La scrittrice Malika Mokkedem nel suo romanzo Gente in cammino,ambientato in Algeria nel 1962, descrive così la folla maschile durante la festa per la liberazione dal dominio francese:
«Gregge della miseria sessuale, segregavano le donne e a causa della loro assenza erano talmente affamati, che la vista di una ragazza senza velo metteva in subbuglio tutta una moltitudine. Scoppiavano di astinenza. Il vecchio sperma non eiaculato [poco dopo definito “sperma irrancidito”] che fermentava in loro, schiumava agli angoli delle loro labbra. Grida di “virilità”, di odio e di misoginia, facce deformate, annodate, mutilate da perpetue frustrazioni, fino a diventare null’altro che bestialità ferina!».
Da Algeri a Colonia.
Quella di Colonia, e non solo, è una vicenda che vuole essere un messaggio di maschi non occidentali a maschi occidentali attraverso il corpo delle donne; da guerrieri a potenziali guerrieri. Un messaggio che si fonda su quel richiamo ancestrale che è a fondamento dei clan, delle tribù, delle famiglie, sostanzialmente dei branchi, il termine che meglio richiama il fatto che siamo animali u-mani, con le mani; e le mani servono sia per abbracciare che per uccidere. Si lotta con il corpo ma soprattutto con le mani. Mani che a Colonia sono state utilizzate per palpare il corpo di donne che desideravano unicamente festeggiare un momento di passaggio, ma lo volevano fare scegliendo loro come farlo.
I clan, le tribù e i branchi applicano in modo sistematico la categoria amico-nemico: chi riconosco simile a me e chi presumo diverso da me e se colui che presumo diverso da me “attacca” questo giustifica lo “stato d’eccezione”. Un’identità, quella clanistica, fondata sul limite che l’altro rappresenta e in quanto limite sulla contrapposizione al limite stesso e quindi all’altro. L’altro – benché sia elemento costitutivo dell’identità – è accompagnato in maniera indissolubile da un’inquietante carica di minaccia; ciò alimenta la paura dell’estraneo, compreso l’estraneo che è in noi, e la paura in genere diventa strumento facile da utilizzare nel controllo sociale. Tutte le politiche del rifiuto si fondano su questo uso. Ed è una donna, Diotima, l’incarnazione dell’altro, dello straniero, nella sua accezione più ampia e comprensiva: è di Mantinea e non ateniese, è straniera perché non partecipa direttamente al simposio, è donna, è sapiente, è sacerdotessa, parla di verità non attingendo solo alla logica.
Quello dell’appartenenza al clan-tribù-branco è un richiamo potente e che agisce con rapidità perché mai scardinato dalle culture, tanto che la caccia, la lotta, la guerra hanno già avuto inizio nelle strade di Colonia, e non solo, e hanno avuto inizio sul corpo delle donne e con il pretesto del corpo delle donne. E questo perché i maschi a ogni latitudine continuano a considerare la femmina una proprietà, checché se ne dica, e che come tale va difesa dagli attacchi di altri maschi, in quanto i maschi sono, nell’immaginario di se stessi, sovrani, salvatori ed eroi, difensori delle “loro” donne e della purezza delle “loro” donne. Inoltre, nuovi clan, tribù e branchi si formano e si legittimano con maggiore facilità in rete, così rimangono più agevolmente anonimi e insieme si formano e si sciolgono in funzione di obiettivi a breve termine.
«Chi non sa fare l’amore fa la guerra» sono le parole fatte pronunciare alla protagonista del film di Atiq Rahimi Come pietra paziente per rappresentare i sentimenti delle donne che vivono in un paese, l’Afghanistan, fondato sulle tribù e i clan e, per questo, impregnato da una guerra permanente. La protagonista per sfuggire allo stupro si dichiara prostituta, di conseguenza il suo corpo non aderisce più alla legge della “purezza”; cosicché il potenziale stupratore se intende rimanere puro non può entrarne in contatto. Dove c’è stato il pene “illegittimo” di un altro non può “immergersi” anche il suo, perché lui stesso diverrebbe impuro, come ben stigmatizzano di nuovo le parole proferite dalla donna: «Perché mettere il suo lurido affare in un buco già usato non gli procura alcun orgoglio virile». Il messaggio di Colonia sembra essere: “toccate da noi le vostre donne non sono più pure, toccatele e vi ricorderete di noi”.
