PROBLEMI DEL NOVECENTO FILOSOFICO ITALIANO

 

1. Se inquadrerò questo intervento sulla filosofia italiana del Novecento all’interno di una più ampia riflessione sui caratteri del pensiero italiano non è soltanto perché non sono uno storico della filosofia né uno specialista del Novecento filosofico italiano. Ma perché ritengo che, all’interno del pensiero italiano, i tratti di lungo periodo siano altrettanto significativi delle discontinuità che separano una stagione dall’altra. Rivolgere a tale pensiero uno sguardo, più che storico, genealogico, come tenterò di fare, vuol dire appunto questo: non contrapporre continuità e discontinuità, ma articolarle lungo un asse trasversale che fa dell’una insieme lo sfondo e la condizione dell’altra – il margine di sovrapposizione lungo il quale entrambe assumono il loro senso d’insieme. Ma, prima di procedere lungo questa via, occorre porsi una domanda preliminare. È legittimo, o sensato, parlare di ‘filosofia italiana’, come anche di filosofia francese o tedesca? È possibile considerare la filosofia in termini di identità nazionale? Oppure essa – come la matematica, la medicina o la musica – non ha connotazioni locali, perché parla sempre una lingua universale? Nonostante i possibili argomenti contrari, io risponderei positivamente a tale domanda. Il sapere filosofico non è mai del tutto sciolto dal contesto entro cui nasce e si sviluppa. Naturalmente intendendo per contesto non uno spazio chiuso da confini rigidi, ma un insieme di caratteristiche concettuali, lessicali, tonali che rimandano ad una modalità specifica ed inconfondibile rispetto ad altri stili di pensiero. Questo è un punto delicato su cui occorre concentrare l’attenzione, perché si presta a possibili fraintendimenti. Il riferimento a un dato territorio non deve far pensare ad un quadro immobile nel tempo, a una costante di tipo antropologico o addirittura etnico. Al contrario, implica una dialettica complessa in cui il territorio non è che uno di due poli cui corrisponde sempre un movimento, inverso e simultaneo, di sconfinamento, di rottura dei confini e di contaminazione con l’esterno. Il territorio non s’identifica né con lo Stato né con la nazione.

Ciò vale tanto più per un pensiero, come quello italiano, che nel suo periodo più fulgido non ha conosciuto né l’uno né l’altra. Fin dall’età classica gli autori italiani hanno elaborato la propria riflessione fuori dai confini nazionali, in continuo dialogo con tradizioni straniere. Al punto che, anche se con un eccesso di patriottismo, Bertrando Spaventa ha potuto sostenere la tesi radicale che l’intera filosofia moderna trovi le proprie origini nel pensiero italiano. Facendo la tara sull’elemento più apologetico di tale teoria – ancora tributaria della tesi giobertiana di un preteso primato italico – si ritrova in essa qualcosa che rimanda alla circolazione del sapere, alla dinamica tra interno ed esterno cui prima alludevo. Peculiare del pensiero italiano è proprio il rifiuto del nazionalismo filosofico, caratteristico, per esempio, della tradizione tedesca e in parte di quella francese. Naturalmente questa tendenza alla fuoriuscita da sé – quello che Gramsci chiamava il ‘cosmopolitismo italiano’ – risponde, prima ancora che ad un’attitudine, ad un dato di fatto, e cioè all’assenza di una nazione italiana, nel senso tecnico del termine, fino a metà Ottocento. A differenza che in altri paesi europei, la grande filosofia italiana di Machiavelli, Bruno, Galileo, Vico, fino a Leopardi, non accompagna, né segue, la formazione dello Stato unitario, ma la precede di molto. Non la condiziona e non ne è condizionata. Certo, di appelli, auspici, invocazioni patriottiche – da Petrarca a Foscolo, da Machiavelli a Gioberti – ce ne sono stati tanti, ma governati più dalla retorica che dal pensiero. La verità è che la nostra filosofia è nata in una situazione di frammentazione politica ben lontana dalla