Intervista a Carlo Boccadoro, compositore e direttore artistico/musicale dell’ensemble “Sentieri selvaggi”
Sentieri selvaggi è il nome dell’ensemble cameristico fondato nel 1997 dai compositori Carlo Boccadoro e Filippo Del Corno e dal giornalista Angelo Miotto, con lo scopo di far conoscere al pubblico l’universo della musica colta contemporanea: un universo per molti ancora oggi inesplorato, eppure così ricco di mondi creativi interessanti e capaci di ripagarci con entusiasmanti esperienze d’ascolto. A partire dal loro fortunatissimo debutto milanese, e attraverso una sempre più fitta attività concertistica – che li ha visti ospiti delle più prestigiose stagioni musicali, di eventi culturali italiani e anche di importanti festival internazionali – i Sentieri selvaggi (i cui componenti, tra i più valenti e versatili musicisti della scena nostrana, rispondono ai nomi di: Paola Fre, flauto; Mirco Ghirardini, clarinetto; Andrea Dulbecco, vibrafono; Andrea Rebaudengo, pianoforte; Piercarlo Sacco, violino; Aya Shimura, violoncello) si sono nel tempo costruiti un repertorio di tutto rispetto, disegnando percorsi d’ascolto che spaziano dai compositori più importanti e seguiti della scena internazionale (come Reich, Glass, Nyman, Andriessen, Bryars, Gordon) a giovani autori emergenti, soprattutto italiani (come gli stessi Boccadoro e Del Corno, Antonioni, Colasanti, Mancuso, Montalbetti, Verrando).
Un altro aspetto importante nel lavoro di Sentieri selvaggi è rappresentato dalle produzioni di teatro musicale, con allestimenti quali L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Michael Nyman e The Sound of a Voice di Philip Glass. E a ciò, infine, va anche accostata l’attività di scrittore di Boccadoro, presidente dell’Associazione e direttore artistico e musicale dell’ensemble: libri come Lunario della musica, Racconti musicali (Einaudi), o il fortunatissimo Musica Cœlestis. Conversazioni con undici grandi della musica d’oggi (da poco ristampato per Il Saggiatore), sono infatti esempi di come si possa parlare di musica, anche di quella apparentemente più difficile o meno conosciuta, in modo avvincente e stimolante.
Ho avuto più volte il piacere di assistere dal vivo alle esibizioni dei Sentieri selvaggi; nell’ultima di queste occasioni (11 maggio 2015), dopo il loro concerto conclusivo della stagione “Tempi Moderni” (al teatro Elfo Puccini di Milano, che dal 2010 ospita Sentieri selvaggi in un progetto di residenza artistica), ho rivolto alcune domande a Carlo Boccadoro.
1. La vostra missione dichiarata è avvicinare la musica contemporanea al grande pubblico. Lo si legge nella homepage del vostro sito (sentieriselvaggi.org), ma soprattutto lo si avverte in molte delle strategie comunicative che attuate. Dai titoli programmatici e descrittivi delle stagioni di musica contemporanea da voi organizzate (l’ultima, “Tempi moderni”, si è chiusa con un concerto intitolato “Energia comune”), alle informali presentazioni parlate che precedono ogni brano e permettono anche all’ascoltatore meno avvezzo di penetrare in un mondo troppo spesso considerato ad esclusivo appannaggio di pochi eletti, creando così un’atmosfera “friendly”, meno “ingessata” di quella che solitamente circonda le esecuzioni del repertorio classico. Come valuti i risultati finora ottenuti dal punto di vista divulgativo, soprattutto per quanto riguarda il pubblico più giovane?
Come hai giustamente detto, quello dello stabilire un contatto con il pubblico è una priorità. Fin dalla fondazione dell’ensemble Sentieri selvaggi, ogni brano viene presentato da me attraverso una breve introduzione informale. Questo dà una sfumatura radiofonica ai nostri concerti e ci fa ricordare le nostre origini, ossia quasi vent’anni fa quando Sentieri selvaggi era il nome del nostro programma di approfondimento sulla musica contemporanea. Oggi stiamo cercando di ampliare questa nostra caratteristica comunicativa, proponendo degli incontri di approfondimento sui concerti della stagione e cercando di coinvolgere un pubblico giovane e universitario. Per ora i risultati sono positivi, non è raro vedere ai nostri concerti facce giovani, ma speriamo che siano sempre un numero maggiore.
2. Le vostre collaborazioni con scrittori, architetti, scienziati, video-maker, attori, registi, ecc., così come le frequenti incursioni in spazi alternativi come gallerie d’arte, piazze, strade, centri commerciali e università, oltreché rispondere ai vostri onnivori interessi, si pongono anch’esse nell’ottica di attirare pubblici altri rispetto a quello dei melomani. Eppure, come già lamentava il grande sinfonista americano John Adams, uno dei compositori da te allora intervistati, siamo ben lontani dal fare della musica contemporanea una parte essenziale della vita estetica di un individuo del XXI secolo (dove invece occupano un posto ben più rilevante il cinema, le arti visive o la letteratura). Da cosa ritieni che dipenda questo stato di cose? Forse dal fatto che di musica si parla troppo poco, nei giornali o in televisione? Cosa pensi si possa ancora fare per avvicinare al mondo della musica contemporanea quelle persone che, pure, coltivano interessi culturali, ma che riservano la loro curiosità e il loro tempo libero ad altre forme d’arte o ad altri generi musicali (penso, in quest’ultimo caso, allo zoccolo duro dei fedelissimi della classica più tradizionale, ma anche del rock e del jazz, i quali talvolta faticano ad uscire dai loro mondi, pur senz’altro appaganti)?
Sembra scontato ma non lo è purtroppo: il primo passo per avvicinare il pubblico alla musica contemporanea è continuare a proporgliela, dato che non si può amare qualcosa senza prima conoscerla. È tuttavia indispensabile che il pubblico sia aperto mentalmente e conscio del fatto che uno sforzo può avere risultati esteticamente appaganti.
3. Nel corso dei suoi quasi vent’anni di attività, Sentieri Selvaggi ha conosciuto una sensibile evoluzione, che mi pare ben testimoniata dal concerto conclusivo della vostra ultima stagione, “Energia comune”, e dal vostro ultimo CD, “Sentieri Live 3”. Inizialmente vi dedicavate soprattutto a quei compositori che, in barba ai dettami di Darmstadt e dintorni, sono ritornati (a partire dagli anni Settanta e Ottanta) a scrivere una musica intellegibile, emotivamente ricca e nuovamente capace di regalare esperienze d’ascolto piacevoli (sebbene nient’affatto superficiali), anche attraverso il recupero del linguaggio tonale, della pulsazione ritmica e di forme classiche bandite dagli apostoli del serialismo. Penso a Reich, Kernis, Bryars, Galante, Einaudi, MacMillan, Turnage, giusto per citare alcuni tra coloro ai quali avete dedicato concerti monografici (talvolta eseguendo le prima italiane dei loro lavori) e che spesso hanno dedicato loro partiture all’ensemble. Negli ultimi anni il vostro repertorio si è tuttavia notevolmente allargato, fino a includere autori maggiormente inquadrati nell’establishment accademico – Boulez, Stockhausen, Francesconi, Panni, Donatoni, e diversi altri – e la cui musica è senz’altro più spigolosa, cerebrale, astratta (un’evoluzione che mi sembra di cogliere anche nella tua parabola compositiva, ben rappresentata dal recente Cd “Time Travel” licenziato da Sony, che raccoglie tue composizioni orchestrali scritte negli ultimi vent’anni). Come riuscite ad equilibrare l’esigenza di rappresentare la pluralità di voci che si affollano, e talvolta si scontrano, nel panorama musicale contemporaneo, con quella di mantenere una vostra identità forte e riconoscibile?
Non credo che la musica di Francesconi o Panni sia astratta o sostanzialmente cerebrale, anzi sono due creatori molto sanguigni. Con Marcello [Panni] poi la collaborazione e la grande amicizia arriva da molto lontano. Si tratta di differenze sostanzialmente morfologiche, di linguaggi diversi. Noi negli anni abbiamo semplicemente voluto allargare il nostro panorama con curiosità e passione.
4. La vostra onnivora curiosità vi ha portato a scoprire come la musica classica si sia evoluta e declinata anche a seconda delle identità nazionali o trans-nazionali che, nonostante la tendenza a miscelare linguaggi e culture, lasciano comunque qualche traccia nel lavoro dei compositori (in quanto, poniamo, statunitensi, francesi, inglesi, georgiani, e così via). Pensi che la musica contemporanea italiana, cui riservate sempre uno spazio privilegiato nei vostri programmi e nelle vostre incisioni discografiche, possieda una propria cifra stilistica distintiva? E, se sì, quanto è debitrice (se lo è) del recupero delle peculiarità della tradizione strumentale italiana operata dalla famosa generazione dell’Ottanta (i vari Malipiero, Casella, Respighi, ecc., per i quali, lo confesso, ho un debole) e dagli autori dei decenni immediatamente successivi (Petrassi, Ghedini, Dallapiccola, e così via)?
Non so se si possa parlare di cifra stilistica distintiva ma sicuramente esiste nella maggior parte dei casi un filo conduttore, sebbene talvolta tortuoso. A testimonianza di ciò lo scorso anno abbiamo voluto “raccontare” queste forme di eredità artistica in un programma tutto italiano presentato nella stagione della Società del Quartetto nel quale si mescolavano pagine di Ghedini, Berio, Gentilucci, Einaudi e Donatoni, tutti compositori legati fra di loro da rapporti umani e artistici. Maestri e allievi o più semplicemente amici legati da profonda stima reciproca.
5. Come giudichi, dal punto di vista culturale, e specialmente musicale, l’epoca nella quale stiamo vivendo, e cosa ti aspetti dagli anni a venire?
Sicuramente un’epoca nella quale, per fortuna, non esistono più stupide barriere culturali fra linguaggi apparentemente diversi (anche se molti amerebbero ancora erigerle). La straordinaria fantasia, nonché bravura tecnica, di tanti giovani compositori mi induce a sperare in un futuro ricco di grandi stimoli, e talvolta riesco pure ad intravederlo.