Finisco di leggere Il Regno di Emmanuel Carrère mentre la televisione mostra file interminabili di migranti sulle strade d’Europa. Le immagini colpiscono nel profondo, il camminare, lento ma inesorabile, è un atto di forza pacifico che ha un valore archetipico. “Esodo” è la parola che ritorna più spesso tra i giornalisti chiamati a commentare il fenomeno: “esodo” nel tempo della velocità, della virtualità, della controstoria. L’effetto è straniante, obbliga a riflettere, a schierarsi, a rimettersi in discussione. Dai talk show, dai telegiornali,uomini politici di diversa estrazione prendono posizioni anche opposte. Si moltiplicano gli slogan contro persone che “invadono il nostro territorio”, anzi sono i più gettonati, quelli che fanno audience.
Il Regno finisce con un atto di bontà. L’autore-personaggio riceve una lettera da una lettrice: «quella ragazza mi invitava, per il mio progresso morale e spirituale, a lavare i piedi degli handicappati e a far lavare i miei – cioè la trovata più enfaticamente e quasi oscenamente cattolica che si possa immaginare». Emmanuel, dopo una prima esitazione, decide di accettare l’invito. Il Regno finisce con questo gesto, con «un uomo intelligente, ricco, con una posizione», che si china a lavare i piedi degli ultimi. Forse, è un atto di bontà; altri, i cattolici, la chiamerebbero carità; Carrère vorrebbe modificare quella parola, carità, con la più vasta amore. Ma il concetto non cambia, e la domanda che mi salta in mente subito è: è ancora possibile essere buoni?
Dapprima è un interrogativo squisitamente letterario. Potrebbe essere tradotto come: è efficace un finale come questo per un libro tanto ambizioso? Non sarà piuttosto, per parafrasare le parole dello stesso Carrère su quel gesto, “la trovata più enfaticamente e quasi oscenamente buonista che si possa immaginare”? «Per molto tempo ho pensato che avrei finito il libro con la parabola del figliol prodigo», scrive l’autore prima di introdurre l’epilogo definitivo, poi accade il fatto che si impone come finale. Viene descritta quasi come scelta irrinunciabile, ma perché?
Il gesto compiuto dal protagonista può avere senso solo nella persuasione. Carl Michelstaedter intendeva con questo termine, persuasione, chi vive interamente nel presente, chi ha tutta la vita in sé e nell’atto che compie. Il gesto ha senso solo se deprivato di rettorica e perciò di retorica, se non è visto dal di fuori e perciò svelato nella sua possibile inautenticità. L’enfasi oscena di cui parlava lo stesso Carrère dopo aver ricevuto la proposta via lettera, può esistere solo nella retorica: l’atto in sé, il suo compiersi, non ha enfasi, anzi è esattamente il suo contrario: l’enfasi è una questione che riguarda il discorso che quel gesto rappresenta.
Dunque l’atto di bontà può esistere solo nella persuasione, altrimenti diventa buonista e in quanto tale perde di senso e di efficacia. Perciò la domanda ora è: è ancora possibile essere persuasi?
Il Regno,e in generale molta dell’ultima produzione di Carrère, sembra una storia pubblica o privata dell’impersuasione. Impersuaso è il genere stesso dell’intero libro, che non si cala mai nella storia ma la guarda da fuori, al contrario delle non troppo apprezzate Memorie di Adriano: «Sono due scuole diverse, e tutto ciò che si può dire a favore della mia – la scuola del sospetto, del dietro le quinte, del making of – è che è più in sintonia con la sensibilità moderna di quanto non lo sia la pretesa allo stesso tempo altezzosa e ingenua di Marguerite Yourcenar di annullarsi per mostrare le cose come sono nella loro essenza e nella loro verità». Impersuaso è anche il personaggio principale, Luca, dipinto qui come un narratore, più che come un fedele. Ma impersuaso è soprattutto il narratore che inizia il libro raccontando della sua passata e ingenua conversione, che ricorda con ironia, persino con sarcasmo, tutto retorico, tutto esterno all’esperienza. Salvo arrivare poi a riconoscere che il passaggio dall’impersuasione alla persuasione è la massima aspirazione di un uomo.