È già nella Torah che il corpo femminile diventa paradigma del puro-impuro. L’impurità è attribuita al corpo della donna mestruata e della partoriente non solo nel testo ebraico ma anche nel Corano e in molti testi dell’Induismo. Nel mondo mediterraneo l’impurità è anche legata alla negazione dell’importanza del ruolo femminile nella procreazione, come esplicita il mito di Oreste che uccide la madre per vendicare l’assassinio del padre, ed è assolto dal tribunale, che per lui si costituisce sulla base del fatto che il solo genitore, colui che “crea” il figlio, è il padre mentre la madre offre solo il luogo. Si tratta di quel tema mitico greco utilizzato da Johann Jakob Bachofen, nel suo celebre Mutterrecht del 1861, per spiegare il passaggio dal matriarcato al patriarcato.
Siamo figli di questa cultura e la mancata rielaborazione di questa cultura perdura ed è radicata nella nostra quotidianità, nella quotidianità occidentale. Il fatto che la polizia non sia intervenuta è infatti indice di una inadeguatezza culturale che si manifesta nella sottovalutazione dei comportamenti osservati, una sottovalutazione che avviene anche per le violenze che quotidianamente i maschi occidentali esercitano sulle donne occidentali. Del resto nelle stesse ore nelle quali irrompevano nelle nostre vite gli episodi richiamati, il più grande centro acquatico di Stoccolma decideva di istituire aree separate fra donne e uomini dopo la denuncia di pesanti molestie maschili nelle vasche. La fine di un’era.
Da Colonia ad Algeri.
Il conflitto, che attanaglia il mondo arabo e islamico al proprio interno, fra “modernità” e “tribalismo” è un conflitto che non solo è necessario approfondire ma soprattutto è necessario riconoscere perché è ancora radicato anche nelle nostre società e passa attraverso il corpo delle donne, perché il corpo della donna è il luogo pubblico della cultura e quindi della politica, un corpo sul quale ancora oggi ci si scanna, impropriamente, in nome di Dio. Significativo al riguardo è Figlie di Ismaele, un testo teatrale di Assia Djebar, che ha al centro la morte di Maometto, un uomo che a sessantatre anni, cessa di vivere con al fianco la più giovane delle mogli, A’isha, e la figlia Fatima. “Fatima è una parte di me, e ciò che sconvolge lei sconvolge me” aveva dichiarato pubblicamente il Profeta e nonostante questa identificazione simpatetica fra padre e figlia, Fatima viene spossessata della sua eredità spirituale e materiale da coloro che si autoproclamano i legittimi successori e questo perché Maometto spira senza designarne uno, poiché quando mandò a chiamare uno scriba per farlo, gliene inviarono tre. Troppi e probabilmente non quello che desiderava e che aveva tutte le qualità per rivestirne il ruolo. Così egli gira la testa, rimane in silenzio e muore con il volto rivolto verso la solitudine e il rifiuto degli scribi proposti. Assia Djebar chiosa l’episodio, in un altro suo lavoro, con le seguenti parole: “Di colpo si fa presente l’incertezza per la successione e per il modo in cui attuarla, per la persona stessa del successore. … Se Fatima fosse stata un figlio, la scena finale della trasmissione sarebbe stata un’altra”. Questa raffigurazione delle opportunità negate a Fatima rende plasticamente palese non solo il fatto che religione, politica, struttura militare e con questa la guerra, siano ambiti dove si attuano pratiche normative e prescrittive rinvenibili nella vita sociale, ma anche il fatto che proprio queste sfere della vita, a ogni latitudine del pianeta, si siano, da sempre, mostrate come le meno permeabili e con il tasso più elevato di ostracismo verso i non-uomini e i nonmaschi.
Colonia come Algeri.
Che cosa hanno in comune religione, politica e arte militare? La religione reclama il diritto a definire i canoni della morale e i dogmi comportamentali, mentre alla politica è attribuito il compito di definire le leggi che regolano i diritti e i doveri, e infine, la struttura militare esercita la forza verso “il nemico”. Religione, politica, organizzazione militare e con questa la guerra sono dispensatrici di certezze e di credenze: ciò che è bene o male, ciò che è giusto o sbagliato, ciò che è lecito e ciò che è sanzionabile, ciò che è “con me” e con la “mia tribù-clan-branco” e ciò che è “contro di me” e contro la “mia tribù-clan-branco”. Credenze e certezze che consentono di illudersi di far fronte all’incertezza.