realtà, e anche dalla possibilità reale, dell’unificazione. Fuori da un organismo statale unitario e senza la forza accentratrice di una capitale che potesse riunire le sue straordinarie prestazioni intellettuali. Se la riflessione scolastica si muove al di fuori dell’orizzonte nazionale, gravitando piuttosto verso Parigi, l’intero Umanesimo ha una proiezione europea che ne fa un movimento internazionale nel senso più intenso del termine. Tutt’altro che una cultura nazionale come sono quelle spagnola, francese, inglese, consolidate nei rispettivi organismi statali, l’Italia è restata per secoli un formidabile cantiere di elaborazione e diffusione dell’unica grande cultura europea di portata non nazionale, perché più che nazionale e proprio perciò vissuta come potenzialmente universale. Ciò è stato una forza o una debolezza, un limite o una risorsa, un freno o un motore? Da De Sanctis a Gramsci del nostro cosmopolitismo si sono fornite valutazioni diverse. È stato messo sotto accusa da alcuni per aver impedito una vera coesione nazionale, e apprezzato da altri per la sua capacità di guardare al di là di confini ristretti. Personalmente credo che entrambe queste valutazioni contengano un nucleo di verità, ma che oggi, a cose fatte, vada messo l’accento più sull’elemento positivo che su quello negativo. Piuttosto che piangere su ciò che la nostra filosofia non ha avuto, conviene puntare sulla forza differenziale che attraversa quel vuoto rendendolo a suo modo produttivo. Quanto all’impegno civile, del resto, di certo non ci è mancato. Al contrario i maggiori autori italiani – da Machiavelli a Bruno, da Campanella a Galilei – si sono posti in un rapporto teso e agitato con il potere, politico ed ecclesiastico, in una forma che è arrivata, in alcuni casi, alla resistenza e al sacrificio finale. In questo senso quella italiana è stata meno una filosofia del potere che della resistenza: Dante e Machiavelli esiliati, Bruno e Vanini bruciati, Campanella per decenni in carcere, Galilei costretto all’abiura, Gramsci e Gentile morti, in difesa del proprio pensiero, ai lati opposti della stessa barricata. Non ricordo molte altre tradizioni filosofiche in cui si sia giocata la vita e la morte dei suoi maggiori interpreti. Diversamente da culture fin dall’inizio segnate dal rapporto con un’istituzione politica consolidata, come l’Inghilterra di Hobbes o la Francia di Cartesio; diversamente da filosofie impegnate nella costruzione di un sapere della nazione, come la Germania di Fichte e Hegel, l’Italia ha pensato, e in un certo senso continua a pensare, il politico fuori dallo Stato, nella dialettica ininterrotta di ordine e conflitto, potere e resistenza. Naturalmente in tale modalità critica può essere visto un segno di immaturità, di disimpegno, o addirittura di eversione, nei confronti delle istituzioni esistenti. Ma la tensione critica, che sembra allontanare dalla realtà, può rivelarsi, in altri momenti, un ponte verso di essa. A volte, in particolari congiunture, ciò che appare un deficit può tramutarsi in vantaggio rispetto a situazioni più stabili e consolidate. Intendo dire che è proprio la mancanza di una autentica vocazione nazionale e, fino a metà Ottocento, di uno Stato unitario, a conferire alla filosofia italiana qualcosa di più e di diverso, una sorta di sporgenza vitale, rispetto a culture filosofiche che hanno sperimentato un’identificazione più diretta tra territorio e nazione. Non situandosi nel perimetro dello Stato nazionale, il pensiero italiano ha percorso una strada libera dal suo condizionamento. Perciò, nel momento in cui il tempo dello Stato sembra, se non certo esaurito, almeno posto in discussione nei suoi presupposti e nei suoi fini, il nostro pensiero pare affacciarsi al futuro con una maggiore carica innovativa di altri. Anche per questa via passa il nuovo, e crescente, interesse che da qualche tempo investe la filosofia italiana.

