Dall’etologia filosofica al postumano: intervista a Roberto Marchesini

L. C. : Le tue ultime riceche sono il sunto di un percorso che mira a ricongiungere due sorelle divise alla nascita: etologia e filosofia. Da Dominique Lestel a te gli approcci oggi sono tanti: ma quali sono le specificità della “tua” etologia filosofica?

Ho iniziato il mio percorso partendo da due quesiti, per certi versi svincolati, ma che hanno notevoli convergenze. Il primo riguardava il carattere di soggettività, vale a dire se, perché e in che modo essere-animali non corrispondesse al paradigma cartesiano di automa, al di là della riflessione sulla coscienza, che mi sembrava un modo tautologico per criptare il problema. La risposta che mi sono dato è complessa ma nasce da una riflessione su cos’è una macchina, perlomeno per come la concepiamo oggi. Una macchina non ha un qui-e-ora perché è completamente immersa nel qui-e-ora, pertanto ogni sua funzione risponde a una matrice causale isocrona. L’animale invece è una struttura aperta, fatta di matrici causali sovrapposte per cui non può essere spiegato in modo esaustivo togliendolo dal flusso diacronico. Si tratta di una differenza importante perché, mentre una macchina può essere compressa in un algoritmo, con un animale questa riduzione non regge. Ogni individuo si trova in questo flusso, appartiene in parte a un passato che detta desideri che lo sopravvengono, si proietta sempre in un futuro anche nell’immobilità, questo gli fa emergere un presente, che – se ci pensiamo – è un tempo inventato, creato apposta dall’animalità attraverso un’azione congiuntiva. Essere animali significa pertanto andare oltre le proprie dotazioni, essere creativo, anche per il semplice fatto di inventare una presenza. L’animale desidera: sente ed elabora le informazioni perché desidera, non il contrario. La coscienza è solo una delle tante espressioni di questo essere desiderante che riguarda la corporeità dell’animale, quale struttura implicitamente intenzionale. A questo punto è ovvio che per me il problema non sta nei predicati di una particolare specie, nella descrizione dei suoi modi espressivi, ma nella condizione meta-predicativa del suo essere. Da qui il secondo problema, quello di definire un modello meta-esplicativo, a differenza dell’etologia tradizionale che accettando la spiegazione meccanicistica della res extensa si limita a descrivere-spiegare il tipo di macchina verso cui far confluire l’animalità. Rispetto al modello meta-esplicativo parto dall’idea che le dotazioni non siano automatismi bensì strumenti a disposizione dell’individuo, cosicché la dotazione in sé non possa spiegare l’utilizzo/espressione ma il range dei possibili utilizzi/espressioni. Ogni dotazione innata e appresa è pertanto come la mappa di una città, utile-necessaria per fare un itinerario ma non imperativa sull’itinerario e pertanto non esaustiva nello spiegare il percorso prescelto. Andavano pertanto modellizzate dette dotazioni uscendo dal vicolo stretto degli automatismi associativi o pulsionali. Infine occorreva specificare questa titolarità emergente sulle dotazioni, evitando la china tautologica dell’homunculus o della res cogitans. Si tratta di un buon terreno di riflessione che mi auguro possa aprire un dibattito e trovare ulteriori contributi. Non si può, a mio avviso, affermare che gli animali non sono macchine e poi non rimettere in discussione quella struttura paradigmatica che inevitabilmente li rende tali.

