Cinema del reale e impatto sociale

 

L’inesauribile dibattito sull’effettivo impatto sociale che il cinema del reale dovrebbe innescare all’interno di più ampie dinamiche globali è sempre stato oggetto di inevitabili equivoci e malintesi teorici. Sin dagli albori, il documentario come strumento conoscitivo di cambiamento e innovazione è stato un nodo problematico per due ragioni principali: le ragioni della committenza (statale o privata) e la portata formativa in prospettiva civica. Con la pubblicazione dei suoi “First Principles of Documentary” (1932-34), lo scozzese John Grierson, padre del cinema documentario delle origini, delineò la relazione tra documentario e cittadinanza proclamandone la sua dimensione sociale basata strettamente su un’idea alquanto normativa e normalizzante di consenso. Grierson considerava il consenso sociale come dimensione relazionale, articolata prettamente da un’elite intenta ad elaborare una visione unitaria ed omogeneizzante della società, indifferente alle divisioni di classe, e consapevole di dover mantenere lo status quo attraverso un programma didattico di propaganda sociale. Il flebile confine tra documentario come strumento critico e documentario come strumento pedagogico si sviluppa rispettivamente, come ogni manuale di storia del documentario mette in risalto, a partire dalle pratiche di Dziga Vertov e Robert Flaherty. A quasi un secolo di distanza, il nodo problematico rimane ma con implicazioni notevolmente differenti, soprattutto nel contesto di un dibattito di cittadinanza globale. Il cinema documentario vive sicuramente un momento speciale: ormai sdoganato come prominente forma cinematografica dai festival più blasonati (a partire dalla Palma d’oro a Cannes nel 2004 a Farenheit 9/11 di Michael Moore fino al più recente Leone d’oro nel 2013 a Sacro GRA di Gianfranco Rosi), o rimodellato da Vice Media per i nuovi media digitali con target focalizzato ai millennials (interessante da questo punto di vista, la recente partnership tra l’IDFA di Amsterdam e Vice), il cinema del reale è entrato nel 21esimo secolo come uno dei generi più creativamente sperimentali, anche in forme expanded attraverso i nuovi media (film-saggi, web-documentaries etc…).

L’evento che forse più di tutti gli altri negli ultimi anni ha tentato di creare una piattaforma dinamica per promuovere ed indagare il rapporto tra cinema del reale e impatto sociale è il premio Doc Impact Award, ideato dall’organizzazione non-profit BritDoc (Londra e New York) assieme ad una serie di partner internazionali (tra gli altri, Bertha Foundation, Media Impact Funders, Ford Foundation, Sundance Film Festival) e ormai alla sua quinta edizione. Poche settimane fa sono stati annunciati i cinque vincitori dell’ultima edizione 2016: Chasing Ice di Jeff Orlowski, Citizenfour di Laura Poitras, Food chains di Sanjay Rawal, Miners shot down di Rehad Desai e Virunga di Orlando von Einsiedel. Il Doc Impact Award, accompagnato da strumenti di sviluppo come l’Impact Film Guide & Toolkit resa pubblica nel 2014, è effettivamente il primo riconoscimento che analizza l’impatto reale dei film selezionati in relazione alle loro campagne di distribuzione. In che modo? Con ogni film premiato, viene pubblicato un report di circa 80 pagine che misura e indaga l’impatto tangibile sulla società contemporanea attraverso diversi criteri (trasformazione della percezione pubblica di un dato problema dopo la visione del film, azioni dirette da parte della società civile, proposte di legge attivate, comitati di cittadinanza attiva operativi anche a livello digitale etc).

Citizenfour di Laura Poitras è forse uno degli esempi più emblematici e mediaticamente scomodi premiati dal Doc Impact Award nel 2016, vincitore di oltre 44 premi tra cui l’Academy Award come miglior documentario nel 2015. Costruito a livello narrativo come una sorta di spy-story globale che si articola tra Brasile, Hong Kong, Stati Uniti e Germania ma claustrofobicamente girato dentro una stanza d’hotel, Citizenfour riaccende l’interesse nei confronti di Edward Snowden e la sua decisione, dopo essere fuggito dagli Stati Uniti e nascostosi in un albergo ad Hong Kong, di rendere pubblici documenti segreti che dimostrano le pratiche illegali implementate dalla NSA a livello di massa nei confronti della privacy di cittadini privati. Laura Poitras non solo riesce a fotografare un momento storico di portata mondiale, svelando il dietro le quinte di un evento mediatico e politico che ha avuto ripercussioni considerevoli, ma ne è la diretta fautrice. È infatti grazie all’impatto dei suoi film precedenti (My Country, My Country, 2006 sull’occupazione americana dell’Iraq; The Oath, 2010, sulla guerra al terrorismo e Guantanamo), che Snowden la contatta in maniera anonima attraverso un’email criptata sotto lo pseudonimo di citizen four ad inizio 2013. A giugno dello stesso anno ad Hong Kong, dopo quattro giorni intensi di interviste con Poitras, il giornalista investigativo Glenn Greenwald e l’intelligence reporter Ewen MacAskill del quotidiano londinese The Guardian, Snowden sceglie di mostrarsi in pubblico, di rivelare la propria identità e le motivazioni della propria scelta. Considerare dunque la Poitras semplicemente come regista è abbastanza riduttivo; se da un lato sceglie il mezzo filmico come medium per raccontare l’impatto globale delle politiche statunitensi post 9/11 nella trilogia completata con Citizenfour, dall’altro lato combina l’arte del documentario con metodi investigativi molto sofisticati (come ad esempio Tor, free software per comunicazioni anonime). Quella di Poitras è un esempio di pratica interdisciplinare che solo in parte si limita al film documentario come prodotto a sé stante e investe altri campi di ricerca, dal giornalismo investigativo all’attivismo digitale, come indica il suo nuovo progetto di visual journalism, Field of Vision, in collaborazione con AJ Schnack and Charlotte Cook. L’impatto del film tuttavia va collocato nella rete globale di organizzazioni e persone che hanno veicolato la campagna virale per sostenere la battaglia della società civile (specialmente negli Stati Uniti, Inghilterra e Germania) a cercare una soluzione contro la mass surveillance implementata dalla NSA. I numeri presenti nel report parlano chiaro: il processo innescato da Poitras ha avuto ripercussioni dirette su discussioni parlamentari e formulazioni di leggi (tra le altre, nel giugno 2015, il Congresso americano approva la USA Freedom Act che prevede restrizioni sulle misure di sicurezza e sorveglianza della NSA).