Le parole che usa rispecchiano quasi alla lettera quelle del saggio di Michelstaedter, quando ricordano alcuni appunti del 1991 sul vangelo di Giovanni, del tempo, cioè, in cui Carrère era credente: «Ci sono frasi sbalorditive, e a dire il vero anche scioccanti, come “Chi mangia me vivrà in me” o “se non mangiate la mia carne e non bevete il mio sangue, non avrete in voi la vita”. Cosa vuol dire avere in sé la vita? Non lo so, ma so che è ciò a cui aspiro. Aspiro a un modo di essere presente al mondo, ad altri, a me stesso che non conosco». Siamo a pagina 75, queste parole sono usate per raccontare ciò che la conversione non può più fare per Emmanuel, eppure descrivono ciò che accadrà 350 pagine dopo, quando davvero la persuasione – e la bontà – arriveranno, non perché imposte da una dottrina, ma perché cercate e trovate dall’io, in un suo percorso unico e personale di crescita. Del resto, «orfani di ideali collettivi […], come ai romani del primo secolo, è rimasto l’io come unico punto di riferimento».
Dunque, da un punto di vista strettamente letterario, questo finale «enfaticamente e oscenamente buonista» funziona, e funziona perché: 1. Conclude un libro che costantemente sembra volto a negarlo, rappresentando narrativamente il concetto caro all’autore di “credente non cristiano”; 2. Segna una via efficace nella lettura del presente.
Faccio queste considerazioni, dicevo, mentre la televisione mostra file interminabili di uomini, donne e bambini pazienti – la pazienza di Giobbe – che camminano lentamente verso il futuro. Matteo Salvini, nel frattempo, spiega che devono tornarsene a casa loro. È uno come altri, uno come tanti, con in più la responsabilità di avere una voce e quindi di condizionare le persone. Mi chiedo se il gesto costruttivo della lavanda dei piedi sia possibile e possa fare bene a persone come lui. Eppure so, ora, che quella deve essere una conquista privata, che l’antirazzismo e l’accoglienza devono essere valori raggiunti nell’intimo dell’io e non dati per scontati, né imposti. Almeno il rispetto degli altri non come atto di logica e di buon senso, ma come atto di bontà, come mozione di affetti, più e prima che come frutto di analisi sociale.
Per il protagonista del Regno la persuasione è possibile solo perché è stata attraversata in ogni modo l’impersuasione e la rettorica. Ma sarebbe possibile per l’antirazzista attraversare il razzismo prima di poter raggiungere senza ombre l’antirazzismo? A una domanda così difficile ha già risposto a suo modo, un autore che ha subito in maniera mostruosa l’insensata intolleranza altrui, ovvero Primo Levi, che scrive in un’autointervista che «l’avversione contro chi è diverso da noi [è], in origine, un fatto zoologico: gli animali di una stessa specie, ma appartenenti a gruppi diversi, manifestano tra di loro fenomeni di intolleranza» e quindi «guai se tutte le spinte zoologiche che sopravvivono nell’uomo dovessero essere tollerate!».
Carrère fa i conti con l’impossibilità della fede (e della carità e dell’amore che porta con sé) per giungere ad una forma propria di fede e di bontà; così di fronte all’evento spiazzante delle migrazioni, possiamo e dobbiamo fare i conti con la nostra istintiva diffidenza (la “spinta zoologica”) per giungere liberamente all’atto di bontà, all’accoglienza come mozione di affetti.
Mi immagino Matteo Salvini che si china di fronte a un migrante, a un profugo scampato alla guerra, alla fame, al viaggio in condizioni di pericolo costante per la propria vita. Non so se sia uno scherzo ironico o una cosa seria, ma mi immagino che provi la stessa emozione di Carrère: «Guardo i suoi piedi, non so a che cosa sto pensando. È veramente molto strano lavare i piedi di uno sconosciuto. Mi torna in mente una bella frase di Emmanuel Levinas sul volto umano, che mi ha citato Bérengère in una mail: appena la si vede, non si può più uccidere. Bérengère diceva: sì, è vero, ma è ancor più vero per i piedi: i piedi sono ancora più poveri, più vulnerabili, sono la cosa più vulnerabile: il bambino in ognuno di noi. E anche se lo trovo un po’ imbarazzante, mi sembra bello che della gente si riunisca per stare il più vicino possibile a ciò che c’è di più povero e vulnerabile nel mondo e in se stessi. Mi dico che è questo, il cristianesimo».
Ma è un attimo, e poi mi risveglio. E mi dico che questo sogno, questa visione, devo tenermela per me, che non devo dirlo a nessuno, che nessuno capirebbe un’immagine così «enfaticamente e quasi oscenamente buonista». Che il nostro mondo è ancora pieno di rettorica, impersuaso, e questo finale, perciò, suona ridicolo, non può funzionare per noi.