La modernità si dice in molti modi (ne converrebbero Aristotele e Eisenstadt, incontrandosi a metà strada tra metafisica e sociologia). Quasi contemporaneamente nei giorni scorsi, da tre aree geografiche ben distanti fra loro, tre episodi di cronaca raccontano altrettanti modi in cui Occidente e Oriente seguono le vie del moderno e ne declinano i rapporti con le proprie tradizioni culturali attraverso l’uso dell’immaginazione.
Grandi mutande. Il governo cinese prende posizione contro le stravaganze dell’architettura urbana. A Pechino ha sede la China Central Television, la televisione nazionale, i cui uffici si trovano in un grattacielo alto 234 metri dall’inconsueta forma a doppia L rovesciata che gli è valso il nome scherzoso di “grandi mutande”. La progettazione dell’edificio reca la firma dell’archistar olandese Remment Koolhaas e si inserisce nella vita della capitale quale centro attrattivo per le attività lavorative e per il tempo libero. L’avveniristico hyperbuilding – così definito dal suo stesso architetto – non è un caso isolato nel paesaggio delle città cinesi. Si contende il primato dell’immaginazione architettonica con il palazzo a forma fallica che ospita la redazione del Quotidiano del Popolo; con quello a ciambella di Guangzhou, con la teiera gigante che si può ammirare nel Jiangsu, regione in cui si erge anche un’enorme statua dalle fattezze di pesce-palla. Ardite sperimentazioni che l’urbanistica cinese ha rincorso in quarant’anni di fantasiosa cementificazione e che hanno prodotto repliche di monumenti famosi, dal Pentagono al Canal Grande veneziano sparse tra megalopoli e campagne. Ora il monito arriva dall’ultima Central Urban Work Conference svoltasi a Beijing: nel documento finale ci si esprime in favore di un’architettura che sia appropriata, economica, ecologica ed esteticamente piacevole, mettendo al bando edifici smisurati, esterofili e bizzarri, slegati dall’eredità culturale nazionale, recependo le direttive del presidente comunista Xi Jinping che già da tempo ha condannato le derive moderniste e occidentalizzanti nell’arte pubblica.
Ecco un esempio di politica dell’immaginazione solida, separativa, che aggiorna l’autorappresentazione collettiva sotto la bandiera della purezza nazionale, purezza che si alimenta dello scontro fra un passato mitico e un presente che sa di moderno, dove moderno sa di diverso, alla ricerca delle radici identitarie e ideologiche nelle tradizioni cui si confida di appartenere e che attendono di essere (re)inventate (Hobsbawm docet). Che è poi lo stesso della ricerca di un’utopia politica che non può storicamente fare a meno di un topos reale, di una città da pianificare dove allestire drammaturgicamente simboli concreti, disponibili alla vista e al tatto, per diventare monumento tangibile.
Il presidente inesistente. Dall’altra parte del globo, lungo i corridoi della National Portrait Gallery di Washington sono esposte le immagini che ritraggono i personaggi illustri della storia americana, tra i quali sono inclusi i quarantaquattro presidenti da George Washington a Obama. Ma dal 24 febbraio fino a ottobre l’elenco dei ritratti presidenziali si arricchisce di un nome nuovo: Francis J. Underwood. Sconosciuto al pubblico della campagna politica tra gli attuali candidati alla Casa Bianca, è invece un volto familiare per gli appassionati di House of Cards, la serie televisiva di successo uscita nel 2013 e ormai prossima alla quarta stagione. House of Cards racconta gli intrighi di potere del democratico Underwood, impersonato da Kevin Spacey, e della sua scalata fino alla consacrazione come quarantacinquesimo presidente. Il pittore Jonathan Yeo ha dipinto un’imponente tela di un metro e ottanta per lato dal titolo Kevin Spacey as President Francis J. Underwood esposta al primo piano della Gallery, riuscendo nel tentativo di istituzionalizzare un personaggio immaginario in uno dei più importanti luoghi celebrativi della “storia” americana. La fiction permea e contamina il reale, il reale l’accoglie e conferisce ad essa uno statuto di credibilità temporanea. Non dovrebbe sorprendere, perché non è la prima volta che accade. È la mitopoiesi del XXI secolo, la finzione mediatica che diventa più reale del reale, iper-reale, simulacro à la Baudrillard. Non sono gli Stati Uniti, del resto, la patria del medioevo idealizzato di Disneyland, e non hanno insegnato al mondo che la politica si vince con la retorica dell’immagine televisiva? Ma non dovrebbe sorprendere anche perché è la conseguenza radicale della vocazione alla modernità inscritta nel progetto culturale americano. Una nazione in cui il simbolismo delle istituzioni pubbliche è vissuto dai cittadini come riferimento sacro di una religione civile non può che condurre, alla fine, a elevare il simbolismo pop costruito dai media allo status di realtà socialmente condivisa. L’esempio a tutto tondo di partecipazione democratica alla redazione di un mito di consumo.
