva attraverso il progresso scientifico-tecnologico, tuttavia tale forma di “egoismo” del singolo Stato può determinare in qualunque momento la rottura dell’equilibrio globale. Quest’ultimo è il tratto essenziale del discorso: lo sviluppo del capitalismo si deve basare necessariamente sul progresso scientifico-tecnologico per poter trovare soluzioni utili per compensare le risorse e per riparare ai danni dello stesso capitalismo. Il rapporto tra conoscenza scientifica-tecnologica e politica non è più scindibile e ci costringe a rivedere anche gli strumenti concettuali che ci consentono di analizzare l’organizzazione della società. È da questa prospettiva, qui solo accennata, che possiamo comprendere appieno il vantaggio di una politica senza un fondamento ideologico stabile e in che senso abbiamo affermato che ciò rappresenta il vantaggio ma anche il limite o, meglio, il venir meno di un limite posto dalla politica al progresso scientifico tecnologico. A partire da quest’ultimo – che Emanuele Severino ha indicato come il necessario capovolgimento da mezzo a fine dell’apparato tecnologico-scientifico – che si sta determinando il progressivo smantellamento delle forze, di tutte le forze ideologiche, che gli si oppongono nell’illusione di sfruttare la tecnica come semplice “mezzo”.

L’ibridazione dell’uomo con la tecnica sarà il tema che la politica si troverà ad affrontare sino al venir meno della politica stessa, al venir meno del concetto di “potere” come forma inalienabile della soggettività politica. Questa è la prospettiva teorica su cui stiamo lavorando: il potere è un aspetto coessenziale alla vita politica degli individui all’interno di una società? Si tratta di comprendere se la regolamentazione intersoggettiva passi necessariamente attraverso forme di “potere” (e di microfisica del potere), oppure, possa regolarsi in modo da esserne priva (il che implicherebbe un riesame del pensiero “anarchico”). La nostra prospettiva, che qui appare solo come un’ipotesi di lavoro, è che l’ibridazione uomo-tecnica tenda progressivamente a far venir meno questo nesso essenziale tra la vita politica e il potere. Indagare filosoficamente il senso della politica ci ha portato dalla tecnica all’homo technologicus:rimane un problema aperto se tale nesso uomo-tecnica si possa articolare attraverso un confronto proficuo col pensiero liberale o se, come riteniamo, comporti invece un cortocircuito con il pensiero politico in quanto tale. Si tratterà allora di cogliere il senso del venir meno del nostro essere un soggetto politico: una soggettività destinata, grazie alla tecnica, ad un’espansione che oltrepassa l’homo sapiens e i cui esiti si intravedono appena – si intravedono nel limite dell’animalità del nostro sguardo.

 

 

 

 



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