Qualche giorno fa, su «La Stampa», ho letto un articolo a firma di Niccolò Zancan, che s’intitolava: Nella New Town dell’Aquila: “Crolla tutto, ma restiamo qui”. Il sottotitolo proseguiva: A 7 anni dal terremoto le case costate un miliardo cadono a pezzi. Tra i residenti rabbia e rassegnazione: “Dove dovremmo andare?”. Il tutto era accompagnato da un reportage video e fotografico: Il simbolo della ricostruzione fallita, ecco in che stato sono le nuove case, in cui si documentava lo stato di abbandono di una città spettrale – immagini da far venire la pelle d’oca.
Crolli su crolli, dunque. Nuove macerie cadute su quelle sanguinose del 6 aprile 2009, tra cui i calcinacci e la polvere risultanti dal crollo del Convitto Nazionale, «dove morirono tre studenti minorenni». Non solo, quindi, «nulla è tornato a posto», ma lo scempio continua ad oltranza – e ciò in barba al luogo edenico prospettato dal sito web allestito, ai tempi della ricostruzione, dalla Protezione civile (link, peraltro, ancora consultabile). Dove si parla di residenze che sono vere e proprie oasi nel verde, «progettate con i più avanzati criteri di sostenibilità». Solo che questo prodigio antisismico pare non avere nemmeno resistito alla pioggia e al vento – nonostante l’investimento di 4 miliardi e quattrocento milioni di euro. Una bella prova di abilità, ancora più scandalosa perché sbattuta in faccia ai superstiti: coloro che cercano faticosamente di ricominciare a vivere, trovando una ragione del perché io (che sono ancora vivo) e non l’altro (colui che non c’è più, che mi manca, che non rivedrò mai più, sopraffatto da frantumi, polvere e calcinacci).
Dello stesso tenore è l’articolo apparso il 6 aprile su «il Fatto Quotidiano», in cui si fa notare come «i balconi delle casette continuano a crollare»: il primo a venir giù è del settembre del 2014, e poi un po’ alla spicciolata fino a quello a ridosso del settimo anniversario della terribile sciagura che causò 309 vittime. Casette modello che diventano trappole mortali, che cedono l’una sull’altra, in serie, come in un gioco di carte. Non male come rimedio alla sciagura. Come a intimare che nessuno deve dimenticare che tutto, da un momento all’altro, può andare in briciole. Un inno, insomma, alla provvisorietà.
E mi è tornato in mente un bel saggio di Freud, Caducità, scritto in pieno conflitto bellico (1915). Anche a me verrebbe da scrivere: «No, non è possibile che tutte queste meraviglie della natura e dell’arte debbano veramente finire nel nulla…». Ma, in questo caso, non vorrei contestare per nulla al mondo «che la caducità, la limitazione temporale del bello implichi un suo svilimento»: qui parliamo di vite e di morti, non è dato appellarsi ad una redenzione di carattere estetico. E nessuno ha diritto di invocare la retorica dell’eternità dei valori dello spirito. Ma di bellezza, in questa triste vicenda, del resto non si è mai parlato. Si è assistito piuttosto alla sostituzioni di pezzi di storia (abbandonati al proprio disfacimento) con prefabbricati della consistenza dei sogni di resurrezione.
