Tratto da M. de Certeau, Utopie Vocali. Urbino 1978 (Dialoghi con P. Fabbri e W.J. Samarin, a cura di L. Amara, Mimesis, Volti (in uscita Dicembre 2015)
La glossolalia non è un fatto recente, ma un antichissimo fenomeno. Dalla Prima Lettera di San Paolo ai Corinzi, nel Nuovo Testamento, si sono trasmesse a noi le pratiche del parlare in lingua e le esperienze carismatiche dei primi cristiani. Tuttavia lungo l’intera storia dell’occidente e del cristianesimo si rintraccia una serie cospicua di fenomeni glossolalici; per esempio, tra i fatti relativamente più recenti, il metodismo di John Wesley (1703-1791); e anche i Giansenisti alla fine del XVIII secolo; o gli Ugonotti francesi nelle Cévennes; a Londra gli “irvinisti”, seguaci di Edward Irving (1830-1900); al Nord, in Svezia, in Norvegia e in Finlandia, nel XIX secolo, si assiste a una proliferazione di sette che usano la glossolalia. Fenomeni glossolalici si riscontrano anche nel linguaggio infantile. Ciò che possiamo dedurre dalla documentazione realizzata per la nostra ricerca, mette in luce una rifioritura della glossolalia, iniziata nelle chiese protestanti ed episcopali negli Stati Uniti attorno al 1960. In breve tempo ben 10.000 pastori praticavano la glossolalia che, un po’ più tardi nel 1967, si affermava anche in ambiente cattolico. Ciò che da subito sembra interessante notare è che la glossolalia ha preso inizio negli ambienti universitari: furono degli studenti e dei professori i primi a cominciare a «balbettare» e cantare in lingua. Si dice che oggi ci siano circa 600.000 mila carismatici cattolici negli Stati Uniti e circa 150-200.000 fuori dagli Stati Uniti. Il fenomeno glossolalico è dunque antico, diffuso e non riguarda esclusivamente i Cristiani, dal momento che si ritrovano equivalenti dei glossolali anche tra sette o gruppi ebrei; ci sono fenomeni di glossolalia nell’Umbanda brasiliana a maggioranza nera e anche tra gli sciamani indiani.
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Dal punto di vista religioso, la prima cosa da osservare è che in fondo si tratta di un linguaggio che ha tutta l’aria di non volere dire nulla, non vuole dire nulla. Infatti ciò che mi sembra molto importante nella glossolalia è che per l’appunto il problema si situa all’interno e in funzione del linguaggio. Forse è una lingua che non vuole dire nulla – vedremo più avanti come questa asserzione non sia del tutto vera – tuttavia ciò non impedisce che lo sguardo sia focalizzato sulla questione del linguaggio. Mi sembra che qui ci s’imbatta nell’antichissimo problema che concerne il ruolo della predicazione della buona novella, cioè del Vangelo. In fondo c’è un problema che era già nella religione cristiana, cioè la questione stessa del linguaggio in quanto Dio si manifesta in questo linguaggio. Ora, sembra che oggi con la glossolalia si ripresenti il problema di questo Logos, di questo Vangelo, ma vuoto: o meglio, c’è ancora lo spazio del Logos, del messaggio, della buona novella “linguistica”, ma un annuncio al quale non può essere corrisposto un contenuto di senso. Si può dunque dire ancora una volta che c’è un problema di “senso” e questa sorta di retaggio negativo del messaggio si può trovare sotto differenti forme. Per esempio nel rapporto con una Chiesa, cioè nella relazione con un luogo di significazione, dove i fenomeni di glossolalia non semantizzati vengono tradotti e interpretati: in questo caso il senso viene ricondotto a valori istituzionali. Anche il rapporto con un certo numero di nomi propri, come Gesù, Cristo, ecc…, stabilisce un legame tra l’esperienza glossolalica e un luogo di “senso”. In altre parole, mi sembra che la glossolalia si riferisca sempre a una riserva silenziosa di senso. Questa riserva silenziosa è la Chiesa, in sostanza una Chiesa; in tal caso il capitale può proliferare esteticamente nel bel canto o in una pluralità di esperienze; ma non basta per negare l’assenza di questo capitale di senso che giace nascosto lì, nelle grotte del corpo e del luogo.
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Un ultimo elemento che si può semplicemente evidenziare, come punto di partenza, è ciò che concerne la voce, perché è vero, io penso, che l’esperienza religiosa sia stata da sempre un’esperienza dell’orecchio e l’audizione di una voce. Nella tradizione cristiana e ancor prima nella tradizione ebraica, alla fine, è la voce di Dio che parla. Una voce che non è una qualunque, è sempre la voce dell’altro, è sempre una voce ingiuntiva. Ovvero: chi chiede, chi prescrive è una voce legata a un’assegnazione che designa un posto e dunque che identifica; è una voce che si marca sul corpo, che si traccia, che organizza e, infine, è una voce originaria: è la voce dell’inizio; è quindi come una voce materna. In psicanalisi, per esempio, la voce è sempre considerata appartenente alla sfera del “sopra di me”. Sempre ciò che viene da un alto, sempre dalla parte di ciò che strapiomba, sempre, anche, dalla parte di chi ricusa la differenziazione tra il corpo e il soggetto. È una fondazione unificatrice. In tutte le esperienze religiose sotto forma di incanti rituali, nei canti ammaliatori degli stregoni, nelle esperienze di vocazione, di conversione, di tutte queste eruzioni dell’altro sotto forma di una voce: c’è qualcosa che possiede, che è possidente, che mette in causa la possessione del soggetto da parte di un altro – ciò che si ritrova esattamente nei documenti che abbiamo visto – vale a dire, sapere che una voce mi abita, qualcosa di non definito, più vera di me e che crea nello stesso tempo la possibilità della comunione e della felicità individuale. Lo si potrebbe mettere in relazione con quell’antica tradizione sciamanica per cui lo stregone andava nei boschi, nelle foreste ad attendere che provenisse da un uccello, da un albero o da un qualsiasi animale, la voce che gli dicesse chi era lui, chi stava per divenire per «vocazione», insomma della sua assegnazione come stregone. Ebbene mi sembra che nell’esperienza carismatica ritroviamo anche questo ruolo della voce come avvento dell’altro, come ciò che sopravvive e nomina, che assegna insomma a ciascuno dei membri del gruppo il suo nome. E nei documenti quest’ultimo nome che resta e che articola l’esperienza, Gesù, è il mio nome oppure il suo nome? Infine ciò che resta del mio nome proprio: Gesù, che nello stesso tempo è il nome dell’altro. Penso che questa esperienza della voce in un certo senso sia legata effettivamente a un carattere assai stupefacente della glossolalia, ovvero questo “balbettio”: ridiventare bambino, abbandonarsi al gruppo, cioè morire, morire a sé, per essere richiamato dalla voce. E questo rapporto tra la morte e la voce è qualcosa di assai fondamentale e ci si potrà anche chiedere, allora, in quale misura c’è, da qualche parte, una morte da pagare perché ci sia la voce. Rendere possibile in questo luogo questo avvento, questa certezza di una voce.