Capita ogni tanto di vedere, alla fine di un film, il flash back con il protagonista che viene casualmente a contatto, in una situazione diversa e lontana da quella al centro della narrazione, con una comparsa. I due si guardano involontariamente e non sanno quanto accadrà loro. Si guardano un attimo e si separano, seguendo ognuno la propria strada. Il primo aspira l’ultima boccata di fumo dalla sigaretta che poi lancia facendola partire dalla mano semichiusa volgendosi dall’altra parte, il secondo la calpesta e la spegne senza rendersene conto perché è intento ad attraversare la strada. Si sono sfiorati.
Il capo delle Brigate rosse Mario Moretti venne arrestato insieme con il professor Enrico Fenzi il 4 aprile 1981 a Milano. Quel giorno Moretti, di solito sempre guardingo, era calmo e non sospettava nulla, mentre Fenzi avvertiva che sarebbe successo qualcosa. Erano a Milano per ricostruire la colonna in seguito alla defezione di alcuni membri. Dopo qualche tempo dalla cattura, i due si rividero per qualche ora nella stessa cella di un carcere. Racconta Fenzi, nel suo libro dedicato al ricordo degli anni di piombo Armi e bagagli (Costa&Nolan, Genova 1987) del suo dialogo in quella occasione con Moretti:
MM: “Ho potuto studiare perché mia zia era portinaia, a Milano, di una famiglia di nobili, di marchesi, che per carità mi pagavano la retta al collegio… i marchesi Casati. Lui era un guardone, faceva scopare la moglie dagli altri e stava a vedere, ma non voleva che lei si innamorasse. È finita che ha ammazzato lei e l’amante, e si è ammazzato… l’hai letto di sicuro, sui giornali. Erano ricchissimi, avevano palazzi dappertutto, e persino un’isola, dove andavano una volta all’anno, a caccia”. EF: “Li hai mai visti? Lei era una gran bella donna…”. MM: “Ho accompagnato una volta o due mia zia fuori Milano, quando andava a far le pulizie nelle loro ville, di qua e di là… Una volta però ho visto lei, la marchesa. Avevo appena cominciato a lavorare alla Sit-Siemens, e stavo da mia zia, nella portineria, un buco piccolissimo. Un giorno lasciano una torta per i padroni, e l’ho portata su io. Non so come, mi ha aperto lei, ma non me la ricordo. Ricordo invece che mi ha detto: ‘Ne vuoi una fetta, caro?’. Con una voce, un tono, che ho giurato che quel caro gliel’avrei fatto pagare, un giorno, a lei e a tutti quelli come lei”. EF: “Chissà, forse è per quello che sei diventato brigatista”. MM: “Sicuro che è per quello…” (pp.16-17).
Moretti non ricorda il volto della marchesa, forse non ha il coraggio di guardarla. Sta col volto rivolto verso il basso pieno di soggezione e di odio. Il capo brigatista ammette di aver studiato grazie alla generosità di quei nobili che non conosce ma odia, e che, quando vede per la prima volta, promette di far loro pagare il tono di voce con cui si rivolgono per offrirgli una fetta di torta. Si può dire che l’origine della lotta armata, ovvero del terrorismo politico italiano, venga dall’odio antinobiliare e dall’ingratitudine di un proletariato deciso a sputare nel piatto in cui mangiava, ovvero di chi gli pagava, “per carità”, quell’istruzione che gli permetterà di trovare lavoro alla SIT Siemens, formarsi nel clima delle lotte operaie post sessantottine e sviluppare il suo odio di classe.
Il marchese Camillo Casati Stampa uccise la moglie Anna Fallarino e il suo amico Massimo Minorenti, prima di suicidarsi, il 30 agosto 1970. Moretti non ha fatto in tempo a fargliela pagare, perché l’organizzazione che successivamente diverrà le Brigate Rosse nacque ufficialmente a Pecorile, in realtà nella più isolata Costaferrata, in provincia di Reggio Emilia, il 9 agosto di quell’anno, giusto venti giorni prima. In quella sperduta località, ottanta delegati di Sinistra Proletaria e del Comitato Politico Metropolitano si riunirono per prendere decisioni su forme di lotta più incisive. Il primo gruppo era formato da esponenti del movimento studentesco dell’Università di Trento (Curcio, Cagol, Besuschio), militanti della FGCI emiliana (Franceschini, Gallinari, Ognibene, Paroli, Pelli) e operai provenienti soprattutto dalla Sit-Siemens (Moretti, Semeria, Alunni, Bonavita). Non passa una settimana e il 14 agosto nello stabilimento milanese della Sit-Siemens, apparvero per la prima volta i volantini con la stella a cinque punte: il contenuto era pungente e illustrava precise situazioni aziendali, oltre a prendere di mira i dirigenti e i capi reparto definiti aguzzini. Otto giorni dopo si replicò, sempre alla Sit-Siemens milanese: all’uscita degli operai un motociclista lanciò altri volantini, questa volta con i nomi e gli indirizzi dei dirigenti, dei capireparto e di alcuni operai dell’azienda accusati di avere legami col padrone. Questa volta alle accuse si sommarono le minacce. Riferendosi all’elenco, il volantino precisava che le persone citate nel volantino “dovevano essere colpite dalla vendetta proletaria” perché “simboli dell’oppressione capitalista” e quindi “servi del padrone”. Nessuno si preoccupò di questi gesti. Nel primo periodo le Brigate Rosse si limitarono ad atti teppistici contro i beni delle aziende o dei loro dirigenti.
