Come già riferito in occasione del mio precedente articolo su “Scenari” Jazz in Italia: libri e concerti, in cui mi soffermavo sui risultati dell’ultima edizione del Paradiso Jazz Festival svoltosi a Bologna nei mesi di aprile/maggio, ormai da diversi anni la città felsinea si contraddistingue per la sua notevole sensibilità e grande apertura verso la musica jazz. In ciò, beninteso, Bologna non è affatto sola e, anzi, si pone accanto ad altre realtà italiane che sembrano fare dell’Italia, oggi, un importante polo d’attrazione per la scena jazz internazionale (cosa, peraltro, sottolineata spesso anche dagli stessi musicisti nelle loro interviste e dichiarazioni). Anche ad un rapido sguardo emerge chiaramente come siano ormai molteplici, di diverso tipo (concerti all’interno della programmazione dei vari locali, festival di piccole, medie o grandi dimensioni, rassegne tematiche e omaggi a singoli artisti, ecc.) e capillarmente diffuse le iniziative rivolte al jazz nel nostro paese. Ciò che, come spiegavo nel succitato contributo di qualche mese fa, fa sì che si possa indubbiamente affermare che il jazz gode ormai da diversi anni di buona salute in Italia, e che – giungendo così al tema specifico di questo articolo – mi sembra essere stato confermato anche da un’ennesima, recente iniziativa bolognese: la decima edizione del Bologna Jazz Festival, svoltasi fra il 24 ottobre e il 26 novembre del 2015.
Come nel caso delle precedenti edizioni, anche stavolta l’organizzazione del Festival non ha rappresentato un evento chiuso in se stesso, cioè ristretto ai soli luoghi degli appuntamenti concertistici più prestigiosi, ma ha rappresentato piuttosto un modo e un momento per “jazzare” l’intera Bologna, ovvero per trasformarla in una “città jazz”. Nel periodo di svolgimento del Festival, infatti, sono state numerosissime le occasioni non soltanto per ascoltare jazz, ma anche per parlare di jazz, con l’organizzazione di dibattiti e conferenze, o per insegnare il jazz, con i progetti didattici che hanno coinvolto gli studenti del Dipartimento Jazz del Conservatorio di Bologna, o per osservare il jazz, con la proiezione di film o documentari a tema, e finanche con l’organizzazione di una mostra collettiva in cui ciascun artista, utilizzando il suo linguaggio e medium espressivo, ha proposto la propria visione del jazz con opere uniche, create appositamente per l’occasione. Il tutto, evidentemente, in contesti molto diversi fra loro e con artisti differenti quanto a formazione, livello e anche fama, ma comunque alla luce di un unico criterio-guida che mi sembra sia stato seguito con rigore e coerenza dagli organizzatori. Ovvero, alla luce del criterio-guida di prestare attenzione al jazz inteso in tutta la sua ampiezza, cioè in tutte le sue forme, da quelle più classiche e consolidate a quelle più aggiornate e finanche sperimentali, senza mai trascurare né, da un lato, l’ormai importante storia e tradizione di questo genere musicale (ammesso e non concesso che, nel caso di una forma artistica ibrida, per sua natura “impura” e proficuamente permeabile a qualsiasi tipo di stimolo, com’è sicuramente il jazz, si possa parlare di “genere musicale”…), né, dall’altro lato, i suoi sviluppi e le sue metamorfosi più recenti e intriganti.
Detto ciò, è adesso il caso di dare, per prima cosa, uno sguardo al programma generale del Festival; in un secondo momento, quindi, mi concentrerò su quattro fra i numerosi concerti organizzati nel contesto del Bologna Jazz Festival 2015, fornendone un resoconto critico. Sorvolando qui, per evidenti motivi di spazio, sulle varie iniziative non specificamente musicali – o meglio: non specificamente concertistiche – previste dal programma, e limitandoci dunque a una presentazione soltanto dei principali concerti del Festival, possiamo notare come la succitata apertura al jazz in tutte le sue forme abbia trovato la sua incarnazione e realizzazione concreta in un cartellone eterogeneo, comprendente musicisti e organici diversi fra loro (alcuni dei quali si sono esibiti sia a Bologna che a Ferrara, nell’ambito di una collaborazione fra realtà cittadine diverse ma unite dalla passione per il jazz) come Ron Carter (24 ottobre) e Kenny Garrett (27 ottobre), Children of the Light (30 ottobre) e Gary Bartz (31 ottobre/1 novembre), Miguel Zenón (5 novembre) e Mark Turner (6 novembre), Nasheet Waits (7 novembre) e Kamasi Washington (9 novembre), James Farm (10 novembre) e Giovanni Guidi (11 novembre), Ray Anderson (13 novembre) e Sylvie Courvoisier/Mark Feldman (14 novembre), Tim Berne (14/15 novembre) ed Enrico Rava (16 novembre), Terence Blanchard (17 novembre) e Johnny O’ Neal (18 novembre), Rob Mazurek (20 novembre) e Bennie Maupin (21 novembre), Brad Mehldau (23 novembre) e Gregoire Maret/Kevin Hays (24 novembre), e infine la formazione Volcan guidata da Gonzalo Rubalcaba (26 novembre). Il tutto, lo ribadiamo, in un clima di proficua collaborazione fra partner diversi fra loro, anche solo quanto alla diversità delle location (dai club e locali in cui si può cenare ascoltando ottima musica fino ai principali e più grandi teatri bolognesi), che ha fatto sì che, per un mese, a Bologna si sia davvero potuta respirare, anche semplicemente passeggiando la sera per il centro, una frizzante atmosfera jazz.
