Uomini che parlano di donne: il triste caso della maternità surrogata

Quando nei corridoi dei dipartimenti di filosofia e di germanistica cominciò a circolare la voce dell’imminente pubblicazione dei Quaderni neri di Heidegger, molti suggerirono, con una serissima battuta, che almeno una funzione questa mole di pagine l’avrebbe assolta: suggerire argomenti per tesi di laurea, progetti di dottorato, pubblicazioni più o meno scientifiche etc. Il risultato più tangibile della pubblicazione dei Quaderni neri è stato, oltre a una bulimica produzione di saggi e recensioni, l’aver ribadito la divisione della comunità accademica sul caso Heidegger. Verrebbe da pensare alle parole del protagonista dell’ultimo film di Woody Allen (Irrational man), un depresso e brillante professore di filosofia che, alla domanda dell’amante su quali siano i suoi progetti, risponde sarcastico: “ciò di cui il mondo ha bisogno: un altro libro su Heidegger e il fascismo”.
Il dibattito esploso in questi giorni sul cosiddetto “utero in affitto”, in seguito all’annuncio della nascita del figlio di Nichi Vendola, concepito in una clinica californiana con il metodo della surrogate maternity, pare stia ottenendo gli stessi risultati. È letteralmente esploso infatti, all’interno della comunità accademica e del mondo politico, uno scontro netto, una polemica dai toni niente affatto contenuti, fra due fazioni ben distinte. Da un lato gli indignati, che vedono in questa pratica, coerente con l’epoca neoliberale alla quale, volenti o nolenti, apparteniamo, nient’altro che una mercificazione del corpo della donna. Dall’altro lato del fiume coloro che, in nome della logica del diritto alla paternità anche per le coppie omosessuali, sostengono la scelta dell’ex presidente della regione Puglia, sperando che anche in Italia venga introdotta e regolamentata la pratica della maternità surrogata. Per un verso vi è una curiosa somiglianza tra questa polemica e quella sui Quaderni neri. In entrambi i casi, a ben pensarci, nulla di nuovo è stato aggiunto: così come la posizione heideggeriana rispetto al nazismo è ben nota a chiunque abbia aperto almeno un paio di volte un qualsiasi manuale di storia della filosofia, allo stesso modo chiunque abbia spulciato in questi anni la stampa internazionale sa perfettamente che il metodo della maternità surrogata è abbondantemente utilizzato, soprattutto da coppie eterosessuali.
Ci si potrebbe a questo punto domandare per quale motivo proprio il caso di Nichi Vendola abbia fatto esplodere la polemica in Italia (a parte il fatto che gli italiani, notoriamente, non leggono giornali esteri). Due spiegazioni sono evidenti e accettabili da tutti: la situazione politica contingente, ossia il dibattito sulle unioni civili scatenato dal ddl Cirinnà; il fatto che Nichi Vendola sia una figura di spicco del panorama politico italiano. La terza spiegazione, invece, è una specie di segreto di Pulcinella: Nichi Vendola è omosessuale, e questo aspetto ha di fatto scatenato una morbosa presa di posizione, degenerata spesso in dichiarazioni al limite del disgustoso, nella parte più politicamente reazionaria del paese (ossia la maggioranza). La masnada dei sostenitori della natura umana (quale?) e della famiglia naturale (quale?) ha potuto cogliere al balzo l’occasione per serrare i ranghi, coalizzandosi contro un nemico comune. Felicitazioni.
Non è tuttavia questo il punto su cui vorrei concentrare la mia attenzione. È cosa nota che esistano in Italia posizioni politiche facilmente identificabili, chiare e distinte nella loro vocazione “medievale”. Non suscitano interesse nelle persone di buon senso, quanto piuttosto un moto di disprezzo. Particolarmente interessanti sono invece una serie di discorsi proveniente dall’area di sinistra, progressista o persino comunista (sic!). La critica della maternità surrogata proveniente da questi ambienti intellettuali è senza dubbio più raffinata, ma non per questo meno pericolosa. La riassumo molto brevemente: la maternità surrogata rappresenterebbe un abominio sociale e politico poiché, riducendo il corpo della donna a incubatore, lo reificherebbe. La donna diventerebbe un corpo identificato unicamente con le sue funzioni fisiologiche primarie, fra le quali procreare. Questa riduzione della persona alla forma di res sarebbe l’esempio lampante di una dialettica dominante-dominato, nella quale la donna sarebbe in qualche modo costretta a svolgere il ruolo di madre surrogata dietro compenso. E, “ovviamente”, ciò comporterebbe uno svilimento delle donne appartenenti alle classi più disagiate, le quali acconsentirebbero a questa nuova forma di schiavitù pur di riuscire a raggranellare un capitale con il quale sopravvivere. Qualcuno si è persino spinto oltre, definendo la maternità surrogata un “crimine ai danni dell’umanità”, una formula che va bene più o meno per tutto se condita dalla giusta retorica del valore. Un consiglio en passant: si legga con attenzione anche moderata la critica di Carl Schmitt alla nozione di umanità e al concetto di valore, se ne troverà senza dubbio giovamento.