 
L. C. :  Il concetto di postumano così come lo hai declinato in questi anni, anche nella nostra conversazione pubblicata nel 2014, e quello di etologia filosofica, cosa hanno in comune: in che modo studiare il comportamento altrui aiuta a modificare la propria stessa immagine?
C’è una stretta relazione tra la mia ricerca in etologia filosofica e la proposta postumanistica, che parte dal fatto che vi possa essere uno scambio intersoggettivo tra l’essere umano e le altre specie, rifiuto del logocentrismo come momento referenziale, accettazione dell’eterospecifico come alterità, in grado cioè di modificare l’essere umano. Questo presupposto è fondamentale per uscire dalla trappola umanistica dell’antropocentrismo ontologico che considera l’essere umano come entità autarchica e autopoietica, in grado di servirsi del non-umano ma rimanendo impermeabile a esso. Questa visione umanistica conduce a una sorta di autarchia esistenziale, alla pretesa cioè di fondare l’umano iuxta propria principia, definendo dei confini e riportando l’essenzialismo all’interno dell’ontologia. La comune condizione di essere-animale, quale soggettività creativa e dialogica, stermina qualunque pretesa di porre dei confini di ordine ontopoietico tra l’essere umano e le altre specie, cosicché si possono ammettere flussi di contaminazioni transpecifici. Occorre superare sia la dialettica esclusiva del polemos (l’essere come opposizione) sia la lettura relazionale (l’essere come predicato della relazione) per arrivare a una lettura inclusivo-referenziale (l’essere come interpretazione) che mette insieme il connotato biografico con l’incontro con l’alterità, che a questo punto, proprio perché inclusa-interpretata, oltrepassa il suo dato fenomenico per diventare epifania, vale a dire essere in grado di suggerirmi qualcosa che mi riguarda (l’altro-con-me). Come ricorderai, per me il concetto di “epifania animale” sta alla base della visione postumanistica, che considera l’essere umano un frutto ibrido, l’esito di una copula, non un’entità pura, impermeabile, capace di autofondazione. L’etologia filosofica che propongo considera l’innato o se vogliamo la specie non come una bolla contenitiva ma come un tappeto elastico che consente all’individuo di realizzare in modo creativo e singolare le proprie piroette. L’altro-di-specie pertanto non è un estraneo o un alieno, ma uno che sta saltando insieme a me, anche se attraverso un diverso tappeto, e questo fa sì che io possa capire la radice comune che ci lega e possa scambiare con lui le informazioni sulle diverse prospettiche che ci caratterizzano. Insomma non siamo mai stati soli su questa terra e abbiamo dialogato con le alterità, anche senza poter contare su un linguaggio comune. Si può dialogare anche senza logos? Certamente come dimostra il linguaggio più importante nella nostra costruzione personale, quello che intratteniamo nei primi mesi di vita con la mamma. Gli animali ci hanno cambiato proprio perché dotati di una soggettività che non chiede antropomorfismi per essere riconosciuta. A mio avviso postumanismo significa superare l’antropocentrismo ontologico, anche nella definizione di cosa ha contribuito a realizzare quella condizione umana fatta di rituali, danze, musica, cosmesi, parole, moda, tecnologie. Del resto la seduzione che proviamo verso le macchine ha avuto un lungo apprendistato di relazione con gli animali ed è innegabile il nostro desiderio di costruire una macchina gratificante-referenziale quanto può essere un animale.

 

L. C. : Hai sempre dato all’etica un ruolo secondario: non nel senso che la sottovaluti, ma nel senso che credi segua dall’ontologia. Che etica segue, se segue, da questa etologia filosofica?

 

