Due anni fa ero in Trentino Alto Adige e volevo andare a Bologna. Avevo scelto di usare un treno. Arrivai in un paese che erano dieci case, due strade e la ferrovia. Lì bisognava aspettare un treno tedesco, un po’ trascurato ed efficientissimo allo stesso tempo, che dalle montagne quasi austriache avrebbe portato nella pianura italiana. Accanto alla ferrovia, in quel posto, c’era un bar. Così le nostre figurine di amanti pronti a salutarsi entrarono fruste e nervose, disposte in qualche modo alle due ore di attesa come chiunque non pronto a separarsi. Nel bar non pensammo a niente, perché non ci fu tempo: accanto a due esseri umani proprietari del bar c’era un pappagallo imponente, un pappagallo di cinque colori e con un becco grande come il pugno di un bimbo.
Stava seduto, o almeno io immagino che stare con gli artigli in quel modo per un pappagallo sia sedersi, su un trespolo tenuto in aria da una corda legata al soffitto.
Era più grande di un carlino, ma non tremava, ed emetteva suoni sconvolgenti, per noi. Cantava, ed erano bei motivetti che non ho chiesto da dove venissero. Poi parlava. “Acqua!” “Stupido” “Simoncino” “No-io-noooo”. Diceva tutte queste cose come le diremmo noi in un sogno. I proprietari sorridevano e spiegarono tutto con l’aria di sacrificio di chi ama i figli. Il pappagallo era stato comprato da una ricca signora della zona, illegalmente. Era un Ara, nato a Panama, ma ormai sudtirolese da venticinque anni. La sua amica umana lo aveva regalato ai proprietari del bar dieci anni prima, in occasione di una perquisizione della Guardia di Finanza da cui era riuscita a mettere in salvo alcune cose, fra cui lui. Loro così erano diventati i genitori di un pappagallo. Dormiva nel seminterrato del bar, in una grande gabbia coperta da un telo per assicurargli l’oscurità totale. E stava solo esclusivamente quelle poche ore in cui la coppia andava in una casa, vicino, a mangiare, dormire e lavarsi.
Non mi sono mai domandata se avesse trovato che alla fine, visto il freddo del Sudtirol rispetto al clima di Panama, diventare il bambinone da bar di una coppia di umani di mezza età per lui fosse un destino accettabile. Il modo in cui sento questo tipo di animali, i volatili – con imbarazzo e confusione – non mi ha mai permesso di chiedermelo. D’altra parte non ho mai conosciuto qualcuno che tenesse in casa altri tipi di animali strani ed esotici, come una tigre o un pitone. Si può dire che questi animali si ‘possiedono’?, è sempre la domanda che mi torna in mente.
La domanda mi è particolarmente cara, in un periodo in cui va deciso se la madre di mia madre merita o non merita di essere libera. Mia nonna Ivonia ha smesso di ricordare che cosa succede ogni giorno, anche se ci parla come l’Ara panamense-trentino. E quindi nessuno di noi è in grado di dire che cosa desideri per il suo futuro, se il suo grande appartamento o una villa su una collina con altre ottuagenarie. Fuori da qualunque provocazione, voglio parlare di un paragone che di per sé non ha niente d’illegittimo.
Un conto, infatti, sono gli animali nei quali siamo in grado di leggere, da umani, una spontanea ‘disponibilità a collaborare’. Animali che ci restituiscono l’idea di vivere con noi e quella che noi viviamo con loro. Se a volte si connotano in senso economico, biologico o medico le scelte di mucche, tori, galline, falchi, maiali, elefanti, capre, cavalli, muli, cani e gatti questo non toglie che tali animali, almeno fino ad oggi, hanno accettato di condividere certi destini e certi tipi di fare umano. Che cosa hanno fatto per accettarlo? Sostanzialmente sono rimasti. Non hanno lottato o non a lungo, non hanno cercato di farci del male, non seriamente, non sono fuggiti, non la maggior parte. Nei casi più strabilianti, secondo la nostra inesaurita capacità di far fare senso umano al mondo, ci hanno persino ‘mostrato’ che volevano stare con noi, con segnali e gesti dei più commoventi (di come l’umanità immagina se stessa).
Ma come s’interpretano i nostri modi di ‘decidere il senso’ della vita di creature non collaborative? Come si amano criceti, pesci, uccelli, carnivori esotici, rettili, quando si decide di convivere con loro, cioè di farli convivere con noi, nonostante sembrino tanto indifferenti alla loro condizione di compagni degli umani? Quello che sto dicendo, in realtà, porta a un’ulteriore complicazione. Infatti gli animali che ‘amiamo con noi’, sono contrapposti, ci si arriva subito, agli animali che ‘amiamo liberi’. Tartarughe marine, come puledri selvaggi, rondini, farfalle, lucciole, o orsi polari sono animali nella cui ‘vivezza’ trasferiamo senza sforzi la nostra passione umana per la libertà. Sono creature che ‘ci dicono che vogliono essere libere’, e di cui noi godiamo la passione in quanto passione umana, assoluta. Più del gioco di un neonato, più delle imprese di un alpinista, gli animali che non addomesticheremmo mai richiamano l’idea di quello che nessuno di noi può avere, la libertà senza vincoli nel tempo e nello spazio.
