Kant nell’harem: Fatema Mernissi

 

 

 

Fatema Mernissi era di una grande, esotica, ostentata bellezza orientale. Il suo naso aquilino e gli occhi sempre bistrati, i suoi abiti di foggia tradizionale e allo stesso tempo cosmopolita,  ne facevano un simbolo orgoglioso dell’inversione dello stigma orientalizzante con cui gli occidentali guardano la donna ‘esotica’. Infatti, sebbene Mernissi potesse a prima vista incarnare esteticamente lo stereotipo della donna orientale, il suo lavoro era tutto teso a sovvertire questo schema, a ribaltare il cliché della donna bella e orientale, dunque sottomessa e muta. La sua figura sembrava un’affermazione di conciliabilità, al di là di ogni stereotipo, tra impegno, intelligenza, coraggio, apertura, e tradizione. Ma una tradizione rivisitata, consapevole delle proprie ibridazioni. Si può essere orientali, belle e intelligenti, dunque. Proprio a questi temi è dedicato quello che da molti viene considerato il suo capolavoro, Scheherazade goes West, or: The European Harem, pubblicato nel 200o e meritoriamente tradotto da Giunti col titolo L’harem e l’OccidenteMernissi ha sostenuto in quel libro tesi interessanti e provocatorie, che hanno avuto eco anche nel dibattito italiano, e che hanno fatto storcere il naso a più di una femminista. La tesi di fondo è che gli occidentali dovrebbero guardare a casa loro, ovvero dovrebbero smetterla di pensare che l’oppressione (della donna) sia sempre affare di ‘altri’ e che l’Occidente sia il luogo dei diritti incarnati e dell’emancipazione. In particolare, Mernissi racconta la propria esperienza di cliente di un grande magazzino americano: voleva comprarsi una gonna di cotone, ma il commesso le disse che aveva fianchi troppo larghi per una taglia 42: “Ebbi allora la penosa occasione di sperimentare come l’immagine della bellezza dell’Occidente possa ferire fisicamente una donna, e umiliarla tanto quanto il velo imposto da una polizia statale in regimi estremisti. […] Mi resi conto per la prima volta che la taglia 42 è forse una restrizione ancora più violenta del velo musulmano” (F. Mernissi, L’harem e l’Occidente, Giunti, Firenze 2006, pp. 163 e 166). Questa tesi è arrivata in Occidente come uno schiaffo potente, poiché Mernissi stava sostenendo, proprio negli anni in cui la società occidentale si interrogava sulla libertà delle donne musulmane (e le bombe degli anni successivi sarebbero state benedette dallo scopo di togliere il burqa alle donne afghane), che il medico deve prima curare se stesso. Se la prendeva non solo con gli stilisti, ma con la filosofia che aveva prodotto una struttura maschilista della società e della cultura: “Di fatto, il moderno occidentale dà forza alle teorie di Immanuel Kant del XIX secolo. Le donne devono apparire belle, ovvero infantili e senza cervello” (ivi, p. 167). Ingres con Kant, insomma. Lo stesso valeva per il ‘tempo’, ovvero per la vecchiaia, usato in Occidente così come gli Ayatollah usano lo spazio in Iran: per conculcare la libertà delle donne.
La decostruzione dell’immaginario occidentale sulla donna orientale era l’obiettivo di quel libro, assieme alla messa in crisi delle pretese acritiche di un etnocentrismo occidentale tutto teso ad affermare la propria superiorità morale. Mernissi ci stava dicendo che le donne occidentali non sono così libere come gli uomini occidentali tendono ad affermare, poiché esse sono vittime di un’altra forma di violenza, che – sosteneva Mernissi – non è meno oppressiva e grave del velo. E ci invitava a riconsiderare l’illibertà delle donne orientali, ricostruendo un harem del tutto diverso da come la letteratura e le arti europee ce lo hanno consegnato. Shahrazad non era più la vittima del potere maschile, ma un’astuta oppositrice che scavava il terreno sotto i piedi al dominio maschile. Mernissi proponeva dunque delle forme di essenzialismo strategico o di sly civility, ovvero un metodo non frontale di lotta che potesse, dal di dentro, minare i pilastri del maschilismo.

Quanto queste strategie fossero e siano utili, non lo sappiamo. Sappiamo che esistono e che vengono praticate (si pensi all’inversione dello stigma di cui sono stati oggetti prima la gonna per le femministe europee e poi il velo per le musulmane francesi), e sappiamo che rischiano di perpetuare il significato simbolico dell’oppressione. Ma al di là di questo, Fatema Mernissi stava mettendo con acume e coraggio l’Occidente davanti a uno specchio che lo facesse risvegliare dalla propria dissonanza cognitiva.

La sua ricerca non si è fermata. Leggo che era una donna estremamente curiosa, e che quando El Pais le chiese, di fronte al suo interesse per Internet, se non pensava che fosse però anche uno strumento di comunicazione tra terroristi, rispose con parole che sono un trattato per affrontare il presente: “¡Pero si muchos de los terroristas provienen de Europa misma! Para mí, la cuestión es averiguar cuál es la semilla y la tierra, el caldo de cultivo que lo produce. Necesita nacer y crecer como las plantas. Lo resolveremos si sabemos por qué sucede, no con tópicos como que todos los terroristas son musulmanes”.



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