La “costruzione” sociale della realtà. I mattoncini Lego si adeguano ai tempi. La nuova linea “City” lanciata sul mercato dalla casa di giocattoli danese inscena la famiglia moderna, composta da un papà dal look hipster con folta barba alla moda, che tiene con una mano il biberon e spinge con l’altra il passeggino. Al suo fianco la moglie, con abiti da lavoro e occhiali dall’aria professionale, pronta a salutare marito e figlio per andare di corsa in ufficio. «Dobbiamo restare in contatto con il mondo che ci circonda e cercare di descriverlo nel migliore dei modi possibili»: sono le parole di Søren Torp Laursen, presidente di Lego System, rilasciate alla rivista Fortune. Secondo i dati del Pew Research Center, in effetti, il numero dei padri che restano a casa e si occupano della cura dei figli, solo negli USA, è raddoppiato negli ultimi trent’anni, passando da poco più di un milione nel 1989 a due milioni nel 2012. Se questo trend non entrasse nel mondo dei giocattoli avrebbe tutt’altro significato. Perché nel giardino incantato dell’infanzia la realtà è tradizionalmente fuori posto e vi trovano dimora unicamente le famiglie convenzionali, non quelle che rimettono in discussione la divisione dei ruoli e dei generi. Lo stesso destino della Lego è toccato, per esempio, alla bambola Barbie, che è andata via via allontanandosi dall’univoco stereotipo della principessa bionda e magra, per introdurre, con garbato cenno rabelaisiano, la Barbie curvy, o quella incinta o, ancora, quella intenta a raccogliere con una palettina i bisogni del cane. L’estetismo ideale classicheggiante si contamina con la fisiologia del corpo. La moderna famiglia Lego ingloba nello spazio dell’immaginazione ludica le istanze della contemporaneità e lo fa proprio sul terreno dei legami parentali, da sempre crocevia di una lotta fra posizioni tradizionaliste e progressiste, fra interpretazioni naturalistiche e culturaliste. La linea Lego City riflette la mescolanza degli stili teorizzata da Auerbach, la strategia mimetica di rappresentazione del mondo per mezzo di un realismo tipicamente moderno in grado di rispecchiare l’alto e il basso, l’aulico e il volgare, compenetrandoli in una medesima narrazione.
Tre modi di dirsi moderni, dunque. Il rifiuto della fantasia esterofila in Cina per affermare, nella separazione dalla modernità occidentale, l’identità tradizionale e il mito del passato “proprio”. Il reale che accoglie il finzionale a Washington, dove un’istituzione culturale che è luogo ufficiale di memoria della storia americana ospita la fiction e ne sancisce il valore sociale. Infine, e in modo complementare, la famiglia politically correct della Lego, che attesta la capacità dell’immaginazione ludica di assorbire il reale, il politico. La globalizzazione esibisce queste modernità eterogenee attraverso la sua fame di immaginario, e per il momento non sembra interessata a conciliarle o a prendere parte per l’una o per l’altra.
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