Per indicare le categorie più influenti del pensiero italiano novecentesco, io credo che si debba ancora una volta allargare l’angolo di visuale ai caratteri generali che la distinguono da altre tradizioni filosofiche. Un primo tratto differenziale lo si può rinvenire nella estraneità della nostra riflessione alla cosiddetta svolta linguistica che ha caratterizzato la filosofia europea a partire dagli anni Venti del secolo scorso – l’ermeneutica tedesca, la filosofia analitica inglese e la decostruzione francese. Benché in modo diverso, tutte queste tradizioni hanno individuato nel linguaggio, o nella scrittura, la categoria trascendentale a partire dalla quale istituire la pratica filosofica. Rispetto ad esse, la filosofia italiana ha preso una strada diversa. Non perché la sfera del linguaggio non abbia costituito, in Italia, terreno di indagine filosofica. Al contrario, dalle sue origini – già a partire da Dante e poi per tutta la stagione umanistica, fino a Vico e Leopardi – esso ne ha rappresentato uno degli assi di scorrimento, ma sempre in un rapporto costitutivo con le categorie tipiche del nostro pensiero, vale a dire quelle di storia, politica e vita. Diversamente dalle filosofie europee concentrate sulla teoria della conoscenza, sull’interrogazione metafisica o sulla logica formale, la riflessione italiana è da sempre rivolta alla vita storica e politica. Piuttosto che attenta ai propri passaggi interni, appare estroflessa nel mondo esterno della vita, nella sua declinazione insieme storica e politica. Se si includono nell’ambito del pensiero Machiavelli e Leopardi, Leonardo e Galilei, Cuoco e De Sanctis – come credo si debba fare – si potrebbe arrivare a dire che l’oggetto primo della filosofia italiana sia costituito dal non-filosofico. Mentre il contenuto privilegiato di altre tradizioni filosofiche è la stessa filosofia, le sue forme ed articolazioni interne, quello del pensiero italiano è il flusso vitale che preme al suo esterno. Usando una espressione celebre di Foucault, potremmo chiamare quello italiano un ‘pensiero del fuori’.

2. Senza poterci addentrare in profondità nel cosiddetto neoidealismo italiano e in quella che è stata chiamata filosofia della prassi, l’elemento che, pur nella distanza, collega in uno stesso orizzonte i suoi interpreti maggiori – Croce, Gentile e Gramsci – è proprio questa attitudine a calarsi nel mondo della vita, fin quasi a coincidere con esso, costituendo una sorta di pensiero vivente. È perciò che – scrive Croce – contrariamente a quanto ritengono i filosofi puri, «i nuovi pensieri filosofici, o i loro germi, si ritrovano spesso vivi ed energici in libri che non sono di filosofi professionali né sistematici […]». La filosofia non solo è attraversata da altri linguaggi – della storia, della politica, della letteratura – ma ne condivide gli interessi emergenti dal magma in movimento della vita. Se «la filosofia ha sempre origine sua nel moto della vita» – continua Croce – «non può risolvere se non i problemi che la vita le propone». In tal senso la filosofia crociana è intensamente storica così come la sua storiografia ha un taglio intrinsecamente filosofico. Gentile spinge ancora più avanti questo processo di storicizzazione del pensiero. Se, come lo stesso Croce aveva sostenuto, gli eventi passati acquistano senso solo dal punto di vista di chi oggi li interpreta, ciò significa per Gentile che in un certo modo è lo stesso interprete a produrli in una sostanziale identificazione di storia e filosofia. Ma, coincidendo la filosofia con la vita storica, essa è per Gentile sempre politica: la filosofia concreta – egli afferma in Filosofia e politica – «fa un tutto inscindibile con la vita, e si può dire la vita stessa nel pieno vigore della propria consapevolezza». Forse mai, nel pensiero contemporaneo, si era arrivati a una tale sovrapposizione della filosofia con la storia e la politica, esse stesse fuse nel flusso ininterrotto della vita. Vero è che Croce non avrebbe seguito Gentile su questa strada estrema, che si sarebbe tenuto lontano da una prospettiva che rischiava sempre di scivolare in una politicizzazione della filosofia, come puntualmente accadde a Gentile. Nei confronti dell’atto puro, la filosofia dei distinti crociana articola tra loro i linguaggi della storia e della politica, dell’economia e dell’estetica, senza però schiacciarli l’uno sull’altro. Eppure per entrambi restava fermo il fatto che il sapere filosofico non può rompere i contatti con una vita che ne costituisce insieme lo sfondo di senso e il contenuto, con tutte le tensioni e i contrasti che ciò comporta. Nel corso del tempo, come è noto, Croce accentuò questo carattere drammatico della propria prospettiva, in contrasto con l’immagine olimpica che gli si è stata cucita addosso: al fondo del pensiero – egli scrive nella Filosofia della pratica – «è la Vita, che è il vero mistero, non perché impenetrabile dal pensiero, ma perché il pensiero la penetra, con potenza pari alla sua, all’infinito […] nessun sistema filosofico è definitivo, perché la Vita, essa, non è mai definitiva». Quanto, poi, a Gramsci, sono note le profonde riserve espresse nei confronti degli altri due filosofi. Ma anche l’orizzonte che condivide con loro. Criticando il residuo di trascendenza nel sistema crociano, egli si accosta alla prospettiva immanentistica di Gentile. Ma nello stesso tempo accentua, nei suoi confronti, le riserve di Croce, accusandolo di perdersi in una mistica dell’atto puro incapace di cogliere l’articolazione complessa del reale. È come se in qualche modo Gramsci si situasse nel rovescio della prospettiva di Gentile. Ciò che per questi è concreto – la vita dello spirito – per Gramsci è astratto, mentre ciò che per Gentile è astratto – la materialità dell’esistenza – diventa per Gramsci concreto. Lo stesso nesso gentiliano di filosofia e politica è da lui capovolto, nel senso che non è tanto la politica ad avere un rilievo filosofico, quanto la filosofia ad essere costitutivamente politica. Ma, rispetto a Croce e Gentile, Gramsci compie un passo ulteriore, un vero cambio di paradigma, lungo una direzione che lo mette in contatto diretto con la filosofia contemporanea. Anche qui, senza potere entrare nel dettaglio, penso soprattutto a quella sezione dei suoi Quaderni dedicata al fordismo e all’americanismo, nella quale si configura una sorta di anticipazione rispetto ai due temi, oggi divenuti centrali nella riflessione italiana, e cioè quelli della globalizzazione e della biopolitica. Quanto al primo punto, Gramsci, spostando l’attenzione sugli Stati Uniti d’America con un interesse inconsueto da parte della filosofia europea, tradizionalmente chiusa in se stessa, inaugura un vettore deterritorializzante già tipico del cosmopolitismo italiano. Quanto al secondo, egli riconosce nella forma industriale del fordismo americano un modo nuovo di operare non solo sui meccanismi produttivi, ma sul corpo e la mente di lavoratori sottoposti ad un processo di disciplinamento che possiamo ben definire biopolitico. Naturalmente il lessico, e l’insieme dei problemi posti da Gramsci restano legati al suo tempo e alla sua condizione particolare. Eppure nei suoi scritti si profilano questioni e interrogativi oggi tutt’altro che superati, e anzi proiettati all’interno del dibattito italiano contemporaneo.

3. Prima di arrivare brevemente ad esso, bisognerebbe fermarsi su indirizzi di pensiero e figure di pensatori che hanno segnato in profondità la riflessione italiana degli anni Cinquanta e Sessanta. Dalla ricerca fenomeno logica al marxismo, dal pragmatismo all’esistenzialismo, le tradizioni filosofiche europee hanno trovato in Italia esponenti di rilievo, di cui i nomi di Paci, Abbagnano, Della Volpe, Pareyson, Garin, Bobbio sono solo alcuni dei più significativi. Senza potermi qui soffermare su nessuno di essi, preferisco dedicare qualche spunto conclusivo sul pensiero italiano dell’ultimo trentennio. È naturalmente difficile indicare blocchi di ricerca e linee di tendenza che conglobino al loro interno il lavoro di autori spesso troppo diversi per apparire sotto una medesima sigla. Una maniera, in qualche modo oggettiva, per ovviare a tale difficoltà è quella di rifarmi alle correnti di pensiero e ai paradigmi che più di altri sono entrati nel dibattito internazionale attraverso un numero sempre crescente di traduzioni e di studi ad essi dedicati in diversi Paesi del mondo – dagli Stati Uniti al Giappone, dall’Argentina all’Australia. Da questo punto di vista indicherei tre categorie che il pensiero italiano contemporaneo ha elaborato da un lato assorbendo e dall’altro anticipando temi e tendenze che si sono imposti anche altrove. Ma non irrilevante è il fatto che esse, pur se radicalmente rinnovate, affondino nel cuore della nostra tradizione, e in particolare in quella relazione costitutiva tra storia, politica e vita cui ho più volte fatto riferimento. La prima categoria è quella di comunità, intesa come qualcosa che supera concettualmente l’idea di soggetto individuale puntuale a disincarnato. Fin dalla sua origine la filosofia italiana si è situata oltre la divisione cartesiana tra soggetto pensante e corpo vivente, ma anche oltre l’idea liberale di individuo proprietario, teorizzata dalla linea di pensiero che va da Locke a Mill. Non esiste individuo fuori dalla relazione sociale – semmai esistono processi di individuazione mai chiusi in se stessi perché interni ad un orizzonte transindividuale. Direi che questa concezione è parte integrante del pensiero italiano in tutti i suoi momenti più significativi. Certo, fin da Machiavelli, esso sa bene che la politica è fatta anche, e a volte soprattutto, da individui. Ma in una forma mai astrattamente separabile dalle dinamiche collettive dalle quali essi di volta in volta emergono e con le quali devono misurarsi. La filosofia italiana, da Vico a Capograssi, da Spaventa a Gentile, non ha mai concepito individui irrelati e proprietari di se stessi. La sua scena è costantemente attraversata da insiemi di uomini e donne in rapporto tra loro. Il recente ritorno, nel pensiero italiano, dei motivi della comunità, della moltitudine, dell’impersonale va ricondotto, nella sua ispirazione, a questa decostruzione dell’idea di soggetto personale. Del resto la categoria di ‘prassi’, come è stata ripresa e radicalizzata da Gramsci, non acquista senso che nel superamento della separazione astratta tra soggetto e oggetto, ragione e corpo, politica e vita. Anche alle spalle di tale teorizzazione, che spesso ha assunto un lessico biopolitico, è possibile risalire ai nostri classici e in particolare al pensiero di Bruno. Il rifiuto della separazione presupposta tra anima e corpo, spirito e natura, soggetto e oggetto, fa tutt’uno, in Bruno, con l’idea di un cosmo vivente senza centro né confini. Il soggetto individuale non è certo escluso, ma immesso, e integrato, nel processo di autogenerazione del mondo in una forma che muove verso una filosofia dell’immanenza, portata ai suoi esiti idealistici da Gentile, ma ripensata oggi in una chiave biopolitica dalla più recente filosofia italiana. Una seconda categoria che, lungo itinerari diversi, percorre il pensiero italiano è quella di ‘potenza’. Essa va pensata in autonomia, se non in contrasto, da un lato con la categoria di ‘atto’ e dall’altro con quella di ‘potere’. Che si riferisca al pensiero stesso o ad una forma di soggettività, il tema della potenza è al centro della riflessione di diversi autori italiani, anche di orientamento diverso. Come tutte le categorie, anche quella di potenza assume senso soprattutto a partire dal proprio contrario. Ma qual è il contrario della potenza? Si conosce l’antitesi che, fin della tradizione aristotelica, lega dialetticamente la potenza all’atto: ‘in potenza’ è ciò che non è