Di questa vicenda voglio solo evidenziare il paradosso che colpisce ad un tempo l’immaginario e la dura realtà dei fatti. Una realtà entropica, destinata a collassare su se stessa, che avrebbe trovato un degno cantore soltanto in Philip K. Dick – l’autore di Blade Runner, per intenderci (anche se il titolo vero del racconto, prima che il film di Ridley Scott facesse dimenticare che la vicenda è tratta da un romanzo, in realtà suona Ma gli androidi sognano pecore elettriche?). La precarietà è oggi qualcosa di diffuso, quasi strutturalmente connesso al nostro orizzonte esperienziale, fatto di rifiuti e spazzatura: essa si insinua nelle professioni, in una natura stuprata selvaggiamente, nella vita che ci circonda (insicura e bisognosa di futuro), persino nelle cose inanimate. Ma siamo minimamente consapevoli del fatto che siamo noi gli autori di questo effetto dissolvenza che accompagna il mondo? O che, per lo meno, abbiamo impresso un’accelerazione strepitosa a questo processo in perdita, costantemente in calo, che rasenta quella follia di cui parla DeLillo in Cosmopolis? L’«isterismo ad alta velocità» di un uomo «sintonizzato sui registri del cervello inferiore», secondo cui la logica estensione degli affari è l’omicidio: fino alla distruzione del pianeta, che brilla nella luce assassina delle transazioni virtuali del capitale, coperta dai flussi di bit, tra operazioni di borsa e scommesse all’ultimo secondo.
Il problema vero è che questa realtà marcescente, dove tutto crolla e va in mille pezzi, è il mondo che ci stiamo preparando con le nostre stesse mani – e non soltanto il simbolo del nostro degrado morale e della corruzione che imperversa. E, in questa impresa autodistruttiva, adottiamo tutti i giochi di prestigio possibili. Dapprima costruiamo un modo fittizio e ben congegnato, quel mondo allucinato dell’opulenza e della disponibilità indefinita di ogni cosa che è la ricchissima povertà dell’odierno sistema dei simulacri pronti al consumo; poi, attraverso un altrettanto spettacolare mise en abîme, facciamo svanire il reale da sotto i nostri piedi, gettandolo in preda ad un delirio erosivo (ontofagico, lo chiamerei) che si materializza nelle nostre scelte economiche e nelle nostre attività produttive, volte al profitto a tutti i costi. Assistiamo con sorpresa come all’abile gesto del mago, il quale, con un gioco di prestigio, cela la sua mite assistente dietro il mantello per farla sparire sotto i nostri occhi attoniti. La realtà, qui, brilla per un attimo accattivante e bellissima, a nostro uso e consumo: ogni cosa è conforme al desiderio, come nel Paese di Cuccagna. Ma lo sconcerto è ancora più grande quando scopriamo che non vi è nessuna botola, nessun trucco, nessun illusionismo: il mondo si è dissolto davvero sotto la fitta copertura fatta di spot mirabolanti, didascalie festose e slogan politici (l’estasi da polaroid, scriveva Baudrillard, a cui si piega il nostro apparato percettivo). Al suo posto rimangono solo gli specchi del labirinto di vetro dell’allucinazione mediatica e delle affabulazioni posticce dei fatti, tra le cui pareti splendenti vediamo inseguirsi affannosamente, e poi perdersi, le immagini evanescenti di ciò che è andato smarrito, e noi – tristi attori in un mondo in dissolvenza – con esso.
Come fare a porre fine a questo processo, appena a un passo dalla fine del mondo conosciuto? Prima crolleranno i balconi; poi le scuole; poi saranno abbattuti gli ultimi pachidermi; poi verranno giù in grattaceli, mentre le montagne saranno livellate e imari s’innalzeranno coprendo ogni cosa… e poi? Mi pare una vana speranza il dire, ancora con Freud, «una volta superato il lutto si scoprirà̀ che la nostra alta considerazione dei beni della civiltà̀ non ha sofferto per l’esperienza della loro precarietà̀. Torneremo a ricostruire tutto ciò̀ che la guerra ha distrutto, forse su un fondamento più̀ solido e duraturo di prima». Al momento risuonano ancora agghiaccianti, quasi un ghigno beffardo all’oltretomba, le parole intercettate la notte tra il 5 e il 6 aprile, agli atti dell’inchiesta “Grandi Opere”: «Oh, occupati di ’sta roba del terremoto perché qui bisogna partire in quarta subito… Non è che c’è un terremoto al giorno». In realtà, non abbiamo nemmeno iniziato a scandalizzarci.