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Con l’Era postdocumentaria (Mimesis 2014) Ivelise Perniola affronta un tema che sta acquistando una crescente importanza nel panorama cinematografico nazionale e internazionale: il ritorno in auge del documentario. Basti pensare al Leone d’oro conferito nel 2013 a Sacro GRA di Gianfranco Rosi. L’orizzonte della produzione documentaria è però vasto e non si limita ai nomi più noti come quello di Rosi, Costanza Quatriglio o Leonardo Di Costanzo, ma si allarga a registi emergenti, come, per citare solo alcuni nomi restando in Italia, Cinzia Castania, Federica Di Giacomo o Roberto Minervini, di cui è uscito nelle sale di recente Louisiana. Ecco un altro aspetto della recente fortuna del documentario: il ritorno nelle sale, che segnala senza dubbio una crescita dell’interesse del pubblico, e anche forse un processo di trasformazione – Francesco Casetti direbbe di rilocazione – delle forme di fruizione del film.
Ivelise Perniola non affronta il fenomeno della “rinascita” del documentario con il piglio “sociologico”, con cui mi sono limitato a offrire un vago inquadramento alla presentazione del suo libro. Il suo approccio è schiettamente quello della teoria del cinema: l’autrice si propone il compito – non facile, ma portato a termine con successo – di fare il punto sull’evoluzione di questo genere. Il termine stesso di “genere” appare insufficiente. Non mi riferisco tanto all’ampiezza di spettro che il documentario dimostra da sempre di avere e che indurrebbe semmai a parlare – come fa Bill Nichols, tra i massimi studiosi viventi del documentario – di un ventaglio di generi attinenti alla forma documentario, insieme a una pluralità di proposte stilistiche e di denominazioni categoriali: kinopravda, cinéma vérité, cinema del reale, documentario di creazione e così via discorrendo. Mi riferisco piuttosto al fatto che è in corso una vera e propria trasformazione della forma di cinema che stiamo considerando: l’ipotesi di lavoro di Ivelise Perniola può essere ricondotta a questa presa d’atto generale (ma fondamentale).
La studiosa mostra in particolare come, alle luce della produzione dell’ultimo decennio circa, non sia più possibile porre la questione del documentario – del suo statuto, dei suoi generi, dei suoi mezzi e dei suoi vincoli, come pure delle sue possibilità in termini di narrazione, esponibilità dell’immagine o rappresentazione della realtà – a partire dalla classica distinzione tra cinema di fiction e cinema di non fiction. Siamo entrati, appunto, nell’epoca del “postdocumentario”. L’autrice sviluppa la sua argomentazione in modo complesso e articolato, riannodando i fili di una genealogia del documentario dalle origini, che coincidono di fatto con la nascita del cinema, fino alla situazione attuale. Il saggio è perciò composto di due parti distinte: la prima dedicata a una rassegna di alcuni degli autori e dei teorici principali della storia del documentario, tra cui spicca un bello e documentato capitolo su Dziga Vertov; la seconda dedicata alla produzione e al dibattito contemporanei, con un’attenzione lodevole anche per alcuni autori più “popolari”, come Michael Moore e Sabina Guzzanti.
Il saggio di Ivelise Perniola si presenta pertanto ricco di spunti e informazioni, oltre a essere supportato da una tesi forte. Su un solo punto non ci sentiamo di seguire l’autrice fino in fondo. L’avvento di un cinema tendenzialmente postdocumentario, che dato il superamento tra fiction e non fiction investirebbe l’intera produzione odierna, non porta necessariamente a un ripiegamento autoriflessivo, forse addirittura autoreferenziale, dell’immagine su se stessa: il cinema non smette necessariamente di occuparsi della realtà. Perniola non sostiene una tesi così netta, ma in alcune parti del suo libro potrebbe far pensare a un esito di questo tipo. C’è da pensare piuttosto – lo sostiene Pietro Montani, il quale è d’altronde uno dei referenti dell’autrice – che il documentario, e il cinema in genere, smetta di porre la questione della presenza del reale nell’immagine nei termini, ormai non più servibili con l’avvento del digitale e in un regime di crescente intermedialità, di un’indagine sullo statuto del documento, per aprirsi a nuove forme di interrogazione del reale attraverso l’immagine, pensata di volta in volta come testimonianza, traccia, archivio, memoria, rielaborazione e così discorrendo. Perniola ha d’altra parte piena consapevolezza di questo stato di cose e non giunge certamente impreparata ad affrontare la materia, forte dei suoi precedenti studi su Chris Marker e Claude Lanzmann.

 

Recensione di Dario Cecchi


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