Ma restano allora altre due affascinanti categorie, e in queste ecco che tornano l’Ara e la madre di mia madre. Che cosa ne facciamo, cioè, degli animali che non ci manifestano di voler vivere con noi, né di voler essere liberi? Una prima attenzione la meritano quegli animali che qualcuno gode ad addomesticare, per una lotta che conferma una forza tutta umana. Qui stanno soprattutto i carnivori, le varie, varissime bestie feroci che costituiscono un pericolo per l’uomo. Sono, si badi bene, bestie che non si sfidano da pari, come la balena del capitano Acab, ma animali che si possono, in molti casi, anche se in altri no, sottomettere. Sono le tigri domestiche, i pitoni, i ragni velenosissimi, gli orsi, le lontre degli acquari, i leoni del circo di una volta. Dov’è l’amore qui? Si può dire bene ‘nella differenza rispetto alla loro ferocia’. Gli umani amano questi animali nonostante sia sempre possibile che questi animali ci attacchino, ci feriscano, ci tradiscano. Il rispetto che portiamo alla loro selvaticità conferma la nostra civiltà, un essere connessi a loro, perché li capiamo, ma migliori di loro, perché li dominiamo senza eliminarli.
Infine il lato più bizzarro e problematico della nostra rappresentazione degli animali domestici. Quello che permette di amare un pappagallo panamense e scegliere per lui un locale commerciale bolzanino di 30 metri quadrati come orizzonte esistenziale. L’Ara non fa niente per fuggire, eppure qualche volta morde. E’ molto bello, eppure è delicato e richiede attenzioni costanti. E’ di compagnia, anche se in un modo indecifrabile, a detta anche dei suoi proprietari. In quel pappagallo, come nei coniglietti domestici, nelle tartarughine, nelle cavie peruviane, è perlopiù impossibile – soprattutto per chi vuole amarli e averli con sé – distinguere un guizzo identitario che rimandi alla sofferenza in cattività. Ecco che qui la scelta di possedere, di ‘far restare’ e quindi chiaramente anche di far ‘stare’, in una precisa opposizione alla ‘libertà di andare’, assume i connotati più curiosi. A me sembra che leggiamo la convivenza con questi tipi di animali come una ‘reciproca gratitudine’. Ovvero, che attribuiamo a noi ‘l’umanità della cura’ e a loro ‘la docilità dell’essere curati’. Anche, in altre parole, una doppia umanità riflessa: cerchiamo nella loro espressività la ‘scelta’ di aver sopportato l’abbandono della natura per la sicurezza della vita accanto agli umani, e nella nostra dedizione la tolleranza per le loro irreprimibili, inumanizzabili tracce di animalità. Se questo tipo di sentire ci riguardi anche nel caso degli umani che non possono più mostrare, a un certo punto della loro vita, ‘la propria volontà’, collaborativa o di essere liberi, è argomento che ovviamente richiederebbe moltissimo altro spazio. Nondimeno si possono chiudere queste note con delle domande aperte. Una prima domanda riguarda il senso del chiasmo, forse troppo perfetto, fra l’idea di amare un animale ‘proteggendolo dalla natura’, in una convivenza forzata con noi e l’idea di amare una persona che diventa più fragile allontanandola dal nostro sguardo, sottraendola cioè a un’interazione umana che non è più in grado di avere, e preferendo piuttosto ‘custodirla in qualche struttura separata e distante’, in cui quello che di lei è meno umano è più libero di manifestarsi. La seconda domanda riguarda la compassione, cioè la capacità di vedere ‘noi riflessi nell’altro’: c’è davvero qualcosa di diverso, nella docilità che apprezziamo negli animali da quella che apprezziamo negli umani più fragili? La terza, forse, è solo una somma delle prime due. Che cosa ci renderà, a tempo debito, se qualcuno dovesse seguire il destino della madre di mia madre, più adatti a che ci si conceda una ‘libertà dovuta’ (cioè che ci si riconosca meritevoli di continuare a fare una vita che non potremo più scegliere) oppure più adatti a venire riprogrammati in una cattività sicura e affettuosa? Sarà il grado di umanità che riusciremo a conservare? Ma di quale tipo: dell’umanità delle creature libere o dell’umanità di quelle collaborative? L’umanità e l’animalità sono categorie complesse e metterle alla prova nel rapporto con gli animali rischia di dire cose più utili, ma meno comode, sul modo in cui le proiettiamo sugli umani.