I gesti compiuti a Colonia hanno generato nel gruppo – sia fra coloro che li hanno compiuti, sia nei maschi occidentali – compattezza, per effetto del riconoscimento vicendevole, grazie a una aggressività sperimentata all’interno di una percezione particolarmente regressiva dell’ambiente. Questa regressione, soprattutto se prolungata, porta a una varietà di conseguenze negative e potenzialmente pericolose nella vita dell’individuo. Questo è particolarmente vero in una delle strutture più distruttive della storia: la nazione. E il mondo arabo, così come l’Europa, è stato ed è afflitto culturalmente, e oggi anche concretamente, da questo tarlo collettivo. Così le inclinazioni più maligne dell’essere umano vengono mobilitate a sostegno della rabbia nazionalistica. Lo scopo resta quello dell’estinzione totale del nemico, che è sentito come assoluto in ogni momento del tempo. I clan, le tribù e i branchi quando sono culturalmente deprivati desiderano qualcuno che si rivolga a loro, parli a loro e per loro. Oggi al mondo arabo manca questo e l’unico appiglio sono i fanatici dell’Isis.
Ma questo appiglio manca anche all’Europa. Infatti, l’Occidente, e in particolare l’Europa, mostra nostalgia di quando il mondo aveva come guardiano gli Stati Uniti o quando esisteva l’URSS, che arginava le spinte autonomistiche e comprimeva l’espressione dei movimenti religiosi: si stava meglio quando si stava peggio.
Donne di Colonia, donne di Algeri.
Noi donne abbiamo lottato per superare la tradizionale distinzione fra l’ambito del personale o privato e quello politico o pubblico. Il famoso slogan “il personale è politico” non si limitava a rigettare la tesi che questioni come quelle inerenti i privilegi dei maschi all’interno del matrimonio o delle convivenze, oppure la violenza sessuale o fisica, rimanessero relegate alle diverse articolazioni della complessità etica e morale individuale e non anche il centro della discussione politica e pubblica. Cosicché questo slogan ha generato un salto qualitativo attribuito dalla stessa ricostruzione dell’identità femminile, facendo sì che questa venisse vissuta e proposta a pieno titolo con tutte le sue articolazioni e componenti come attore sociale. Il personale, in altre parole, ha disegnato tanto un programma politico quanto uno spazio politico.
È indubbio che il passaggio cruciale che sta vivendo gran parte della società europea, con il suo portato di assenza di prospettive individuali e collettive, di incertezza, sta riattivando femminilità e mascolinità arcaiche. Dare posto a credenze, a certezze, sono una carta da giocare in condizioni sociali difficili, dure, ostili, agonistiche, competitive e finanche crudeli. E così diventa attrattivo mettersi al riparo utilizzando il corpo delle donne, facendole nuovamente diventare “le mie”, “le nostre”.
Il desiderio del futuro è desiderio di vita e la modernità ha fatto credere che il futuro fosse nelle nostre mani, lì alla nostra portata, e quindi potesse essere forgiato dalla nostra volontà. La realtà mostra che così non è, e subentra pertanto la necessità di proteggersi dall’altro per sopravvivere, la relazione sociale viene liberata dai principi e dai divieti e sopraggiunge una sorta di barbarie e di anarchia e gli scontri di civiltà diventano scontri fra identità e funzionalità, e diventa paradigmaticamente attuale la tragedia macbethiana che descrive l’essere umano in preda al disorientamento incredulo di scoprirsi omicida, traditore, fratricida, usurpatore. Questo significa che le interazioni sociali possono agire come un balsamo ma anche come un veleno.
Siamo dentro a uno smarrimento dell’essere umano contemporaneo, a un’incapacità di elaborare significati condivisi, a creare coesione, con la condanna all’isolamento e allo sconcerto. Ciò pone il problema di una responsabilità culturale, e proprio per questo politica, di cui dobbiamo farci carico e dobbiamo farcene carico soprattutto noi donne.
Grazie maschi occidentali, ma ce la vediamo da sole con i maschi arabi e arabo-islamici. Anzi chiediamo alla politica di renderci a tutti gli effetti padrone del nostro corpo, qui e ora, ovunque e a ogni latitudine del pianeta. Chiediamo alla politica impegno culturale che delegittimi i clan, le tribù e i branchi.