Al 17 settembre risale la prima azione, con l’incendio dell’automobile di Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens. L’ultima azione contro “le cose” fu quella del 25 gennaio 1971: otto bombe incendiarie furono collocate sotto altrettanti autotreni fermi sulla pista di Lainate dello stabilimento Pirelli.
Il giorno della strage compiuta dal marchese Camillino le Br non avevano ancora subito la prima scissione di una lunga serie di divisioni e lotte intestine, anche se ciò avverrà di lì a poco. Tre giorni dopo, il 2 settembre ad Atene un attentato terroristico fallito lasciò cadaveri i due attentatori, uno studente cipriota Cristhou Tsikouris ed Maria Elena Angeloni, zia di Carlo Giuliani. L’attentato era stato ideato da Corrado Simioni, brigatista della prima ora, che non lo aveva annunciato a Curcio e Franceschini, i quali proprio per questo lo cacciarono dalle BR. Con Simioni, che in prima istanza aveva chiesto alla moglie di Curcio, Mara Cagol, di commettere l’attentato, se ne andarono anche il milanese Duccio Berio, l’udinese Vanni Mulinaris, il reggiano Prospero Gallinari e il marchigiano Moretti. Solo gli ultimi due ritorneranno in seguito nelle BR, gli altri andranno a Parigi dove apriranno la discussa e sospetta ‘scuola di lingue’ Hyperion. Simioni, che veniva dal PSI, aveva lavorato alla Mondadori. Il suo lavoro nella casa editrice era molto apprezzato, e giustamente, si veda per esempio l’ottima introduzione alle Novelle di Verga, mentre dal partito fu cacciato per indegnità morale. Non è mai stato chiarito di che tipo di indegnità si fosse macchiato nei primi anni Sessanta. Di certo era uomo che amava girare con auto di lusso e belle donne, e pare gli piacessero le comuni e la promiscuità sessuale. Quella stessa che Camillino Casati Stampa incoraggiò e tollerò fino ad un certo punto in sua moglie. Poi quando si innamorò, il marchese lo considerò un tradimento e si vendicò. Anche Moretti come abbiamo visto giurò vendetta alla marchesina, giurò di farle pagare quel ‘caro’, ma non lo fece, non ebbe tempo e non ebbe il coraggio, come quando gli mancò il coraggio per sparare ai delfini di cui avrebbe dovuto cibarsi l’equipaggio del Papago, dello psicanalista Gidoni, in difficoltà al ritorno dal Libano con un carico d’armi.
Come le vite si intrecciano e come ogni tanto percorrano traiettorie che solo la letteratura può immaginare pare a volte difficile da credere. Diventare terroristi perché non si sopporta il tono di voce di una marchesa pare più affare da polemica antinobiliare dell’epoca di Parini, quando i terroristi erano i nobili che investivano con le loro carrozze la plebe senza fermarsi a prestare i soccorsi. Nell’Italia degli anni Settanta c’era posto invece sia per troppo suscettibili tecnici della rivoluzione proletaria sia per lascivi e irascibili nobili annoiati della vita altrui e propria.
Un altro ramo non secondario, benché ampiamente noto e documentato, ma che vale comunque la pena di raccontare ancora, si snoda dalla vicenda. Quando morirono i marchesi, le numerose proprietà Casati Stampa andarono alla figlia Anna Maria, avuta dal matrimonio precedente. La ragazza era allora minorenne ed aveva come tutore Cesare Previti. Al raggiungimento della maggiore età, per far fronte ai debiti che aveva ereditato oltre ai beni immobili, vendette una delle tante proprietà, Villa San Martino di Arcore, a Silvio Berlusconi, che vi si insediò dal 1974. Nella villa c’era una grande biblioteca con oltre diecimila volumi, venne assunto come bibliotecario Marcello Dell’Utri, mentre Vittorio Mangano come stalliere.
Esagerando un po’, si può dire che un pezzo consistente della storia d’Italia degli ultimi quaranta anni, dalle Brigate rosse al berlusconismo, sia nata da una serie di episodi che si irradiano dalla vita privata di un nobile omicida-suicida. Oppure si può pensare che la teoria di Frigyes Karinthy e la sua popolarizzazione da parte della trasmissione radiofonica Sei gradi, e del film Sei gradi di separazione di Fred Schepisi del 1993, sia confermata anche in questo caso. Tra Moretti e Berlusconi ci sono la zia, la marchesa Anna, il marchese Camillo, la figlia del primo matrimonio Anna Maria e Cesare Previti. Sei gradi, appunto.
LIBRI CONSIGLIATI NEL CATALOGO MIMESIS: