Chertsey, Surrey, 1993. Circa 20 miglia da Londra. All’interno di Thorpe Park, parco divertimenti a tema, principalmente acquatico, dove attrazioni spensierate con nomi giocondi come Magic Mill, Phantom Phantasia, Sunken Gardens o Thunder River accolgono visitatori decisi a lanciarsi in avventure domenicali, apre il Virtual Reality Centre. L’uomo dietro a questo lancio èJonathan Waldern, fondatore di Virtuality, una ditta britannica specializzata in VR per video arcades. Waldern, dopo un VR PhD research finanziato da IBM Research Labs in Hursley (UK), fonda il Virtuality group nel 1985. In uno dei pochissimi video che girano su youtube in cui Waldern viene intervistato a proposito delle nuove arcades da lui progettate come SU 2000 (https://youtu.be/2Imyn6QSq9s), il focus è ovviamente tutto sul valore della VR per l’industria del divertimento (non a caso, quindi, Thorpe Park). Cent’anni dopo l’invenzione dei Lumière, la storia si ripete: se gli amusement parks americani hanno avuto un ruolo importantissimo come luogo di proiezione e film exhibition agli albori della storia del cinema (solo Coney Island contava, nel 1906, circa 30 sale ‘cinematografiche’), perché stupirsi che il lavoro di Waldern, questa volta totalmente in anticipo sui tempi, trova spazio in un parco a temi nella campagna a sud di Londra?
Come la cronaca del tempo ci spiega, quasi all’improvviso, per un mancato accordo con l’Atari per la messa in produzione a livello commerciale dei Jaguar head-set di Waldern, Virtuality praticamente collassa su stessa. Il flop della VR targata anni Novanta sta, parzialmente, tutto qui: il tentativo dell’entertainment industry di sperimentare con la tecnologia non è supportato da una diffusione capillare della tecnologia stessa all’interno della vita quotidiana dei consumatori. È una tecnologia troppo estranea e futurista, forse faticosa da comprendere, esperienza fine a se stessa e discordante, banalmente superflua. Meglio un giro sul Thunder River. Semplicemente non funziona. Non ancora perlomeno, per la metà degli anni Novanta.
Oggi, come sottolinea The Economist, VR è tecnologicamente sviluppata quanto gli smartphones lo erano nel 2001. Appunto, gli smartphones. Qualcosa è cambiato, radicalmente. La rivoluzione digitale ormai è avvenuta e con essa si apre la seconda opportunità per VR di entrare con prepotenza nella quotidianità dei consumatori del nuovo millennio. Ad inizio 2016, Facebook lancerà ufficialmente, dopo averne acquisito i diritti per 2 miliardi di dollari, Oculus Rift VR, una nuova piattaforma che, assieme a Playstation VR, molto probabilmente rivoluzionerà il modo di creare, fruire e distribuire la realtà (qualunque cosa essa sia). Come vent’anni fa dunque, iniziamo dall’inizio?
Al di là delle applicazioni commerciali, se spostiamo la nostra attenzione al campo delle sperimentazioni digitali implementate da artisti, filmmakers e giornalisti, possiamo individuare le nuove potenzialità del medium in un contesto di storytelling e nuove narrazioni digitali (lontane anni luce dalle visioni ludiche di Waldern). Quando Laura U. Marks più di dieci anni fa insisteva sulla necessità di adottare un approccio materialista nei confronti dei media virtuali (internet, digital media etc), non criticava la virtualità in generale ma l’idea che essa fosse basata su una falsa questione trascendentale: ciò che chiamiamo virtuale è una versione della realtà che naviga ed opera su altri livelli di complessità di significato. Il virtuale, dunque, come enfasi ultima del desiderio sfrenato (e a volte molto popolare) di immagini indexicali del reale.
In questo senso, è forse utile tracciare brevemente lo sviluppo della VR come frontiera di ricerca ed indagine nel campo della condizione cinematografica post-mediatica (Casetti) e della cultura della convergenza (Jenkins) attraverso alcuni innesti tra cinema del reale e immersive journalism. Circa quattro anni fa infatti Nonny de la Peña’s Hunger in Los Angeles debuttò al 2012 Sundance Film Festival, usando un primo prototipo di goggles (sviluppato dal – al tempo – 19enne Palmer Luckey, fondatore dell’Oculus Rift, comprato ora da Mark Zuckerberg: il cerchio si chiude) per raccontare il problema della fame in un quartiere di Los Angeles. Lo spettatore, in questa semi-totale embodied experience, si trasforma in testimone (non ancora in presa diretta, come succede a Mae Holland attraverso la tecnologia SeeChange, nel distopico romanzo ‘The Circle’ di Dave Eggers); anche se in questo primo esempio l’estetica era ancora primitiva e abbastanza semplificata, è ricordato come momento memorabile nell’applicazione della tecnologia ad un contesto di storytelling del reale, a metà strada tra giornalismo e cinema documentario. Da lì ai lavori sviluppati da Chris Milk per VRSE il passo è (stato) breve: da Millions March (co-diretto con Spike Jonze) a Clouds over Sidra (co-prodotto dalle Nazioni Unite e Samsung), presentati lo scorso giugno all’interno del programma Realities+D del Sónar+D a Barcellona, fino all’ultimo Waves of Grace (creato da Gabo Arora e Chris Milk, come seconda commissione delle Nazioni Unite), in visione pochi giorni fa all’IDFA DocLab, una sezione del ricchissimo programma dell’IDFA – International Documentary Filmfestival Amsterdam, dedicata all’esplorazione del documentary storytelling in the age of the interface.
Waves of Grace è un esempio illuminante e radicale di una pratica che sta muovendo i primi passi ma che sta rapidamente trasformando l’incontro tra cinema del reale e realtà virtuale nel panorama digitale. Dopo l’esperienza VR immersiva in Clouds Over Sidra (vincitore dello Sheffield Doc/Fest Award 2015), dove lo spettatore segue una ragazza di 12 anni di nome Sidra nel campo profughi di Za’atari (Giordania) che ospita circa 85000 rifugiati dalla guerra civile siriana, con Waves of Grace, Milk e Arora si spostano in una cittadina vicino a Monrovia, capitale della Liberia. Attraverso il racconto di Decontee Davis, sopravissuta al virus dell’Ebola e ora impegnata ad aiutare altre vittime, lo spettatore è letteralmente catapultato a 360 gradi nella vita quotidiana post-virus. Il film si apre in una spiaggia con la voce di Decontee che racconta il dopo-guarigione; attraverso un montaggio abbastanza inusuale per un VR film, siamo trasportati all’interno di un ospedale a fianco di un dottore che visita un bambino o dentro ad una scuola, in una chiesa o in campo di calcio. Girato con una VR camera appositamente elaborata da Milk e il suo VRSE.works, l’esperienza è pressoché totale, tele-trasportati dentro un angolo di mondo dimenticato e stremato ma non abbattuto: la vita ancora gira e ne siamo testimoni, mentre tocchiamo quasi con mano i sorrisi dei bambini che ci corrono attorno, in un campo di sabbia o in una piscina vuota arrugginita, o al quinto piano di una palazzina che dà sul mare e al nostro fianco, qualcuna che ancora, nonostante tutto, imbraccia la chitarra e suona. Anche per noi.
Incontri virtuali con un’umanità vulnerabile che sopravvive in situazioni brutali: verso la fine del film, di fronte a noi in un extreme close-up appare Decontee, un timido sorriso quasi d’imbarazzo che guarda il mare. Per un attimo, anch’io mi volto e guardo il mare; ma poi ritorno sul suo viso e trattengo il respiro. Le parole non servono più.