Innanzitutto ritengo che esista un nesso tra alcune disposizioni animali e la riflessione etica, che non significa una discendenza diretta, ma una complessa struttura genealogica sì. La nostra appartenenza tassonomica di mammiferi e di primati ci conforma verso particolari comportamenti, alcuni dei quali possono essere considerati dei precursori o delle tendenze utili per lo sviluppo di alcuni valori importanti come la solidarietà, l’aiuto, la compassione, la cura, l’altruismo. Non sono pertanto d’accordo nel trasferire l’etica in un’algida computazione consequenzialista, anche se ritengo che l’etica si nutra altresì di riflessioni e rappresentazioni che esulano dal quadro emozionale e motivazionale o più genericamente dalle componenti affettive. Ritengo peraltro che vi sia uno stretto rapporto tra la libertà creativa e desiderante che sta al centro del mio concetto di soggettività e i contenuti di responsabilità che ne derivano, per cui senza ammissione di una soggettività sopravveniente le dotazioni non rimane molto spazio per la responsabilità. Diviene allora evidente come per me la questione ontologica preceda quella etica, ma non per un riduzionismo, per cui se mi si accusa di fallacia naturalistica significa non aver seguito quello che sto dicendo. Certo è che quando si deve considerare l’interesse altrui, anche in una logica consequenzialista, al di là del mero carattere descrittivo di questo, occorre saperne valutare non solo l’entità ma soprattutto la rilevanza. Come si fa allora a discutere di critica all’antropocentrismo etico senza mettere in discussione l’antropocentrismo ontologico? Inevitabilmente si cade in contraddizione, come mi sembra sia il caso delle riflessioni animaliste di fine Novecento. Passare a un’etica dell’empatia significa aver superato l’antropocentrismo ontologico, altrimenti si ricade nell’etica della simpatia, perfetta per l’umano ma non per le altre specie. D’altro canto penso che vi sia un rapporto tra etica e tecnologia, che chiede di essere rimesso al centro della discussione, superando le secche in cui lo ha abbandonato il principio responsabilità di Jonas. Ma qui dovremmo fare un lungo discorso sulla filosofia postumanista e l’etica postumanista: penso che questo sarà un tema molto ghiotto e soprattutto necessario nel prossimo futuro.

 

L. C. :  Tu e Cimatti avete, almeno a mio avviso, visioni opposte del problema: sono stato felice di vedere che lo hai scelto per la postfazione. Mi è sembrato, come dire … completare un cerchio teso su due polarità opposte che sono il divenire umano e quello animale. Come si passa dalla filosofia dell’animalità all’etologia filosofica?

 

Ho sempre trovato le riflessioni di Felice Cimatti molto stimolanti, anche perché come quelle di Giorgio Agamben, differiscono dalle mie. Come sai sono un appassionato di contaminazioni e rifuggo il pensiero unico come la peste bubbonica. Stiamo trattando questioni che sono estremamente importanti in questo particolare momento storico e che vanno al di là di un argomento particolare. Abbiamo davanti a noi delle sfide epocali e dobbiamo tutti sforzarci di dialogare sempre e comunque, di fare in modo che il contraddittorio sia alimentato come se fosse un focolare, non per fare una gazzarra inutile, stile anni ‘80, ma per trovare delle sintesi, delle soluzioni. La filosofia dell’animalità indaga il nostro essere-animali ed è ovvio che ci siano diversi modi per vederlo e rappresentarlo. Tuttavia intravvedo degli aspetti comuni e importanti, per esempio nel recupero di una condizione come fondamentale per capire ciò che siamo, quando siamo abituati da troppo tempo a considerarla inessenziale e soprattutto contrastativa e ostativa. Quando parlo di etologia filosofica mi riferisco proprio alla condizione animale, quale dimensione meta-predicativa che accomuna me e un individuo di un’altra specie. Osservando in tanti anni specie molto differenti tra loro, interessato prima di tutto alla loro diversità – perché l’etologo è curioso proprio delle differenze, è un voyeurista che vuole sondare i gusti e gli orientamenti dell’altro – pur non essendo portato all’antropomorfismo, non ho potuto non notare che le differenze riguardano il modo, sono dei contenuti. Ogni individuo è come un romanzo, ma tuttavia c’è una radice comune nell’essere animali: una comunanza che non è data dall’essere uguali, ma dal proiettarsi ugualmente nel mondo con le proprie differenze. Quando senti l’animalità, non hai più bisogno di antropomorfizzare perché in un certo senso ti senti cane, gatto, maiale o quant’altro. L’animalità assomiglia all’ubermensch nietzschiano: tanto desiderio, tanta voglia di mondo, tanta vulnerabilità e poco senso se cercato nell’individuo.

 

 

 

 


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