Vi è, in questa retorica fintamente umanitaria, un sostrato stratificato plurisecolare che nemmeno decenni di pensiero critico e femminista sono riusciti a scalfire. Il nocciolo duro profondamente reazionario di questa posizione, ben mascherato oppure inconsapevole – le due cose hanno pari gravità se pronunciate da individui ben avvezzi a una certa letteratura filosofica, antropologica e politologica – consiste nell’individuare nella donna un soggetto assolutamente privo di qualsivoglia forma di libera scelta. In questi discorsi, che si riferiscano al caso specifico come alla discussione generale, viene scientificamente omesso che è la donna, un soggetto che paradossalmente appare come minoritario persino in questa pratica, ad avere deciso di portare in grembo una vita. Con tutti i rischi, le possibili complicazioni, le sicure problematiche che questo atto comporta. La cultura occidentale non ha evidentemente ancora perso il piacere fallico di vedere nella donna unicamente un soggetto debole da difendere dolcemente, proprio come un pastore accarezza le proprie pecore mentre le fa rientrare nel recinto per la notte. L’uomo è un animale politico; la donna, al più, un animale domestico.
In quest’ottica, il fatto che le analisi che in questi giorni hanno insistito su questo aspetto della maternità surrogata siano per la maggior parte il frutto di penne maschili non è in alcun modo un dato secondario. Vi è, intatta e per nulla scalfita, l’idea che sul corpo delle donne il sesso maschile possa avere una qualche forma di voce in capitolo. Come se ancora possa essere accettabile l’idea che l’uso che ogni donna può fare del proprio corpo dipenda, in ultima analisi, da criteri prodotti all’interno di un ordine discorsivo ancora profondamente impregnato di quello che Pierre Bourdieu definiva “il dominio maschile”. Come se l’individuo maschile possa avere una qualche vaga idea di cosa voglia dire, psicologicamente e fisicamente, portare avanti una gravidanza. Come se l’individuo maschile sappia realmente cosa significano tutti quegli aspetti, biologici e sociali, che definiscono un certo modo di essere-donna. Questa costitutiva ignoranza nei confronti dell’altro dovrebbe, quantomeno, suscitare una cautela nel momento in cui ci si accinge a dissertare sull’uso che una donna può fare del proprio corpo.
Anticipo una critica che potrebbe essere avanzata nei confronti del mio discorso. Si potrebbe sostenere che esso non considera adeguatamente le variabili economiche che porterebbero una donna a decidere di diventare o meno una madre surrogata. A questa critica risponderei in due modi differenti. In primo luogo, affermare che la condizione economica determini in linea di principio la possibilità o meno che la donna faccio un certo uso del proprio corpo implica, giocoforza, l’idea che il diritto all’autodeterminazione sia secondario rispetto alle condizioni economiche del soggetto. I sedicenti critici del capitalismo realizzato, allora, dovrebbero spiegare alla massa degli oppressi quali sono i principi che rendono legittima l’idea che la decisione sul proprio corpo sia secondaria rispetto al benessere economico del soggetto: tanti auguri. Oltre a ciò, bisognerebbe ammettere che questa posizione teorico-politica costringe a doversi confrontare con situazioni quantomeno problematiche. Una donna, ad esempio, potrebbe avere diritto a ricoprire il ruolo di madre surrogata in un momento della sua vita e non in un altro. Non vorrei essere nei panni del filosofo del diritto di turno impegnato a risolvere casi simili.
In secondo luogo, dietro questa possibile critica si nasconde, in maniera neanche eccessivamente velata, l’idea che la salvezza arrivi dall’alto, e che la nostra mano sia sempre necessariamente benevola. Affermare che un soggetto in situazioni disagevoli non abbia possibilità di scelta significa arrogarsi il diritto di decidere quale debba essere la via della sua liberazione. Significa, insomma, esercitare una forma pastorale di potere, più simile alla morale cristiana che a un’autentica strategia politica di liberazione, o quantomeno di allentamento, dalle maglie del dominio. La donna che accetta, fosse anche per ragioni meramente economiche, di svolgere il ruolo di madre surrogata, manifesta in realtà una specifica soggettività politica, che non deve essere in alcun modo messa in discussione. Scegliere di mettere in gioco e a rischio il proprio corpo è una scelta politica. Non conferirgli questo valore significa, si abbia il coraggio di affermarlo senza fronzoli, decidere dalla propria prospettiva sociale, sessuale, economica, culturale, i criteri di uso dell’apparato riproduttivo di un altro essere umano. E, a meno di non volere fare il gioco delle tre carte, nel momento stesso in cui questi criteri vengono stabiliti si esercita sul corpo dell’altro una forma di dominio, per nulla annacquato dall’educazione accademica dei suoi sostenitori.
Dovremmo smetterla con la nauseante pretesa di poter avere un diritto di veto sui corpi altrui, fossero anche gli ultimi della terra. Non abbiamo, fino a prova contraria, alcuna patente che ci permetta di parlare a nome di altri. I sedicenti difensori dei diritti degli oppressi, nella loro stucchevole critica della maternità surrogata, non si accorgono che i loro discorsi riproducono quella logica missionaria che, con un unico gesto, sottomette e mette in salvo. Coloro che dai loro caldi salotti – televisivi e non – hanno deciso di farsi carico dei corpi di queste donne, non si dimentichino però quante volte, nel corso della triste storia dell’umanità, la figura del missionario e quella del conquistatore hanno coinciso perfettamente.



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