Venendo quindi, come già anticipato, al resoconto critico dei concerti che, fra i numerosi in programma, abbiamo selezionato per “Scenari”, premetto subito che gli appuntamenti che sono stati seguiti sono quelli relativi ai concerti di Children of the Light, James Farm, Tim Berne ed Enrico Rava, e che tale selezione (volendo fornire qui una sorta di brevissima indicazione di natura metodologica, per così dire) è stata effettuata, oltre che ovviamente sulla base degli interessi musicali del sottoscritto, anche tenendo conto della relativa diversità fra queste quattro espressioni del jazz contemporaneo. Dunque, con l’idea di cercare di racchiudere, tramite una selezione di questo tipo, la molteplicità delle prospettive musicali che il Festival ha saputo tenere insieme in una unità; oppure, usando un linguaggio un po’ più metaforico, con l’idea di focalizzare l’attenzione su un microcosmo musicale (i singoli concerti) in grado di illuminare anche sul macrocosmo (il programma del Festival nel suo insieme).
Il concerto del trio Children of the Light è stato uno dei primi del Festival e si è svolto nella calda e accogliente cornice dell’Unipol Auditorium, caratterizzato fra le altre cose da un’acustica eccellente. Il trio, di recente formazione, è composto da tre fuoriclasse, per non dire tre autentiche star del jazz contemporaneo: Danilo Pérez (pianoforte), John Patitucci (contrabbasso, basso elettrico) e Brian Blade (batteria). La cosa che colpisce immediatamente chiunque abbia una qualche dimestichezza con le vicende recenti del jazz è il fatto che, nel caso di Children of the Light, ci si trovi di fronte a un trio che scaturisce direttamente – cioè, per derivazione diretta, o forse meglio per “sottrazione” – da un quartetto: ovvero, dal pluridecorato Wayne Shorter Quartet, indubbiamente una fra le band più straordinarie degli ultimi decenni, responsabile degli album Footprints Live! (2002), Alegría (2003: con la collaborazione anche di altri musicisti in alcuni brani), Beyond the Sound Barrier (2005) e Without a Net (2013), ma soprattutto protagonista di appassionate e talvolta davvero infuocate performance live. Ora, se il Wayne Shorter Quartet era composto, oltre che dallo stesso Shorter ovviamente, precisamente da Pérez, Patitucci e Blade, è evidente come il trio Children of the Light possa rischiare di apparire a un primo sguardo come una sorta di “Tre quarti di un quartetto”, cioè come un quartetto privo di un elemento (che in questo caso, peraltro, sarebbe anche il leader…) piuttosto che come un progetto saldo, autonomo e dotato di propria consistenza musicale. La discendenza o filiazione dal Wayne Shorter Quartet, peraltro, viene apertamente riconosciuta e persino enfatizzata dagli stessi Pérez, Patitucci e Blade, i quali dedicano il loro album d’esordio, intitolato proprio Children of the Light e uscito nel 2015, al loro “mentore nella musica e nella vita, il Dr. Wayne Shorter” (come si legge nelle Liner Notes del loro cd); e, d’altra parte, non è difficile scorgere nel titolo stesso Children of the Light (che dà il nome non soltanto all’album ma anche al primo brano del disco) un probabile riferimento a una composizione shorteriana di diversi anni fa intitolata Children of the Night. Nonostante ciò, va detto che sin dalla prima nota del concerto è stato possibile rendersi conto del significato autonomo di questo progetto, ovvero della capacità del trio di muoversi lungo binari autonomi, senza dubbio collegati ai sentieri tracciati dalla lunga militanza nel quartetto di Shorter – soprattutto per quella che potremmo forse definire un’accentuata poetica della frammentarietà, della composizione in unità attraverso la (e non in contrasto alla) disarticolazione – ma al contempo non vincolati o dipendenti da essi. Nel corso del concerto è emerso, com’era prevedibile, lo straordinario grado di affiatamento e di intesa reciproca fra i tre musicisti (ormai partner musicali da oltre un decennio, come si è detto), nonché le loro ben note capacità individuali come strumentisti. Tra i brani più coinvolgenti si possono segnalare la suadente, a tratti misteriosa Moonlight on Congo Square, la delicata, poetica Within Everything, e l’aperta, a tratti quasi “free-form” Milky Way. Un po’ meno convincenti, rispetto al resto di un repertorio decisamente di livello elevato, sono forse i brani in cui, sia dal vivo che su disco, Patitucci lascia il contrabbasso per passare al basso elettrico e, contestualmente, Pérez si cimenta con le tastiere, con un effetto complessivo che, soprattutto in certi momenti, rende la proposta musicale meno accattivante e, per così dire, un po’ troppo soft.