Nel contesto italiano, è di pochi giorni fa la lettera aperta scritta dal regista Andrea Segre a partire dall’intensa ed entusiasta ricezione a Berlino di Fuocammare di Gianfranco Rosi, vincitore dell’Orso d’oro. L’appello di Segre invita tutti a considerare il gesto cinematografico di Rosi come necessario ma ad andare oltre al film e alla varie ‘Lampedusa’ del Mediterraneo, spostando l’attenzione dalle frontiere degli eventi mediatici a quel ‘dopo’ che le traiettorie umane dei migranti continuano a percorrere, in sostanza alle loro storie. Mi unisco all’appello di Segre nel sottolineare l’importanza di vedere Fuocammare trasformarsi in uno strumento in grado di mobilitare un dialogo e un discorso pubblico, capace di negoziare il cambiamento sulla percezione pubblica di un fenomeno come la migrazione. È nella misura in cui un film come Fuocammare riverbererà della potenza del suo stesso messaggio che la società civile che lo esalta e accoglie dovrà prendersi responsabilità riguardanti un percorso collettivo di cittadinanza globale. L’esperienza attivata con il Doc Impact Award può essere in questo senso efficace anche per il panorama documentario italiano, parallelamente ai successi internazionali di quel “nuovo cinema rurale” (tipologia che in verità scorre costante attraverso tutta la storia del cinema italiano) rappresentato di recente dalle opere ibride di Michelangelo Frammartino, Pietro Marcello (Bella e perduta), Roberto Minervini, Alessio Rigo de Righi and Matteo Zoppis (Il Solengo).

Impatto sociale non è sempre sinonimo di maestosi cambiamenti globali; al contrario, a volte sono le piccole innovazioni, quei mutamenti minori e quasi invisibili che avvengono ogni giorno a diverse latitudini, che diventano portatori di micro-alterazioni essenziali. Vorrei chiudere questa riflessione prendendo come esempio La Sedia di cartone, uno dei film documentari italiani più premiati del 2015 (in visione durante la rassegna ‘Il Cinema della verità’ a Faenza, il prossimo 16 marzo). La Sedia di cartone è un cortometraggio diretto dal regista veneto Marco Zuin, su soggetto di Luca Ramigni e prodotto da Fondazione Fontana Onlus, St. Martin CSA (Kenya) in collaborazione con Videozuma. Il film racconta la storia di Jeoffrey, un bimbo africano di circa 3 anni affetto da idrocefalo e spina bifida e del cambio vitale di prospettiva avvenuto nella sua vita grazie alla costruzione di un ausilio di supporto alla sua disabilità (una sedia costruita a partire dalla ricerca sviluppata nell’ambito dell’Appropriate Paper-based Technology con il riuso del cartone). Zuin dosa le immagini con infinita precisione, e configura un ritmo d’osservazione attraverso lo sguardo di Jeoffrey aprendo e chiudendo il film con soggettive dirette. Il film, fotografando l’istante del cambiamento e del nuovo punto di vista di Jeoffrey sul mondo che lo circonda, invita lo spettatore ad incontrare la semplicità di un gesto. Accompagnato da un’innovativa campagna di promozione, La Sedia di cartone è un racconto universale che proietta lontano gli sguardi quotidiani di una piccola comunità in Kenya (hub strategico sia per le migrazioni irregolari con varie destinazioni globali sia come paese di destinazione di traffico di esseri umani),* un documento fragile che ci ricorda, come anticipava Segre, che «il problema non sta a Lampedusa o a Idomeni. Sta lì dove partono e lì dove arrivano i viaggi. Lì dove è possibile conoscere i migranti non come corpi schiacciati, ma come persone con idee, progetti e storie. Lì dove è possibile provare a costruire con loro risposte ad esigenze che, pensandoci bene, sono comuni a tutti noi».

* International Organization for Migration, Migration in Kenya: Country Profile 2015, Nairobi: IOM, 2015.



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