ancora ‘in atto’. Ora una tendenza del pensiero italiano è quella di provare a pensare una potenza che non si risolva in atto, conservando così la sua carica energetica. Ma la nozione di potenza ha altri due antonimi, che sono da un lato la necessità e dall’altro il potere. In quanto possibilità, la potenza si situa nell’orbita opposta a quella della necessità. Il possibile è ciò che può essere altrimenti. E che dunque non è necessario. Si pensi a come oggi, anche nelle politiche governative, l’idea di necessità rimandi sempre a vincoli infrangibili che non si possono neanche discutere, funzionali a quella gabbia teologico-politica, o teologico-economica, da cui non è possibile uscire. Ebbene la categoria di possibile – intesa nella sua valenza creativa, inventiva, innovativa – è appunto ciò che si oppone a ogni forma di teologia economica, ad ogni presupposto indiscutibile come ad esempio quello del sistema finanziario globale. Da questo stesso lato incrociamo anche l’altra polarità contraria della potenza, vale a dire una nozione chiusa ed escludente di potere. Potenza – che sia del pensiero in quanto tale o di una soggettività – è ciò che forza dall’interno il potere dell’esistente. Se pensata in rapporto alla vita, si tratta di quella modalità che alcuni autori definiscono biopolitica affermativa, vale a dire aperta e non escludente. Anche la contrapposizione tra potere costituente e potere costituito, teorizzata nel pensiero italiano, fa capo alla semantica della potenza, come capacità creativa di istituire qualcosa che non può mai bloccarsi in maniera definitiva senza perdere la propria energia vitale. Prima che al dibattito contemporaneo, anche tale idea di potenza energetica rimanda al classico da cui si può dire nasca l’intero pensiero italiano. Alludo naturalmente a Machiavelli. Quando si dice che egli non è, come Hobbes, un pensatore dello stato, si deve intendere che egli pensa il politico nel suo divenire – dunque come ciò che non è mai solo ‘stato’, che non ‘sta’ se insieme non diviene. Veniamo così all’ultima categoria del pensiero italiano, vale a dire al paradigma di conflitto. Perché la potenza possa, se non scardinare, almeno fronteggiare, il potere, deve presupporre la possibilità del conflitto. Come è noto, è precisamente questa la novità dirompente che Machiavelli insedia all’origine del pensiero politico, ma anche all’origine del pensiero italiano. Il carattere specifico della sua politica, appunto tesa alla creazione di un potere costituente, è precisamente l’idea rivoluzionaria che l’ordine non esclude, ma include, il conflitto. Che anzi senza conflitto – naturalmente nel significato politico, e non bellico, del termine – l’ordine è destinato a inaridirsi e poi a spegnersi. Che il vero nemico della potenza vitale non è il conflitto, ma la neutralizzazione. Senza volere accostare concezioni troppo lontane per essere paragonate, resta un fatto che l’operaismo italiano degli anni Sessanta riprende questa tesi, traducendola nella prassi politica. Che il punto di vista operaio sia diverso da quello del capitale – così come, per il pensiero femminile lo sguardo della donna è differente da quello del maschio – situa la semantica del conflitto nel momento genetico di quella che alcuni chiamano Italian Theory. Da questo lato il riferimento corre alla critica della teologia politica – cui si può forse riportare la direzione d’insieme del pensiero italiano. Se il dispositivo della teologia-politica tende sempre a ridurre il Due all’Uno attraverso l’esclusione di una delle parti, la filosofia italiana del conflitto rivendica la necessità del Due, del conflitto tra potenze e idee divergenti, nell’orizzonte della politica e della stessa vita. Naturalmente quella che ho tracciato è una mappa, o meglio una genealogia, parziale ed orientata da un preciso punto di vista. Certo, l’attuale filosofia italiana è anche altro, ha al suo interno altri temi, altri concetti, altri volti. Io ho messo in risalto quelli che considero più peculiari e innovativi. Come ogni discorso, il mio ha anche un intento performativo. Nel descrivere una realtà, tende ad orientarne la direzione, a guidarne il movimento, a forzarne i confini. Anche per questa via si definisce il significato della differenza italiana.

 

tratto da LA FILOSOFIA ITALIANA NEL NOVECENTO Interpretazioni, bilanci, prospettive; a cura di Onorato Grassi e Massimo Marassi  Mimesis Milano 2015.

 

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