Il secondo concerto del Bologna Jazz Festival seguito per “Scenari” è stato quello della formazione James Farm, composta da Joshua Redman (sax tenore e soprano), Aaron Parks (pianoforte), Matt Penman (contrabbasso) ed Eric Harland (batteria). Il quartetto, responsabile al momento di due album, l’omonimo James Farm del 2011 e City Folk del 2014, ha incentrato la propria esibizione bolognese soprattutto sul repertorio tratto dall’uscita discografica più recente. Anche in questo caso, la performance live ha dato modo al pubblico di riscontrare sia l’ottimo interplay fra i quattro strumentisti, sia le rispettive doti strumentali, soprattutto per quanto riguarda l’estroso e spesso travolgente Redman ed il ritmicamente sempre preciso ma al contempo assai fantasioso Harland (peraltro già ascoltato a Bologna, quest’anno, con una formazione molto diversa – il quartetto “Prism” capitanato da Dave Holland – in occasione del Paradiso Jazz Festival). Come si diceva, la band ha fondamentalmente presentato al pubblico il suo ultimo lavoro, intitolato City Folk, arricchendo la proposta musicale con presentazioni dei singoli brani puntuali e, in alcuni momenti, anche ironiche e ammiccanti verso il pubblico, da parte di un Joshua Redman estremamente a suo agio anche in veste di entertainer sul palco. Fra i brani eseguiti presso il Teatro Duse di Bologna hanno spiccato, in particolare, l’iniziale Two Steps, dall’incedere irresistibile e sornione, le rarefatte, meditative ma anche molto emotive e intense Unknown e Farms, e la frizzante, animata, caparbia Aspirin. Un jazz di alto livello, dunque, privo di sperimentalismi o innovazioni particolari ma non per questo carente sul piano dell’originalità melodica e ritmica, né tantomeno confinabile (come talvolta accade, invece, con certo jazz contemporaneo…) in una mera esibizione di perfezionismo tecnico e formale, trattandosi invece di una musica animata da spunti interessanti e intuizioni spesso felici.
