Estetica e arti figurative dal ‘900 a oggi

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Fuori dagli schemi è l’ultimo lavoro di Giuseppe Di Giacomo, professore ordinario di Estetica presso l’Università “La Sapienza” di Roma e autore di numerosi altri saggi critici, fra cui, sempre per la casa editrice Laterza, Estetica e Letteratura del 1999, Introduzione a Klee del 2003 e Alle origini dell’opera d’arte contemporanea (con C. Zambianchi) del 2008. Con la presente opera l’autore si colloca in uno spazio al confine tra una storia dell’arte in senso stretto e una critica fondata su basi filosofiche. Nell’analizzare il percorso intrapreso dalle arti figurative negli ultimi cento anni, Di Giacomo mette in campo e utilizza in maniera proficua alcuni fra i concetti principali coniati all’interno del dibattito estetico novecentesco da vari autori, ritenuti essenziali ai fini della comprensione di tale percorso artistico. Al contempo, l’autore assume come proprio compito quello di lasciare un ampio spazio all’eloquenza propria delle opere stesse, per così dire, portando avanti in tal senso quel tipo di «analisi immanente» a cui Theodor W. Adorno, interlocutore principale del testo, assegnava l’arduo compito di “riesumare” dai musei le creazioni artistiche in essi “sepolte”, riconsegnando a queste ultime la loro potenzialità eversiva nei confronti della realtà vigente. Nell’intento di «presentare l’arte del XX secolo in modo da renderla comprensibile», questo approccio intermedio – nel senso poc’anzi specificato di approccio confinante sia con la storia dell’arte che con l’estetica specificamente filosofica – risulta estremamente efficace, mostrandosi capace di fare i conti con un’arte uscita fuori dagli schemi tradizionali di comprensione e fruizione, distrutti a suo tempo dalle avanguardie e da allora mai più ricostituitisi.

Tenuto conto di questo panorama, risulta quindi comprensibile la scelta dell’autore di chiarire da subito al lettore quali saranno i mezzi di analisi impiegati per fare chiarezza intorno ad alcune zone d’ombra presenti nel modo attuale di manifestarsi del fenomeno artistico, permettendo però alle opere stesse  – come si è già detto – di raccontare da sé una storia che, per sua natura, non permette di essere descritta dall’esterno, per così dire, mediante una narrazione omogenea e lineare. Ciò avviene in particolare nel primo capitolo (Arte e filosofia dai primi del Novecento ai giorni nostri), dedicato appunto all’approfondimento del rapporto tra arte e filosofia, in cui l’autore delinea gli strumenti concettuali a suo giudizio necessari per orientarsi all’interno dei complessi dilemmi che hanno attraversato il dibattito estetico dai primi del Novecento ad oggi. Partendo dalla genesi del concetto paradossale di «tradizione moderna», in cui è l’elemento di rottura stesso a rappresentare il fulcro su cui si costituisce la tradizione, vengono trattate le diverse problematiche che l’arte primo-novecentesca ha dovuto affrontare nel suo tentativo di svincolarsi dai canoni prestabiliti, attraverso il contributo critico di filosofi e storici dell’arte che non hanno mancato di evidenziare i meriti ma anche le contraddizioni nate in seno a tale percorso.

Il resto del libro, dopo il primo capitolo in cui ne viene delineato l’approccio complessivo, si sviluppa tutto seguendo il filo conduttore del rapporto tra arte e realtà per come esso è stato affrontato dai maggiori movimenti artistici contemporanei. Proprio in questa tematica, infatti, Di Giacomo individua una linea guida promettente per un’ermeneutica dell’arte figurativa novecentesca. Molto pregnante, in questo senso, risulta essere soprattutto il concetto adorniano di mimesis, nonché l’idea, propria dello stesso filosofo tedesco, secondo cui il rapporto tra realtà e arte, se correttamente tematizzato, lascia emergere appieno il carattere ambiguo di quest’ultima nel suo essere insieme attività autonoma e fatto sociale. Nel secondo capitolo (Le avanguardie storiche) vengono presentate e analizzate due risposte antitetiche alla medesima questione (quella, cioè, della relazione tra arte e vita) che, nel loro incontrarsi e scontrarsi, andranno a condizionare l’intero panorama artistico del Novecento. Da una parte, con il Quadrato nero su sfondo bianco di Malevič, si opera una scissione totale tra arte e realtà; dall’altra, in ambito dadaista, con i ready made di Duchamp si assiste alla compenetrazione tra arte e vita. Pablo Picasso, in questo senso, rappresenta il mediatore tra le due prospettive antagoniste. Di Giacomo, però, specifica a più riprese che tale contrapposizione non deve essere confusa con l’annoso dibattito tra figuratività e non-figuratività.