Decisamente sperimentale o, se si vuole, avanguardistico è stato invece il concerto del nuovo progetto guidato da Tim Berne, “Decay”. Nella cornice del Take Five Genuine Music Club – più ristretta rispetto a quelle dei due concerti finora citati e anche rispetto a quella dell’ultimo concerto che passerò in rassegna, ma proprio per questo probabilmente più adatta a una proposta musicale un po’ “esoterica” quale è quella di Berne – si è esibito un quartetto che, oltre allo stesso Berne (sax alto), comprendeva Ryan Ferreira (chitarra), Michael Formanek (contrabbasso) e Ches Smith (batteria e percussioni). La formazione ricalca in parte quella dell’altro recente progetto musicale di Berne, ovvero l’ormai ben nota formazione “Snakeoil”, responsabile a oggi di tre ottime prove discografiche, tutte pubblicate con l’etichetta tedesca ECM: l’omonimo esordio del 2012, Snakeoil, il successivo Shadow Man del 2013, e l’ultimo, recentissimo You’ve Been Watching Me del 2015. Quest’ultimo disco degli Snakeoil, peraltro, ha segnato l’ampliamento della formazione da quartetto a quintetto, con l’inserimento alla chitarra di Ryan Ferreira, presente anche in Decay, là dove gli altri membri di Snakeoil sono, oltre a Berne ovviamente, Oscar Noriega (clarinetto e clarinetto basso), Matt Mitchell (pianoforte, Wurlitzer ed electronics) e Ches Smith (batteria e percussioni), anch’egli parte integrante del progetto Decay, con l’evidente – ancorché parziale, evidentemente – sovrapposizione tra le due formazioni di cui si diceva poc’anzi. Al Take Five la band guidata da Tim Berne ha proposto un set relativamente breve, di poco più di un’ora e tassativamente senza encore, ma indubbiamente molto intenso e in vari momenti persino emozionante, a dispetto del freddo rigore e dell’atmosfera “cerebrale” che spirano spesso dalle partiture e finanche dalle improvvisazioni berniane. Come ha spiegato alla fine dello spettacolo lo stesso Berne (il quale, peraltro, era stato quasi completamente in silenzio per tutta la durata del concerto, con un atteggiamento ostinatamente, ma non ostilmente, non-comunicativo e taciturno) di fronte alle richieste di un bis da parte del pubblico, un concerto dal suo punto di vista rappresenta una performance definita e delimitata, un evento in sé conchiuso, che pertanto non ha senso estendere forzatamente oltre i suoi limiti per così dire “naturali” attraverso gli encore: ciò che, chiaramente, ha senz’altro una sua logica, ma ha lasciato forse un po’ delusa una parte del pubblico che probabilmente avrebbe gradito l’esecuzione di qualche altro brano… Ad ogni modo, come dicevo, anche questo concerto – per la sua intensità e, in alcuni momenti, vera e propria potenza espressiva – non ha tradito affatto le aspettative (molto alte, peraltro, alla luce dei precedenti progetti di Berne: Snakeoil in testa, ma non solo) di chi si era recato al Take Five con l’idea di assaporare un set a base di sassofonismo aspro, lacerato e sferzante, di drumming esasperato, non convenzionale, a tratti persino fastidioso nella sua esagerata e iperaccentuata carica disintegrativa, e di trame oblique, fittissime e a tratti apparentemente “autistiche” (nel senso di un’apparente “sconnessione” e “mancata comunicazione” con quanto veniva suonato nello stesso momento dagli altri musicisti) alla chitarra, con il contrabbasso (spesso suonato con l’archetto, peraltro, a impreziosire ulteriormente da un punto di vista timbrico l’amalgama sonoro realizzato sul palco) a fungere da reale pilastro del gruppo nella maggior parte dei brani.
Da ultimo, abbiamo seguito per “Scenari” il concerto della più recente tra le numerose formazioni capitanate negli anni da uno dei più talentuosi e internazionalmente famosi jazzisti italiani in assoluto, ossia il New Quartet di Enrico Rava. Il quartetto, che ha già all’attivo la registrazione di un disco (Wild Dance, uscito nel 2015 su etichetta ECM) ed è composto, oltre che dallo stesso Rava (tromba), da Francesco Diodati (chitarra), Gabriele Evangelista (contrabbasso) ed Enrico Morello (batteria), si è esibito sul palco della Sala “Paradiso” dell’Arci di San Lazzaro di Savena (BO), producendosi in un set dalle atmosfere a tratti soffuse e riflessive – favorite da un accorto uso dell’effettistica da parte del chitarrista, con pennellate sonore che ricordavano a volte un certo gusto à la Frisell – e a tratti, invece, più vivaci e scattanti, grazie a certi guizzi trombettistici del leader ma anche al felice dialogo tra gli strumenti della sezione ritmica. Anche in questo concerto, dunque, non sono mancati momenti musicalmente coinvolgenti, sebbene nei brani iniziali si sia avvertita in qualche caso, per così dire, una sensazione di incertezza, e sebbene la proposta musicale nel suo complesso, a giudizio di chi scrive, non sia apparsa ancora all’altezza di altre formazioni più o meno recenti capitanate da Rava, come quelle responsabili di album straordinari quali Easy Living (2003), The Words and The Days (2007) o On the Dance Floor (2012). Ciò non toglie, naturalmente, che la formazione del New Quartet, di per sé, appaia interessante e promettente, con ampi margini di progresso (tenendo anche conto della giovane età dei nuovi partner musicali di Rava) e, probabilmente, con molte frecce al proprio arco, tali da renderla dunque una realtà da seguire con attenzione nei suoi prossimi sviluppi, sia concertistici che discografici.
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