Nel terzo capitolo (L’arte tra figurazione e rifiuto della forma), attraverso le figure di Bacon e Giacometti, la questione della figurazione viene presentata in tutta la sua complessità, anche come risposta a certi tentativi critici volti a operare una banalizzazione di questa tematica assai controversa. A partire dal panorama americano del dopoguerra verranno percorse entrambe le grandi strade aperte dalle avanguardie, fino ad arrivare ai limiti estremi e alle implicazioni più radicali di ciò che in esse (nelle avanguardie storiche, cioè) era contenuto in stato embrionale. Se con l’espressionismo astratto americano, a cui è dedicato il quarto capitolo, vediamo uno sviluppo del percorso di scissione arte/realtà inaugurato da Malevič, con la pop art, il minimalismo, il concettualismo e le tendenze degli ultimi decenni (Koons, Hirst) a venire radicalizzata è invece la prospettiva aperta da Duchamp di una dissoluzione della barriera tra arte e vita. Le aspettative avanguardiste che vedevano nella “morte dell’arte”, nel suo dissolversi come spazio separato, la prospettiva di un rovesciamento utopico del potenziale artistico nella vita, verranno riprese da questi movimenti che, seppure con esiti decisamente diversi da quelle originariamente immaginati in ambito dadaista, porteranno a termine tale compenetrazione, esaminata specificamente nel quinto capitolo (Coincidenza di arte e vita: processi di mercificazione della produzione artistica). Nella società tardo-capitalista, tale proposito si trasforma infatti nell’assorbimento pressoché totale di queste forme artistiche da parte dei mercati. Mentre nell’astrattismo e poi nell’espressionismo astratto la figura, seppur negata dialetticamente, era comunque destinata a permanere, con l’avvento del simulacro, della copia senza contenuto, il reale si appresta a scomparire. In un mondo in cui le immagini non tendono più a rappresentare un qualcosa di preesistente ma operano su un altro registro, quale quello della simulazione, al concetto di realtà si va a sostituire quello dell’iper-realtà che i moderni mezzi di comunicazione non cessano di proporci, fino a produrre quella atrofia dell’esperienza di cui già Benjamin negli anni Trenta indicava la minaccia. Sia la teoria estetica, con Adorno, che la storia e la critica d’arte, con Greenberg, entrano allora in crisi, per così dire, di fronte alle nuove forme d’arte, sempre più legate ai metodi di produzione industriale ed immerse nella società dello spettacolo. Tuttavia, Di Giacomo si schiera contro l’opinione di chi vorrebbe liquidare l’arte contemporanea nella sua interezza come irrimediabilmente compromessa con l’industria culturale. A tal proposito, nell’ultimo capitolo (Estetica ed etica: l’opera d’arte come testimonianza) viene dato spazio a quegli artisti (Beuys, Boltanski) che negli ultimi decenni si sono duramente opposti alla mercificazione dell’arte facendo della propria opera un luogo di resistenza e testimonianza. Di Giacomo insiste soprattutto nel sottolineare che quando si accusa l’arte contemporanea di essere informe, priva di unità e disorientante, non si tiene conto del fatto che tali caratteristiche sono ereditate dalla stessa società del nostro tempo, alla quale l’arte, nel suo essere anche un fatto sociale, non può che somigliare, seppure in modo indiretto. In quest’ottica, il pensiero di Adorno viene richiamato in causa con decisione dall’autore, il quale ne ribadisce a più riprese la profondità e l’attualità.

A un libro come Fuori dagli schemi si può attribuire senza dubbio il grande merito di sviluppare uno sforzo teorico-concettuale atto a far chiarezza su un percorso storico-artistico quanto mai complesso e articolato, come si può vedere anche solo da questi rapidi cenni. L’autore riesce sapientemente a coniugare uno spessore critico notevole con la necessità di non cadere in generalizzazioni, quanto mai rischiose in un panorama così difficile da definire come quello a noi contemporaneo. Infine, risulta decisamente apprezzabile il fatto che, nella consapevolezza di avere a che fare con un’arte «fuori dagli schemi», in tutto il libro si ritrovi una costante volontà di interrogare l’opera su se stessa e a partire da se stessa, anziché “strumentalizzarla”, per così dire, riducendola a materiale utile alla mera costruzione di un discorso sistematico. In questo senso, tutte le contraddizioni dell’arte del nostro tempo, indubbiamente innumerevoli, vengono messe in luce e affrontate con serietà dall’autore, anche quando ciò conduca all’appalesarsi dell’impossibilità di giungere a una soluzione chiara e univoca.

Recensione di Ginestra Bacchio

 


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